Kitabı oku: «L'ignoto: Novelle», sayfa 3
III
Entrai nella stanza del direttore.
Stazza, impiedi davanti alla costui scrivania, si voltò. Mi venne incontro e mi tese le mani.
– Mille scuse! Ma io non potevo andarmene senza averla salutato. Addio, caro signore… Io me ne vado.
Interrogavo con gli occhi il direttore e gli altri miei compagni, che circondavano Stazza, silenziosi.
– Un fatto deplorevole – disse il direttore, rompendo il silenzio – L’ottimo nostro Stazza è stato collocato a riposo. Ci lascia.
– Come! – esclamai – Così! Di punto in bianco?
Stazza chinò la testa.
Il direttore con la punta del tagliacarte additò un foglio sulla sua tavola.
– M’arriva ora la comunicazione ministeriale. Le solite sorprese. Ma, Dio mio, non avrei mai immaginato!..
Le mani di Stazza mi si protendevano, tremanti. Lasciai cadere in quelle le mie, e le strinsi, due, tre volte. Guardai in faccia il colosso: era turbato, ma si sforzava di parer tranquillo. Soltanto s’era arrossato un poco più agli zigomi. Si passò una mano sulla fronte, si guardò intorno, tornò a voltarsi verso la tavola del direttore, smarritamente.
– Dunque… – gli balbettò – Se lei mi permette… Vado. Spero bene di rivederla, qualche volta…
– Macché! Ma vuole andarsene proprio adesso? Ma v’è tempo. Guardi, faccia come se il decreto non glie l’avessi comunicato ancora…
– No, no! – disse lui – Mi permetta, mi scusi. Voglio essere ossequente…
– Peccato! – esclamò il direttore, come lo vide uscire e scomparire dietro l’uscio – Dopo trent’anni!
Si levò, s’incamminò fino alla porta, si arrestò sulla soglia. Di fuori s’udivano le voci degl’impiegati, la voce di Stazza che si licenziava, confuse.
Il direttore rientrò. Andò al balcone, guardò nella via, senza badarvi.
Eravamo rimasti soli. Egli tornò addietro, s’appressò alla scrivania, vi cercò qualche carta, la lesse e la buttò lì, sulla tavola, con un moto sdegnoso.
– Mi permette? – chiedevo.
– Guardi, guardi! – esclamò – Guardi un po’ con chi mi sostituiscono quel disgraziato. Aspetti un momento… Legga pure.
Mi pose quella carta sotto gli occhi.
– Come! De Laurenzi!
– Già, s’intende. Ha brigato e v’è riescito. Entra in organico e prende il posto di Stazza.
Soggiunse, dopo un momento, rimettendosi a sedere alla sua scrivania:
– S’accomodi pure.
IV
Passò un mese. In questo tempo gli studenti fecero chiasso, al solito, e ruppero vetri e banchi: l’Università fu chiusa e il numero de’ lettori, nella nostra biblioteca, s’accrebbe del doppio. Vi fu un gran da fare e Stazza fu dimenticato. Soltanto qualche volta, in un momento di tregua, il suo nome ricorreva nel vaniloquio degl’impiegati raccolti nella sala della distribuzione intorno all’ultimo bollettino del ministero, ove apparivano – già indicati, con una crocetta, da qualche necrologo de’ nostri compagni – i nomi di coloro che o eran morti o erano stati collocati a riposo. La constatazione de’ decessi e de’ ritiri– un refrigerio per i superstiti – occupava quelle constatazioni e quelle conversazioni fredde e indifferenti; per lo più si discuteva sugli anni di servizio del croce segnato o sulla somma della sua pensione. Ma la psicologia di queste sparizioni – un legame di troppo sottili e pietose induzioni che in altri spiriti potevano forse rampollare dall’esame di casi somiglianti – non veniva certo a turbare l’animo de’ miei compagni. Stazza, dopo tutto, sottobibliotecario a tremila, liquidava, come si dice, quasi dugento lire al mese. Una fortuna per un illetterato, una tabula rasa come lui, che la doveva a quei benedetti tempi borbonici ne’ quali era così facile di entrare, senza le qualità di cultura che vi occorrono, in un instituto scientifico come di mettersi a tavola in una pubblica taverna.
– Vuol vedere Stazza? – mi fece un di que’ giorni l’usciere addetto alla spolveratura della mia camera.
Con uno strofinaccio tra le mani s’era avvicinato al balcone chiuso e guardava nella via, attraverso a’ vetri.
– Venga, venga! Eccolo lì…
Mi levai e corsi al balcone.
– Lo vede?
– Dov’è?
– Non lo vede? Lì, seduto fuori al caffè di rimpetto. Lo vede? A quel tavolo a sinistra della porta. Eccolo che leva gli occhi. Guarda quassù, guarda i nostri balconi.
– Difatti.
Il colosso era lì, seduto a un tavolinetto tondo sul quale stavano il vassoio e la chicchera del caffè. Posava le mani sulle ginocchia e di volta in volta alzava gli occhi e li faceva trascorrere sulla facciata della biblioteca, lentamente.
– Così fa ogni giorno, da un mese – disse l’usciere.
E ripassò il panno sui vetri perchè vedessi meglio.
– Arriva al caffè sulle nove ore, si mette a sedere lì fuori, e vi resta fino a mezzodì. Poi torna dopo pranzo e si rimette allo stesso tavolino e non se ne leva che alle quindici.
– E tu come fai a saper tutto questo?
– Me l’ha detto il caffettiere. Il signor Stazza gli dà una lira al giorno, per l’incomodo.
Mi rimisi a sedere, pensoso. L’usciere, che non si partiva dal balcone, rideva e continuava a guardare rimpetto. E come l’alito suo tepido appannava la vetrata di volta in volta, egli tornava a soffregarla con lo straccio.
– Insomma, – seguitava – la biblioteca non se la vuol proprio scordare. Se n’è dovuto andare e nemmeno la lascia in pace. Adesso ci fa all’amore da lontano, tutti i giorni.
Non risposi. Ordinavo macchinalmente un mucchio di schede ed aspettavo, con una certa nervosità, che l’inserviente smettesse e se ne andasse.
– Ecco che s’addormenta… Venga a vedere. S’è addormentato…
Tornai a levarmi e mi accostai daccapo alla vetrata. Stazza aveva allungato un braccio sul tavolino e reclinata la testa sul braccio. Il cappello di paglia gli era scivolato di su le ginocchia a terra. Un lustrascarpe, che aveva posta la sua cassetta all’ombra, a pochi passi, glie lo raccoglieva e lo posava sul tavolino, accanto al vassoio.
L’ora meridiana avanzava: il sole batteva su’ muri. Uscì, a un tratto, dalla bottega il garzone del caffettiere e si mise a girar la manovella per fare abbassare la tenda, che scese, lenta. Sul deserto e largo marciapiedi, su’ tavoli, su Stazza si diffuse un’ombra uguale, per buon tratto.
Mancava qualche diecina di minuti alla chiusura della biblioteca. E svogliatamente, aspettando che trascorressero, ricominciavo a ordinare le mie schede. L’inserviente se n’era andato: le vaste sale, fino a poco prima turbate dal molesto vocio de’ distributori, s’acchetavano, adesso, in una pace profonda.
Improvvisamente – mi dimenticavo nella mia bisogna – il grande orologio della stanza de’ manoscritti suonò le quattro. Vibrò quel suono nel silenzio, con un tintinno allegro, come di cristalli percossi. Era l’ora. M’avviai alla porta.
Ma, sulla soglia, uscendo, m’arrestai, sorpreso. Lì sulla soglia, sul ballatoio, su per le scale vedevo agitarsi una folla attonita, mormorante, che quasi m’impediva il passo.
Risaliva le scale, di furia, Pandolfelli, un distributore.
Una voce gli chiese, dal balaustro del ballatoio:
– Di’, è vero? È vero?..
Pandolfelli rispose, alto:
– Sì, è morto.
Mi vidi di faccia l’inserviente, in quel punto. Apriva le braccia, smarrito.
– Stazza! – mi fece.
E battè palma a palma, convulso:
– Lì davanti al caffè, poco prima. Un colpo. Si ricorda? Quando pareva addormentato.
Apparve il direttore, pallidissimo. Accorrevano altri compagni. Tre o quattro lettori s’indugiavano sul ballatoio, senza comprendere.
Il direttore mi chiese:
– Scende?
Non mi sentivo la forza. Ma lo seguii, e ci seguirono pur tutti gli altri.
Nella via, come uscimmo dal palazzo della biblioteca, il caffè ci apparve subito, rimpetto.
La folla si pigiava davanti alla porta.
Pandolfelli si fece largo ed entrò nella bottega.
Subito ne riuscì, annunziando:
– L’hanno posto in una vettura e portato ai Pellegrini. Ma era morto. Ho parlato col medico che s’è trovato a passare. Una sincope.
Uscì sulla via il padrone del caffè, con le lagrime agli occhi.
– Quel povero signore! Che disgrazia, hanno visto? Veniva qui ogni giorno, sempre alla medesima ora. Anzi, ieri, m’aveva detto, col suo solito buon sorriso: Lei si meraviglia, non è vero? Già: sono puntuale. Mi hanno mandato via di là – e mi mostrava il palazzo ove stanno lor signori – ma io ci continuo a stare, col pensiero, almeno.
La moglie del caffettiere, una piccola donnetta, era uscita anche lei sulla strada.
Mi pose una mano sul braccio. Mormorò:
– Ma è vero che l’hanno mandato via?
La guardavo, senza risponderle. Udivo dietro di me le voci, tranquille, dei miei compagni.
Diceva Pandolfelli a un altro:
– È morto in orario, hai visto?
La voce di quello che segnava le crocette fece notare lenta:
– Un posto vuoto.
«COCOTTE»
I
Erano le cinque ore del mattino. La grande lampada posta davanti alla statua di legno di Sant’Ignazio ardeva nella cappella del carcere femminile di Santa Maria ad Agnone, ancora addormentato. Fra poco le recluse avrebbero udito la campana della sveglia e sarebbero scese a borbottare le solite preghiere nella penombra di quel tempietto freddo e malinconico, i cui quattro finestroni affacciano sul tortuoso vicolo afrodisiaco intitolato dallo stesso nome delle prigioni e frequentato da soldati e da male femmine.
In quell’ora – l’ottobre era agli ultimi suoi giorni – il vicolo, affatto deserto, offriva a’ sorci o a qualche cagnuolo abbandonato e vagante la copiosa vettovaglia de’ suoi rifiuti e della sua spazzatura, ammonticchiati qua e là. Due fanali a gas, dal muro di faccia alle carceri – il muro cieco e altissimo d’un monastero di Clarisse – stendevano due braccia di ferro, una delle quali, spiccandosi di su la piccola porta antica del monastero, coronata da un festone marmoreo e dallo stemma quattrocentesco d’una famiglia illustre, si puntava proprio rimpetto a uno dei finestroni della cappelletta e ne inquadrava la sagoma sulla interna e prospiciente parete della chiesuola, ove parte d’un vecchio quadro se ne illuminava anch’essa, vagamente. L’altro fanale, molto più lontano, stava sulla garitta della sentinella, addossata allo stesso muro claustrale lì ove il vicolo cominciava a far gomito, e a qualche passo dalla porta delle prigioni.
Il silenzio era alto, la notte fresca.
La sentinella – un soldato di fanteria, che s’era posto il fucile ad armacollo – passeggiava con le mani in saccoccia, e zufolava. Talvolta, lasciandosi a dietro per buon tratto la sua garitta, allungava il passo fino all’arco depresso ed oscuro ove il vicolo sbucava, nell’alto, sulla deserta via de’ Santi Apostoli. Talvolta, soffermandosi, piantato sulle gambe allargate, il soldato interrogava lungamente, con gli occhi in su, quella fetta di cielo che le alte mura della prigione e quelle del monastero pareva che attingessero con le loro creste taglienti: un pezzo di cielo sereno, rischiarato come da un lume prossimo ed invisibile. Era imminente l’alba. Difatti, a poco a poco, cominciò a mancare sulla interna parete della chiesetta quel riverbero giallastro che il lume del fanale vi stampava. Si liberarono a mano a mano dall’ombra l’altare, le scranne in fila, le pareti coperte di vecchie tele e di quadretti votivi, il piccolo confessionale di cui lo sportello era rimasto schiuso, e uno scarabattolo a vetri, custodia d’un presepe addossato a uno de’ pilastri.
Pareva come se da gran tempo quel luogo fosse rimasto abbandonato: vi avevano conquistato ogni angolo le ragnatele, la poca cura della suppellettile ve la lasciava coprirsi di polvere o di muffa e l’umidità esalava un tanfo di terriccio rimosso. Continuando la luce a mostrare quelle cose la breve navata del tempio anch’ella se ne abbeverò a poco a poco tutta quanta. Si svelò, dietro l’altare, la porticina della sagrestia, e l’altare medesimo, carico di frasche e di candelieri, si bagnò tutto del freddo chiarore mattinale: la tovaglia ad orlo ricamato che v’era stesa sopra vi sembrava appiccicata con l’acqua. E come, per un vetro rotto d’uno de’ finestroni, penetrava là dentro il vento a quando a quando e sibilava, qualche volta, davanti alla statua di Santo Ignazio, la fiamma della lampada, investita da una folata più veemente, allora si inclinava e pareva che si volesse spegnere a un tratto.
Era giorno, adesso. Le ore suonavano al vicino orologio dal palazzo della Vicaria, lente e chiare. Nel vicolo s’arrestò in quel punto il romore de’ passi della sentinella: il soldato contava que’ rintocchi della campana e aspettava il cambio. Difatti s’udirono altri passi frettolosi e pesanti accostarsi dal lontano e subitamente davanti alla garitta si posarono sul selciato, con un romore breve e ferreo, i fucili: una voce dava la consegna, nel silenzio: e la voce della sentinella rimossa le rispondeva piano, brevemente. Poi daccapo risuonarono i passi cadenzati, e s’allontanarono.
D’improvviso la porticella della sagrestia s’aperse tutta quanta. A una a una entrarono di là nella chiesa dodici suore della Carità e sedettero a un banco, rimpetto all’altarino. L’ultima, una vecchietta, si chiuse la porta a dietro e rimase in piedi, ritta, d’avanti alla mensola dell’altare. Non s’era udito romore e quelle donne erano come scivolate sul pavimento: dalle loro gonne molli e copiose non s’era partito alcun fruscìo. Ora, nella mezza luce, le cornette bianche s’allineavano, immobili.
Un colpetto di tosse ne scosse una, per qualche tratto.
II
La suora addossata all’altare si fece il segno della croce e disse:
– Sorelle mie, questo in cui ci troviamo per ordine della nostra reverenda madre generale è il carcere femminile detto di Santa Maria ad Agnone. Fino ad ora la cura delle sciagurate donne che sono qua dentro è rimasta affidata ai Gesuiti. Ma vi sono tante necessità, tante circostanze, non so come dire, per cui in una prigione femminile valgono meglio le donne che gli uomini. Insomma, s’è creduto necessario di farci venire qui a regolare non dico meglio, perchè i buoni padri Gesuiti lo hanno fatto assai bene per quindici anni, ma con affetto, con amore di sorelle, con tutte le cure di cui hanno bisogno, queste povere anime vissute nel peccato.
S’interruppe. Il suo sguardo percorse la bianca fila delle cornette e vi frugò sotto, come a interrogare le pallide facce che ombreggiavano, in parecchie delle quali sarebbe stato difficile leggere: erano volti da cui nulla traspariva per gli occhi, erano pupille immote, inespressive, abituate al riverbero della passività di anime apatiche, depresse dalla preghiera e dalla regola.
– Ho ancora qualche cosa da dirvi – soggiunse la superiora.
E mentre la chiesuola si rischiarava tutta quanta e di fuori già suonavano voci confuse nel vicolo, ella annunziò con voce più alta e più lenta: – Non tutte voialtre rimarrete qui, in servizio. Vi resterò io con otto di voi. Basteremo.
Subitamente fu picchiato forte all’uscio della chiesa. Di fuori, dal vasto cortile ove le recluse s’adunavano ogni giorno, una rauca voce femminile urlò:
– Monache! Monache! Ove siete?..
La superiora additò l’uscio alle compagne e ordinò:
– Aprite.
La porta s’aperse. Un fiotto di luce si riversò dal cortile nella chiesa e ne illuminò le ultime scranne. Tre o quattro donne apparvero sul limitare dell’uscio e vi si arrestarono, irresolute.
Una di esse, con le mani in cintola, protese la testa arruffata.
– Ma dove siete? – gridò.
S’udiva, nel silenzio, il loro ansimare: come se avessero voluto per le prime arrivare alla porticella della chiesa quelle donne respiravano forte. E, fra tanto, per la scala dei dormitorii altre recluse scendevano di furia nel cortile, urlando, ridendo, schiamazzando.
– Fuori, fuori! – strillò una che sopraggiungeva – Venite fuori, monache! Vi vogliamo vedere!
Si fece largo tra le compagne, stese le braccia e tornò a gridare, in fondo alla chiesa:
– Fuori! Fuori!
Le fece eco un urlio assordante.
– Fuori le monache!
Il cortile s’era affollato. Cento braccia si levavano, cento bocche continuavano a urlare. Sul pozzo che non s’usava più e sulla cui bocca era stata posta una tavola, tre o quattro delle recluse erano saltate in piedi, per veder meglio. E a un tratto, nella folla, avanzando, le suore apparvero e si raccolsero in un silenzioso gruppo, di faccia al pozzo.
La superiora balbettò:
– Figliuole…
Gli urli copersero la sua voce. E si mescolarono a quello schiamazzo spaventevole le apostrofi più insultanti, le più feroci invettive, delle risate scroscianti, delle frasi impure e minacciose. Intanto la scala de’ dormitorii seguitava a rifornire il cortile: ora, più lentamente, scendevano le anziane, orribili megere, discinte, qualcuna scalza perfino, qualcuna appoggiata a un bastone.
Vi fu un momento di silenzio. La fila delle suore si rinserrava. Strette l’una all’altra, pallide, palpitanti, gli occhi pieni dell’orrore della scena, esse affisavano sullo spettacolo insolito il loro sguardo impaurito. E s’udiva in quel silenzio un balbettio cadenzato, quasi un canto sommesso: una idiota sedeva al sommo della scala dei dormitorii e cullava sulle ginocchia un fantoccio di stracci la cui testa informe aveva incappucciata in una piccola cuffia bianca. Il fantoccio andava su e giù in grembo all’idiota, ed ella, piegata su quel sudicio fagotto, seguitava a ninnarlo:
– Oh, oh! Dormi, figlio… oh, oh!..
– Taci! – le gridò una vecchia – Finiscila!.. Tutta la santa giornata il lamento di questa scema!
– Insomma? – fece un’altra, rivolta alla superiora – Tu non parli, eh, mamma grande?
– Ve lo dico io perchè non parla – esclamò un’altra – Questa santa donna…
Scoppiò a ridere. E mosse incontro alla suora, minacciosa.
III
Era una delle più singolari di quelle sciagurate. Alta, bionda, vestita d’un camice roseo dalle larghe maniche orlate d’un pizzo gialletto che s’era sciupato e sbrandellato, ella aveva dei braccialetti a’ polsi, e al collo nudo un filo d’oro da cui pendeva una medaglietta. Con la mano sinistra ora raccoglieva sul fianco la vestaglia, e appariva da quel lato, fino al polpaccio, la gamba calzata di seta nera; a’ piedi aveva scarpini bianchi, trapunti, d’un taglio elegante, e li trascinava su pel sudicio selciato del cortile. Certo era stata bella un tempo: ma adesso faceva paura. La sua voce rauca, alcoolizzata, d’un timbro maschile, superava tutte le altre. Un tremito spasmodico le percorreva di volta in volta le labbra, a’ cui umidi angoli si raccoglieva una lieve e lucente schiuma bavosa. De’ grandi occhi azzurrini nei quali palpitava quell’aura epilettica onde lo sguardo si esprime singolarmente tra il terrore e lo spasimo, entro gli orli arrossati delle palpebre ammiccavano di tanto in tanto, come offesi dalla troppa luce.
– Non parla poichè ha scorno! Noi le facciamo scorno, si capisce! Non è avvezza, la santa donna!
Fece un altro passo. E posò la mano sulle braccia conserte della suora. Sporse il capo. L’affisava muta.
– Ti secca, non è vero? Hai ragione. Delle suore tra le omicide, le ladre, le male femmine!..
Incrociò le braccia anche lei. E a una a una, curiosamente, squadrò le altre monache rimaste mute anch’esse e immobili. Nessuna di loro sostenne quello sguardo sfacciato: le suore abbassarono gli occhi, rabbrividendo.
– Dunque rimarrete con noi, non è vero? – disse la bionda – Onoratissime!
– Rispondi! – urlò un’altra alla superiora – Rispondi a Cocotte!
Allora la superiora rispose:
– Sì. Nove di noi. Le sceglierete voi stesse.
– Come! – disse quella che chiamavano Cocotte– Ma davvero?
– La nostra madre generale vi accorda questa facoltà.
– Voialtre! La sentite? Abbiamo il diritto di scegliere!
E Cocotte si voltò a dietro e chiamò le compagne con la mano.
Cento voci urlarono:
– Alla scelta! Alla scelta!
L’orribile turba frenetica si riversò sulle suore e le circondò, le agguantò, se le contese. Proruppe un assordante vocio.
– Io voglio quella!
– Io questa!
– Io quest’altra!
– La bruna!
– La grassa!
– Quella più modesta!
– Di qua, di qua! Da questa parte!
– Silenzio, silenzio! La vecchia vuol parlare!
– Ascoltate!..
– Un momento! Bisogna contare le prescelte! – disse una dal viso sconciamente butterato – Devono essere nove, con la vecchia.
Sotto il sole, davanti al pozzo, la fila delle suore aspettava.
Ora la butterata, con l’indice teso, s’era messa a contare.
– Una, due, tre, quattro, cinque e sei…
– Otto devono essere, le giovani – la interruppe Cocotte– E ne manca una…
Lievemente una mano le sfiorò il gomito. Una voce le mormorò:
– Prenda me…
Cocotte si volse. La suora che le aveva parlato ora chinava la testa: le sue braccia, nelle larghe maniche chiuse a’ polsi, pendevano come abbandonate. Un tremito impercettibile le correva lungo le mani bianche e nervose, che a un tratto s’afferrarono alla molle sottana azzurrina, convulsamente, e se ne empirono, come se volessero strapparla…
Gli occhi arrossati della vecchia peccatrice cercarono di spiare tra quel soggolo e quella cornetta.
Gli urli ricominciavano.
– Alla scelta! Alla scelta!
Disse Cocotte:
– Tocca a me. Scelgo io.
Stese la mano: prese il mento della suora tra pollice ed indice e lentamente le sollevò la testa. Un viso quasi ancora infantile, una pallida faccia di giovinetta si coperse subitamente di luce. Due grandi occhi cilestrini s’affisarono sulla reclusa, ansiosi e sbigottiti.
– Ma guarda! – fece Cocotte– È carina!.. E come ti chiamano?
La suora balbettò:
– Suora Vittoria.
Cocotte le mise la mano sulla spalla, si volse alle compagne e annunziò:
– Io scelgo questa.