Kitabı oku: «L'ignoto: Novelle», sayfa 5
II
Cominciò Giffuni a parermi detestabile, a un tratto.
Fin qua, da un paio d’anni durante i quali vi avevo tranquillamente esercitata la mia professione di medico condotto, nella piccola cittadina mercantile e malinconica io avevo represso, fin da quando vi ero arrivato, ogni moto ribelle del mio carattere così ombroso, è vero, e pur così passionale e sincero. Bisognava mutar vita addirittura. Io stesso, al quale erano state offerte residenze migliori, avevo preferito questa che mi dicevano uggiosa e difficile e dove m’avevano accompagnato da Napoli, in una triste giornata di marzo, il vento, la pioggia fitta e un’aria scura e fredda, così che m’era parso come se m’avessero inteso e compianto fino gli elementi della natura. Una piccola camera ch’era stata d’un pretore e poi d’un commesso viaggiatore, lì, in via del Mercato, in un vecchio e sdrucito palazzo del seicento, detto la Casa del Conte, m’accolse da’ primi giorni in cui giunsi. M’ero, a mano a mano, costituita una clientela, difficile ma sicura, tra la gente del vicinato: e l’onesta mia maniera di vivere me l’aveva accresciuta. In provincia si continua ad essere stimati per questo. Avrei pure, voglio dirlo, potuto bene ammogliarmi là basso: ma mi sarebbe toccato di seppellirmi a Girifalco, addirittura in mezzo a contadini sorvegliati e maltrattati da qualcuno di que’ possidenti che mi avrebbe, sì, preso a genero ma del quale avrei finito per ereditare con le sostanze pur quella missione autocratica.
In verità, già da quattro o cinque mesi prima del fatto dell’ercole, scrivevo e riscrivevo a Napoli per farmi cavar via da Giffuni. Se vi dico che dalla sera delle coltellate a quel Rigo il mio desiderio assunse quasi una forma di nevropatia, d’impazienza, di sofferenza angosciosa crederete che io esageri. Ma fu proprio così. La mattina dopo quel fatto l’ercole m’era passato sotto gli occhi mentre mi asciugavo la faccia al balcone, dietro i vetri appannati. Vedevo venire dal mercato alla mia volta una folla che a mano a mano ingrossava. Fregai l’asciugamani a un vetro e distinsi ben tutto nella via. L’ercole era lì, tra’ carabinieri, ammanettato. Gli avevano buttato addosso un gran cappotto ed egli, muto, procedeva, scotendo il capo. I carabinieri, infilavano i guanti. Lo conducevano alla prigione.
Non mi vide. Ah, fu meglio! Roba da niente, direte, solite storie che seguono tutti i giorni, cose che s’incontrano a ogni passo. Sì, è vero. E pur io non potrò mai dimenticare quel triste corteo silenzioso, sotto quel cielo opalino di Giffuni, nell’augusta via fiancheggiata da scure bottegucce – e quell’infelice che strappavano al romoroso suo Circo per chiuderlo in un carcere.
Per tre o quattro giorni si rifece alla memoria degli occhi miei, doloroso e insistente, quello spettacolo. Seppi fra tanto che Bamboccetta, la piccina, se l’era portata via la madre; che per la Gilda, rimasta a Giffuni, s’era fatta una colletta – e mi vi dovetti anch’io sottoscrivere – per farla partire per Tricarico ov’ella andava a cascare addosso all’impiegato postale; che la roba dell’ercole era stata sparsa un po’ qua un po’ là in consegna al Tribunale. I carabinieri presero l’orso bianco e lo chiusero in un sottoscala: il figlio del sindaco accolse i due cavalli nella sua scuderia. Ogni giorno, a prima ora e daccapo verso il tramonto, s’udivano gli urli rauchi dell’orso, che forse aveva fame.
Nel gennaio dell’anno seguente ottenni di passare a Casagiove, in Terra di Lavoro. Toccavo, come si dice, il cielo col dito. Casagiove è lontano da Santamaria di Capua un tiro di fucile e da Santamaria si viene a Napoli in un’ora di ferrovia. A Napoli, nelle frequenti scappate che vi feci, tastavo terreno ogni volta. Alla residenza leggevo giornali, e badavo a guardare in terza pagina, se mai vi fossero annunzi di concorsi. Mi facevo fin mandare da Napoli la Gazzetta Ufficiale, da un mio ex compagno di scuola diventato giornalista.
Passarono così altri due anni, quando la morte di un mio zio mi fece ottenere un congedo di quindici giorni, durante i quali mi sostituì a Casagiove un medico di Caserta.
A Napoli volli, tra l’altro, rivedere e salutare i miei maestri. La vecchia via di Sant’Aniello, che avevo tante volte percorso per recarmi all’Università alle cattedre anatomiche, io ritrovavo immutata, deserta sempre e silenziosa, con la sua piazzetta nuda e sudicia, sparsa di rifiuti e di mucchi di pietre tra le quali perfino era nata l’erba. Ripensavo, attraversandola, agli allegri anni in cui m’ero posto, come si dice, in carriera, all’anno emozionato in cui m’ero addottorato medico, all’internato nello spedale degl’Incurabili, così impressionante per me, in quel vasto e solenne ricovero, ove avevo tanto visto soffrire.
Ora ne ascendevo lentamente le scale marmoree e dietro di me vi si affaticava un’itterica contadina, incinta, che sospirava forte e a ogni gradino s’arrestava a ripigliar fiato. Di sopra, appoggiato a due infermieri, scendeva al gran cortile soleggiato – ove i parenti, aspettandolo, gli preparavano cuscini in una carrozza – un giovane convalescente, ancora assai pallido, ma così lieto, così felice d’andarsene!
Gl’inservienti mi riconobbero.
– Oh, signor dottore nostro! Riverito dottore! Beato chi vi rivede!
Mi sorrideva anche il convalescente, con lievi cenni di saluto. E, a poco a poco, rividi, lassù, tutti. Nella spaziosa e luminosa Sala Cotugno, ch’era stata, anni a dietro, la mia seconda casa, rividi le suore, gl’infermieri, il farmacista, il reverendo confessore, sempre florido e roseo tra tante bianche facce esangui.
– Guardate chi vi riconduco! – esclamò l’adorabile vecchia suor Agata che, al solito, m’aveva preso per mano e ora mi poneva di faccia al primario professore X… mentre costui dalla sala Severino entrava nella Cotugno in mezzo ai discepoli.
– Giovannino! – fece lui, che usava di chiamar ciascuno col suo nome di battesimo e ricordava mirabilmente quelli di tutti – Chi si rivede! Che c’è? Ritorno del figliuol prodigo? Vieni, vieni dentro…
Si avviò, seguitando:
– Benissimo. T’invito a pranzo. Uno che s’è fatto onore, signori miei. Medico condotto in Terra di Lavoro. Bene, benissimo. Come dite voi, suor Agata? On revient toujours…
S’era arrestato presso un letto intorno al quale già quattro o cinque degli scolari si radunavano.
Il malato con un bianco berretto da notte in capo, col petto scoverto, si lasciava tastare.
Lo riconobbi subito. Era l’ercole di Giffuni.
III
– Ma sa che ho pensato a lei tante volte da che sono qua dentro? Mi dia la mano almeno: ora non glie la lascio più come quella sera, si ricorda? Mi avrà perdonato? Non può immaginare cosa mi sentivo dentro, allora… Non si mette a sedere?
Sedetti accanto al letto. La mano che premeva la mia sulle coltri era calda: mi pareva febbricitante. Egli era rimasto addossato a’ cuscini, col bianco e largo petto scoverto.
– Ricopritevi – dissi – E non vi rigirate per guardarmi. V’ascolto lo stesso.
L’ercole sorrise, con quell’aria sua solita d’amarezza e di bontà. Il suo corpo rimase immobile. La testa soltanto si rigirò lentamente dalla mia parte.
– Egli è che ho piacere di vederla. Non la vedo da tanto tempo! Saranno tre anni, o sbaglio?
– Due anni e tre mesi. S’era in ottobre…
– È vero… E lei ricorda quella sera della fuga? Lo sa che la Rosina mi scappò via col pagliaccio? Ah, lo sa? Bene. C’era stato di mezzo quel Rigo, il gobbo, che aveva preparata la fuga e mi sorvegliava. L’ombra che scivolò lungo il muro… La ricorda? Rigo. Maledetto!..
Si tacque per un momento. Respirava forte, quasi a stento.
Stavo per dirgli che smettesse di parlare quand’egli continuò:
– Presi un anno e tre mesi di prigione per ferite volontarie. Rigo se la cavò con quaranta giorni d’ospedale: ha il diavolo che l’aiuta, il mostro. E poi? Poi, si figuri, caro lei, che vita allegra quando sono uscito dal carcere! Tutto perso, bestie, roba, arnesi: una rovina. E poi la solitudine. Solo, solo! Tutti scomparsi, e io solo come un cane!
S’accendeva e ansimava. Il respiro faticoso gli sollevava le coltri sul petto.
Per poco rimase silenzioso. Qua e là degl’infermi si lamentavano, qualcuno chiedeva da bere, con un piagnucolio da bambino.
L’ercole riprese, più lentamente e più basso:
– Ho ricominciato a lavorare, da solo. Cercavo di farmi coraggio. Ma che vuole, a volte mi cascavano le braccia. I ricordi, la mancanza di esercizio… Specie i ricordi, caro lei, che mi tormentano sempre. Cercavo di scordare, d’avvezzarmi a questa vita nuova. Macché! E a un bel momento ecco che principia a pungermi in petto qualcosa come una spina… Ma davvero, sa, un dolore, una fitta che lei non se lo può immaginare…
Lo guardai più attentamente. L’abito della diagnosi da’ caratteri fisici soffermava il mio sguardo sullo sciagurato. Labbra esangui, muscoli denutriti, cianosi al lobulo degli orecchi, a’ pomelli, al lobulo del naso: l’occhio destro gonfio, il collo tumido, turgide le giugulari…
– V’hanno osservato il petto? Picchiato in petto?
– Picchiato? Altro! Non fanno che questo. Ma scusi, che vogliono dire tutte queste linee che mi segnano in petto con la matita rossa?
– Regioni in cui si ritrova ottusità – mormorai, come se parlassi a me stesso.
Egli rimase muto per un poco, meditando. Poi soggiunse:
– Ha mai veduto la Rosina?
– No: mai più.
– Lo sa che mi portò via pure Bamboccetta? La piccola?.. Figlia del pagliaccio, sa, non mia… Lo lessi in certi pezzettini d’una lettera che rinvenni laggiù, nella baracca…
La sua voce si velava. Egli era commosso. Strinse i pugni, fece per sollevarsi e non potette. Levò gli occhi al cielo e li riabbassò, inumiditi. Due lagrime gli scesero, lente, su per le pallide gote e vi brillarono.
– Andiamo!.. – balbettai – Coraggio! Guarirete e dimenticherete.
– Sì – mormorò, cupo – Voglio guarire e mi voglio vendicare!
– Perchè non cercate di riposare un tantino?..
E mi levai. Vedevo mover daccapo alla volta del letto dell’ercole il professore e i suoi scolari.
– La rivedrò ancora?
E l’ercole mi strinse la mano, aspettando che glie lo promettessi.
– Certo. Tornerò.
– Lei è buono… Ha visto che cosa è la vita?.. E la mia, signore?.. Che calvario!.. L’ingratitudine… Bamboccetta…
Balbettava ancora parole che io non compresi.
Il professore gli s’era avvicinato: gli scolari circondavano il letto.
Mi trassi da parte. L’ercole, come preoccupato, si guardava attorno, guardava i giovani che fra tanto gli scoprivano il petto un’altra volta.
La lezione pratica principiava. Mi trassi a dietro a poco a poco, giunsi fino alla porta della sala e lì quasi sperai di non udire la voce del mio ex maestro che parlava, alto, a’ discepoli. Ma, nel silenzio che s’era fatto nella corsia essa suonava chiara e distinta, con quel leggero suo tono declamatorio.
– L’influenza del sesso si spiega assai naturalmente pel genere di vita speciale a ciascuno d’esso, che imponendo all’uomo – come nel caso – sforzi muscolari più violenti e dei movimenti più energici, aumenta in lui l’energia della impulsione cardiaca e dispone le sue arterie a pressioni e a stiramenti che possono essere fatali, che sono anzi, quasi sempre, fatali.
Addossato allo stipite della porta mi sentivo quasi male. Ah, la vita, la vita! Povero ercole! E ora comprendeva egli la sua condanna?.. Chiusi gli occhi. Rividi, come in un sogno, Giffuni, la piazzetta del mercato, la grande baracca, quelle viuzze malinconiche e anguste. Le immagini della Rosina, del pagliaccio, dell’ercole passarono e ripassarono confusamente davanti agli occhi miei, come in una nebbia…
La voce del professore continuava, implacabile:
– Noi definiremo l’aneurisma un tumore pieno di sangue liquido e coagulato, distinto, si noti, dal canale dell’arteria con cui esso comunica e consecutivo alla rottura totale o parziale delle tuniche arteriose. Voi conoscete, o signori, la conseguenza fulminante e inevitabile…
DONNA CLORINDA
I
Una mattina d’autunno donna Clorinda, destandosi, si vide accanto stecchito il poveruomo che le aveva tenuto compagnia per quarantacinque anni. Era morto d’apoplessia nella notte, e lei non se ne era accorta.
Da prima immaginò che fosse stato per una di quelle solite sincopi alle quali lo sciagurato andava soggetto. Poi, come lo scoteva e quello se ne rimaneva lì irrigidito, già quasi nero e con certi occhiacci spalancati e freddo freddo, la vecchia pazza si mise a sedere in mezzo al letto e con le mani in grembo, muta, indifferente, s’indugiò a contemplare quel corpo immoto, chiazzato nella faccia – la quale pareva che rispecchiasse ancora il terrore dell’ultimo momento – di alcune macchie di livido.
Il lume del giorno veniva dentro in quella stanza, ch’era tutto il loro quartiere, per una finestra che affacciava sul vasto cortile scoverto dell’antico monastero di Santa Caterina a Formiello: una scialba luce autunnale bagnava freddamente le coltri del letto, ma qualche angolo della cameretta – che un tempo era stata cella – accoglieva ancor l’ombra. Lì, tra due seggiole zoppe, era per terra un piattello con l’acqua, e il cane in quel punto vi si dissetava: un barbone sudicio, che accompagnava su’ vapori inglesi e nelle trattorie del Piliero il marito di donna Clorinda, Mastia, un siciliano, pittore di paesaggi. Nel silenzio dell’ora si udì per un pezzo il chioccolare dell’acqua che il barbone lambiva avidamente. La vecchia si volse e guardò da quella parte. Poi tornò a contemplare il marito, con occhio tranquillo. E gli parlò piano, lentamente:
– T’u dissi: nun bíviri!
Null’altro. Era ella così disposta, per naturale sua filosofia, a tenere per fatali somiglianti circostanze della vita e a non farsene vincere? O quel vecchio cuore indurito non aveva mai palpitato? Oppure con gli anni e con la vita stentata e per il nessun amore che Mastia le aveva dimostrato fin da principio, s’era inaridito ogni sentimento in lei, che un tempo era stata pur giovane e bella e amorosa? Chi lo sa? Sul silenzioso orrore della nuda e fredda stanza pesava come un rigido mistero, e quella morte improvvisa non certo lo discioglieva. Intorno alla camera di Mastia erano altre povere camere abitate da gente anche più povera di lui: l’immenso fabbricato di Santa Caterina a Formiello, una volta claustro impenetrabile, accoglieva ora centinaia d’oscure e miserabili creature, e ciascuna covava là dentro il suo segreto e il suo dolore. Di volta in volta, tra quelle spesse mura di convento che ammorzavano ogni romore e soffocavano gridi angosciosi o selvaggi, scoppiava la catastrofe di un dramma: talvolta fin v’era scorso il sangue. Tuttavia, non la più comune manifestazione della vigile curiosità partenopea s’era espressa in quel momento da parte degli altri inquilini: solo qualche porta pesante s’era schiusa sul corridoio in penombra per subito rinserrarsi, ricacciando a dietro una pallida e paurosa testa femminile. A ciascuno bastava la propria miseria. E sulla sera, dopo l’accaduto, era rimasto deserto quel lungo e vasto corridoio, sorvegliato solamente dalla luce rossiccia del lanternone che il custode v’attaccava a una parete e che per breve tratto coloriva, disotto, le antiche mattonelle del pavimento, componenti a quel posto una stinta e barocca decorazione secentesca, tutta svolazzi verdi e giallicci. Cumuli di spazzatura, ammonticchiata qua e là sotto le vasche di marmo che i monaci, antichi abitatori del luogo, non avevano avuto il tempo di svellere dal muro istoriato a fresco, alitavano un lezzo insopportabile. Quando il barbone tornava a casa con Mastia era lì che s’indugiava assai spesso, a frugare.
II
Donna Clorinda scivolò giù dal letto, in camicia, rabbrividendo al gelido contatto del pavimento sul quale i sui piedi nudi avanzavano. Attaccato al muro di faccia uno specchio accolse d’un subito, e a mezzo, la sua bizzarra figura bianca procedente con la lentezza d’un fantasma. A un momento ella ristette, e, vinta da un’abitudine irresistibile, vi si rimirò, quasi atteggiandosi. Intanto principiava laggiù nel cortile la fatica de’ fabbri: della legna arsa crepitava: guizzava e lambiva un alto muro annerito il fumo azzurrino di una fiammata: i martelli picchiavano sulle incudini e un carro di botti vuote entrava, con sordo fragore, nell’ex monastero.
Stanno intorno ad esso le torri aragonesi che Ferrante pose a difesa della Porta Capuana: ora, sul cielo perlaceo, que’ baluardi si stagliavano con un colore plumbeo rilevato da un fitto d’erbe selvagge ch’erano rampollate ne’ loro crepacci e prosperavano sulla lor cresta interrotta. Da case e da fucine invisibili altre colonne di fumo, più lontane e sottili, salivano ritte nell’aria: la città si svegliava a mano a mano, e un’esterna sonorità crescente e confusa faceva sembrare più cupa, più appartata la fabbrica solitaria dell’antico convento.
Donna Clorinda si raccolse su d’una seggiola, di faccia al letto, e si cominciò tranquillamente a vestire.
Da parecchi anni la vecchia era dominata da un’innocente follia, che si esprimeva nella sconfinata considerazione di tutte le sue presunte qualità, e più precisamente di quelle fisiche. Ella si adorava, in un apatico egoismo nel quale non riesciva a far breccia alcun caso esteriore. La felicità o la sventura altrui contemplava di sfuggita, con un sorriso melenso: ogni più straordinario avvenimento nè la stupiva, nè la sconvolgeva. Era altrove il suo spirito e rincorreva fantasime trascorrenti fra la gioventù, la nobiltà, la ricchezza. Le pareva che la casa di Mastia, ottenuta in carità dal Municipio, fosse una reggia; che vi troneggiasse lei da regina, che un ammirativo mormorio la seguisse quand’ella ne usciva, e che fosse abituale argomento d’ogni discorso de’ vicini l’incesso magnifico di lei e la sua benevola maestà.
Pianger Mastia? E perchè? Nell’anima della vecchia, già da tempo, s’era spento ogni affetto: e poi, da quando la prima volta il marito l’aveva picchiata, un odio cupo e muto le era man mano cresciuto dentro per quell’ubbriacone brutale che era stato il tiranno della sua gioventù. Ora, vestendosi, due o tre volte la povera pazza sorrise, di faccia al cadavere. Pareva davvero soddisfatta. Si mise il cappello, tornò a riguardarsi allo specchio, aperse la porta e se ne andò via col suo solito e tardo passo un po’ zoppicante.
Qualcuno la vide scendere, lenta, le scale. Borbottava frasi che parevano rivolte ad esseri invisibili a’ quali, di volta in volta, soffermata sul pianerottolo, ella stendeva la mano, inguantata di seta. Fu pure osservato che la vecchia s’era più che mai infagottata: pareva che portasse addosso due o tre gonne una sopra l’altra e due o tre corpetti. Quello esteriore era verdognolo, orlato di antico jais. Sotto il braccio sinistro ella aveva l’ombrello: il destro era infilato nel manico d’un cestino, che doveva essere ben greve: la piegava, quasi. E così disparve. Poco dopo giunse lassù il delegato di pubblica sicurezza con un medico, frequentatore della Farmacia della Rosa in piazza Carbonara. Donna Clorinda era passata per l’ufficio di pubblica sicurezza, aveva informato il piantone della morte di Mastia e se n’era andata.
La bisogna fu breve: constatazione del decesso – come si dice in gergo legale – processo verbale e disposizione per la rimozione del cadavere.
– Bel caso, eh? – fece il delegato al medico. – Crepa il marito, e la moglie lo pianta come un cane rognoso.
Il medico, un giovane ch’era al principio della sua professione, si guardava attorno meravigliato, assalito, in quella desolante miseria della stanzuccia, da una tristezza profonda.
– Se lei mi mette subito il visto alla carta di accompagnamento – soggiunse il delegato – io mando via quel signore oggi stesso. Non sente? V’è già cattivo odore.
Accese un sigaro. Il medico sottoscrisse la carta, si levò, guardò ancora Mastia, la cui faccia deformata si copriva di ombre turchinicce. Le due guardie che avevano accompagnato il loro superiore contemplavano e comentavano le quattro o cinque tele addossate al muro: una copia della Beatrice Cenci del Reni, un paesaggio di Taormina, il tempio di Pesto, la scena rosseggiante d’una eruzione del Vesuvio, con una fiumana di lava che affluiva fino al mare in convulsione…
In giornata il cadavere di Mastia fu portato al cimitero nel carro dei poveri. La stanza rimase vuota e deserta. E da quel giorno donna Clorinda non vi tornò più.