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FORTUNATA LA FIORISTA
5 Settembre 1885
Giorni fa le vicine di Fortunata Cappiello, con molta meraviglia, videro chiusa la bottega di lei. Bisogna premettere che Fortunata Cappiello ha bottega di fiorista in via del Duomo, e oltre a questo ha un padre ed una mamma i quali non sono mai stati in tenerezze, anzi, per dirla con le vicine di Fortunata, i due coniugi facevano cane e gatta in tutta la settimana, specie al venerdì, quando Giuseppe Cappiello chiedeva quattrini alla moglie per giocarseli al lotto e lei glie li negava.
Vista la bottega chiusa sino a mezzogiorno e argomentando che più non si fosse aperta in tutta la giornata, le vicine, sempre maliziose e maldicenti, ne trassero molte congetture, tra le quali questa, che, nella notte, i Cappiello avessero subitamente sloggiato e portato via il pò di mobilia, per non pagare il padrone di casa.
– Sentite – disse Giovannina Zoccola, merciaia di rimpetto – questo non ha potuto succedere. Vero è che la fame se gli mangiava i Cappiello, la fame e i debiti; che a me, se veramente non tornano più, mi dovranno dare sempre quindici soldi da Pasqua passata. Ma un po' di danaro lo mettevano da parte, via. E c'è stato sempre don Procolo, il signore, che ha riparato spesso e volentieri.
Don Procolo, un attempato arzillo, negoziante e proprietario, veniva a sera a trattenersi nella bottega, e quando c'era don Procolo accosto a Fortunata, seduto in mezzo ai fiori di organsino, in mezzo ai fasci d'erba artificiale, la mamma di Fortunata, dalla parte loro, chiudeva metà dell'uscio. Le vicine dicevano che chiudeva anche un occhio.
Fortunata, poverina, era magruccia, pallida, con molto nero sotto gli occhi. La frangetta, i grossi cerchi dorati alle orecchie, un neo presso al mento: piaceva. Stropicciava lo spazzolino sui denti che aveva bianchi e piccoli, si nettava le unghie con molta pazienza, alla mattina, sotto l'uscio, prima di mettersi a lavorare.
I fiori artificiali, quelli pei borghesi di Foria e pei negozianti di quartiere Pendino sono strillanti e il colore vivo s'attacca alle mani. Fortunata pareva la maitresse aux mains rouges. Don Procolo non ci badava gran che, ma la ragazza serbava, per così dire, le manine nette pel suo innamorato vero, che nessuno conosceva. Quando don Procolo badava alle balle di tela giù in dogana, nelle ore di pomeriggio, l'innamorato della fiorista passava per via del Duomo, la sigaretta tra le labbra e un bastoncino di bambù in mano. Era un impiegatuccio a mille e duecento con lineamenti di un'antipatica regolarità, biondino, magro, malaticcio, molto pulito. Fortunata lo adorava.
* * *
Nella sera del 3, due sere fa, i coniugi Cappiello tornarono alla bottega che potevano essere le sette e mezza. Donna Maria, senza nessuno salutare della via, ficcò la gran chiave nella toppa, aperse la porta e sgusciò dentro. Nella semioscurità i mucchi dei ritagli pei fiori, le palle bianche dei lumi a petrolio, le ceste piene di fiori azzurri e rossi mettevano una gran confusione nella bottega. Donna Maria accese un fiammifero. Cercava qualche cosa. Di fuori il marito s'era addossato allo stipite e, con le mani nelle saccocce de' calzoni, le labbra strette, non levava gli occhi da un monticello di spazzatura ammucchiatogli a' piedi, sotto al marciapiedi. A un tratto girò sui tacchi, spinse l'uscio che donna Maria aveva socchiuso ed entrò. L'uscio si richiuse. Il calzolaio di faccia che passava lo spago per una suola si lasciò cascare le mani e lo spago sulle ginocchia e si mise a guardare. Subitamente nella bottega della fiorista scoppiò un alterco. La voce stridula della vecchia si levava alta e le rispondevano le bestemmie di don Peppe Cappiello. Distintamente una frase di donna Maria arrivò alla strada.
– Nun è overo! Nun è overo!
Poi quella di don Peppe, come un urlo:
– Me l'ha ditto a me!
Succedette un gran romore, come di seggiole rovesciate. Il calzolaio s'alzò, impensierito. Le vicine erano diventate pallide.
A un tratto risuonò un grido femminile, terribile. L'uscio si spalancò. Venne fuori donna Maria che voleva parlare e non poteva. Agitava le braccia, barellando. Un flotto di sangue le spicciava dalla gola ferita; tutto lo scialle se ne inzuppava. Cadde sul lastrico, come uno straccio, e non si mosse più.
Il calzolaio mormorò:
– L'ha ammazzata.
Apparve sulla soglia della bottega don Peppe. Aveva gli occhi pieni di sangue, il labbro inferiore pendeva. Immobile guardò la vecchia stesa lì presso, si guardò intorno, come smarrito. Nessuno parlava. Il ragazzo di Stella Farina era corso a chiamare la guardia di pubblica sicurezza di piantone all'angolo del vicolo.
La guardia arrivò correndo, con una mano sull'elsa della daga. Per la via gridava:
– Ferma, ferma!
Don Peppe ebbe allora un istintivo impeto di salvazione. Fece un passo, guardando innanzi a sè nella via lunga e libera.
Ma pur i vicini, intorno, gridavano:
– Ferma! Ferma!
La guardia gli fu addosso e lo afferrò per il bavero della giacchetta.
– Io non mi movo – balbettò Cappiello.
– Canaglia! – gli fece la guardia, cercando le manotte in saccoccia.
Il calzolaio s'era chinato sul corpo inerte della vecchia, che quasi sbarrava la strada, sicchè una vettura da nolo, poco lontano, s'era dovuta fermare. Il cocchiere, le redini in mano, s'era levato in piedi sulla serpe e guardava, ancora senza capir nulla. La gente accorreva da ogni parte. Arrivarono pur due allievi carabinieri, uno dei quali, per via, s'andava sfilando i guanti di cotone bianco.
– È proprio morta – annunziò il calzolaio, rizzandosi – il sangue l'ha affogata.
– Gesù! – fece Graziella, la stiratrice, coprendosi gli occhi con le mani.
– Avanti! – impose a don Peppe la guardia.
Lui contemplava ancora la morta, movendo le labbra, come se parlasse a sè stesso. Allora un marmista ch'era arrivato l'ultimo, un grosso uomo barbuto, con tra le mani il martello e uno scalpello, chiese subitamente a don Peppe che s'incamminava:
– Perchè l'avete ammazzata, neh, don Pe'?
Lui rispose:
– Dimandatelo a lei.
E se ne andò tra la guardia di pubblica sicurezza e uno degli allievi carabinieri. L'altro si fece aiutare dai più coraggiosi e adagiò il cadavere in quella vettura che si trovava nel vicolo. Era diventato pallido il povero giovanotto; per la prima volta si trovava accosto a un morto.
* * *
La bottega della fiorista rimase chiusa per un mese. Un bel giorno arrivò don Procolo, fumando. Fece aprire, rimase un pezzetto a rovistare e a parlare con due uomini sconosciuti a tutto il vicinato, cacciò in una cesta alcune masserizie e le coprì con un mucchio di fiori d'organsino. Al giorno dopo arrivarono gli stessi sconosciuti e vuotarono la bottega tutta quanta. I monelli del vicinato s'impadronirono dei ritagli delle carte colorate e li sparsero per tutta la via. Dopo un altro mese un pittore di stanze prese il posto della fiorista.
Finalmente, dopo due anni Graziella, la stiratrice, in una mattina di maggio, vide passare l'impiegatuccio a mille e duecento, e per volerlo guardare e sorvegliare troppo abbronzò una camicia, dimenticandovi su il ferro rovente.
L'impiegatuccio guardò nella bottega della fiorista e ci vide il pittore di stanze. Parve meravigliato. Allora Graziella, che un tempo gli aveva stirate pur le camice, lo salutò con un sorriso.
– Come state? Non vi siete fatto più vivo?
– Sono stato ad Arona, fin'ora – disse – per l'impiego…
– Avete saputo? – chiose la stiratrice, dopo un silenzio.
– Ah! – fece lui, picchiando sul manico del ferro col pometto del bastoncello – Sì, so tutto. Doveva finire così… Con quella madre! E don Peppe?
– Chi l'ha visto più?
– E… Fortunata?
– Chi ne sa più nulla?
L'impiegatuccio, dopo aver accesa la sigaretta con un fiammifero della scatola di Graziella, se ne andò, lentamente, tutto pensoso. Ma la stiratrice gli aveva mentito per compassione. Pochi giorni prima, a Santa Lucia, ella aveva adocchiata Fortunata, con un bambinello. La fiorista vestiva di nero. Comperò al bambinello un soldo di tarallucci e gli fece bere un po' d'acqua solfurea. Poi se ne andarono su pel marciapiedi, passo passo…
L'AMICO RICHTER
Ecco, amici miei, in che modo conobbi il professore Otto Richter.
* * *
Il Rione Principe Amedeo, voi sapete, così vicino per limiti al Corso Vittorio Emmanuele, si trova ad esserne, per aspetto, assai lontano. Il Corso è ancora campagnuolo sotto la collina verde; il Rione è elegante; il Corso è tutto polveroso per la via larga e assolata; il Rione è severamente pulito. Qui un palazzo Grifeo, che ha un'aria d'antico e una salda costruzione di pietra grigia e nuda. Qui finestre archiacute che riflettono, a sera, nelle terse vetrate il gran chiarore della luna, la quale, di rimpetto, s'affaccia sul mare e vi bagna la sua pallida immagine. In uno studio d'incisione, sotto il palazzo grigio, si fonde e si cesella in silenzio. Un interno pieno di penombre; l'artista che passa e guarda, risale con la fantasia al vecchio tempo fiorentino. Se qui l'ambiente non fosse in gran parte lieto dell'orizzonte glauco e d'un profumo d'erbe selvatiche, e se non parlassero dell'amore della campagna i sanguigni rosolacci erti, e se non chiacchierassero, migrando a non lontane nidiate, gli uccellini freddolosi, la bottega dell'incisore parrebbe antica, quando intorno le capitassero muri grigi e stemmi onorati da vanti di toghe o di corazze.
In questo tempo nostro, il rione è semplicemente felice della sua nettezza e del posto. A un certo punto il parapetto della via è rotto dai primi gradini d'una scaletta malconcia. Per questa si scende in un solitario vicolo, e si esce così, passando sotto un potente arco a Chiaia, nel quartiere elegante. Dalla pace al romore, dalla tranquillità delle cose e delle persone a un movimento che vi rimette dal sogno nella realtà.
In certe ore, in certi momenti, il vicoletto vi parla di tante strane e misteriose cose. Fu in questo vicoletto che conobbi il professore Otto Richter.
* * *
Era una lieta mattina primaverile. Vi giuro, amici miei, così non dico pel convenzionalismo che infiora quasi tutti i racconti dolci di tenerezze meteorologiche. È la verità, la conoscenza accadde in aprile. A ogni modo, Otto Richter lo conobbi così.
Io scendevo lentamente per quella tale scaletta; egli se ne stava laggiù nel vicolo, all'ombra, piantata la punta di un ombrello nel terriccio, le mani sul manico di madreperla a gruccia. Con le spalle al muro, gli occhi a terra, il vecchietto m'aveva l'aria di star meditando. Ora siccome in questa vita i pensosi sono, per lo più, i disgraziati, io che lo aveva visto dall'alto della scala piantato lì a quel modo, e me lo ritrovavo nella stessa posizione appena dall'ultimo gradino mettevo piede nel vicoletto, dissi tra me e me:
– Ecco uno che certamente crogiuola i guai suoi.
Il vicolo era pieno di buon sole e di silenzio. Improvvisamente fu pieno di musica. Come mai? – pensavo, tornando indietro, colpito deliziosamente da una melodia che si spandeva. Il vecchio s'era mosso; passava al sole dall'ombra, avvicinandosi a una delle tre finestre basse che si aprivano sul vicolo dal muro di faccia a noi. Alle finestre ci si arrivava quasi con la testa. Le vetrate erano spalancate e la musica passava. Ma la facevano misteriosa certe bianche tendine, occupanti di dentro tutto il vano e pur di dentro fermate sulle assi d'un telaio.
Accostandomi alle finestre, m'avvicinavo pur al vecchietto, e procuravo di non far romore; era così assorto poverino! L'ombrella era passata sotto l'ascella, le mani strette premevano l'ultimo bottone del panciotto ch'era in cima carezzato dalla barba rossiccia del solitario uditore. A volte, mentre la melodia saliva con più sonoro ritmo, le mani si staccavano dal panciotto, e una, l'indice teso, misurava il tempo. Si afferrava l'altra, nervosamente, al margine del soprabito, come se volesse tirar giù il panno stinto.
Finita la musica il vecchietto levò il capo; sorrideva. Me gli trovai faccia o faccia; egli seguitava a sorridere, seguitava ad armeggiar con la mano, mormorando l'ultima frase musicale, solenne.
Mi feci animo e gli chiesi:
– Scusi, chi c'è qui dentro?
Lui fece un passo innanti, rimise in movimento l'ombrella e venne a me con una chiara felicità negli occhietti azzurri.
Rispose:
– Beethoven.
Col braccio levato misurò ancora quattro o cinque battute e canticchiò un'altra volta le note.
– Molto grande, – soggiunse con le labbra allungate in una smorfia d'ammirazione – molto grande! Questa sinfonia monumento. Oh!.. Piace a voi, signor?
Dio mio! Una così deliziosa cosa! A chi non piace la musica di Beethoven, amici miei? Gli è che non sapevo persuadermi come lì dentro ci fosse proprio lui. Egli certamente è presente ancora all'esecuzione della sua musica, il suo spirito aleggia intorno. E la musica trema con divino ed infinito sospiro di sentimento, la melodia culla l'anima. Io avevo ben riconosciuta la Pastorale. Ricordate, voi, amici?
Ah! perchè la musica non si può scrivere e leggere come la parola!..
– Lei dice che la musica è di Beethoven – feci, ridendo – e sta bene. Ma com'è che Beethoven si trova lì dentro? È risuscitato?
Lui rispose lentamente, tutto serio:
– Beethoven morto assai tempo. Qui Società Quartetto. Concerto.
– Forestiere lei?
– Allemand, di Germania. Tetesco.
– E vive qui, a Napoli?
Disse con gli occhi di sì. E poi accennò pure che tacessi e si riavvicinò alle finestre. Ricominciava la musica. Chi ora?
– Psst – fece lui – Bocherino.
Mise l'indice sulle labbra e socchiuse gli occhi, come rapito.
Che finezza, che languore, amici miei! La conoscete voi questa Siciliana del gentile minuettista? Come sorrideva il vecchietto in tutta la durata dei sospiri del settecento, agli scherzi dei violini, rievocanti tutto un passato dolce, sparso di polvere d'iris e odoroso di buon cioccolatte. Cari amici, in questo vicoletto al Rione si sogna; e che buon sole, che buona musica, amici miei!
* * *
E vi tornai. Ancora il professore Otto Richter non mi aveva tutto narrato di sè. La sua piccola figura da racconto d'Hoffmannn o d'Erckmann-Chatrian, la sua placida figura tedesca serbava qualcosa di misterioso ch'io cercavo invano di scrutare e su cui arzigogolavo senza raccapezzarmici.
Seppi soltanto questo da lui, alle prime confidenze, ch'egli era venuto di Germania in Italia a piedi. Amici, capite? A piedi. Ne rimasi inorridito; io che adoro le vetture, la ferrovia, le tramvie, tutto che è mezzo di trasporto!
Il mio sguardo scese subito alle scarpe del buon uomo, due scarpe punto eleganti, dal tomaio piatto, basso, enorme, dalla punta quadrata, dalle suola doppie tre dita. Vere scarpe nordiche. Egli posava su quel piedestallo e sorrideva, contentissimo. Aveva, parlando, un certo ammiccar d'occhi malizioso, pel quale gli si arricciavano le gote. Tutta la faccia diventava una ruga sola. Parlava a bassa voce.
E poi seppi, pure da lui, ch'egli era a Napoli da tempo, che abitava nel torrione di S. Martino, che in tutta la santa giornata girava nella città dando lezioni di lingua tedesca.
– Voi non conoscete? – fece lui.
– No – risposi, mortificato – Ma amerei imparare la vostra lingua.
– Desiderate lezione? – disse lui, sorridendo. – Parleremo di questo.
Poi non ne parlammo più. Era un vecchietto pieno di delicatezze.
Continuavano le prove della Società del Quartetto. Una mattina il professore Otto Richter se ne venne nel vicoletto con tra mani un libriccino di elegante edizione tedesca.
– E questo?
– Questo? Trattato veleni.
Veleni? Che faccia feci? Ma il vecchietto si affrettò a soggiungere, battendo in petto la mano aperta:
– Io anche un poco medico.
Un po' medico, un poco poeta, un poco pittore – egli era un po' di tutto. Sopratutto un musicomane. La mia ammirazione cresceva di domenica in domenica, come i concerti del Quartetto si seguivano e ci teneva insieme la comodità del vicoletto. Bisognava vedere il mio amico Otto Richter mentre romoreggiava, di dentro, la Cavalcata delle Walcüre. Quel buon Richter! Coi pugni stretti, gli occhi lampeggianti, le gambe allargate, l'ombrella brandita come la frusta d'una delle ammazzoni wagneriane, facendo: Pa pa ta pa! Pa pa ta pa! Papatapa! Zin!
* * *
Passò un mese, un felice mese di pruove e di concerti. Non mancammo mai. Sui muricciuoli del vicoletto spuntavano fiorellini gialli e tutte lo creste n'erano vestite. Una striscia d'ombra sotto quei muriccioli, e in mezzo al vicolo un accampamento di sole. Saliva la musica fino al Rione, chiamando i passanti, invitandoli alla platea solitaria di questo teatro improvvisato. E pei gradini diruti scendevano subitamente figurine femminili, allegri cavalierini in galanterie. Era un romore di stivalini saltellanti che faceva voltare il mio amico Richter. Egli pareva un vecchio passero solitario turbato da una folla accorrente di uccellini chiassoni. Si ricantucciava e non si moveva più. Qualche piccola signorina lo indicava, sorridendo.
Certo il mio amico Richter impressionava. Era una figura originale, di quelle che i giornali illustrati tedeschi mettono in una novella semplice e buona, vivificata dalla matita di un artista di spirito. Parecchie volte lo incontravo in quei paraggi, con una valigetta appesa a una mano, l'eterna ombrella nell'altra. La valigetta s'empiva di frutta: di erbaggi di latticinii, d'un po' di tutto. Il mio amico Richter entrava frettolosamente nella bottega d'un pastaio, faceva di cappello con quella cortesia ch'è tutta tedesca e chiedeva due chilogrammi di vermicelli. E in un'ora egli si era provvisto di tutto il mangiabile e il cucinabile. Così tornava a S. Martino e di lì scendeva per andare a udir la musica in Villa Nazionale o in qualche altro posto dove musica si facesse. Era la sua grande passione.
Una mattina lo vidi che seguiva le esequie di un capitano suicida. Era accanto alla banda musicale, tutto pensoso, l'eterna ombrella sotto il braccio. Lo vedevo poi qua a là per le vie, per le stradicciuole di Napoli, frettoloso, parlante a se stesso. Forse si recava alle sue lezioni di tedesco. Poi non lo vidi più.
Scompaiono tante persone ogni giorno in questa Napoli, e tante ne compaiono di nuove!
* * *
Una sera, era qui la regina, si dava in onore di lei un concerto al Quartetto. Il vicoletto era pieno. Eravamo in parecchi amici, nella più grande aspettazione per un programma che prometteva Schumman, Wagner, Boccherini, Beethoven. La sala era certamente affollata, ma qui, nel vicoletto, al fresco, come si stava meglio, e senza pagare il biglietto!
Per le aperte finestre uscivano il susurro degli intervenuti, lo strepito delle seggiole smosse, un fruscio d'abiti serici. Di tanto in tanto un accordo di violino, un suono rauco di tromba, una voce che chiamava.
Il vicoletto fu, a un momento, tutto illuminato dalla luna che si liberava dall'impiccio di certe nuvole impromettenti, e campeggiava serenamente in cielo. Noi altri si chiacchierava, aspettando. Accosto a me era seduto un uomo occhialuto, dalla piccola e incolta barba nera. Un forestiero. Non so come io gli abbia rivolta la parola, ne so più perchè. Certo è che il mio vicino, tra una domanda e una risposta, brevi sempre, mi disse che egli era tedesco, ch'era professore di lingua tedesca, e che avrebbe desiderato di esser conosciuto. Ma lo disse, poverino, con una cert'aria! Pareva mortificato. Tedesco, professore? Certo conosceva il mio amico Otto Richter.
– Otto Richter – borbottò, cercando nella memoria.
Poi fece:
– Ah! Richter!
– Dunque?
– Morto. Otto Richter? Professore? Morto.
Una cosa molto semplice per questo signore meditabondo. Oh! povero
Richter! Ma come?
Il mio vicino pensò ancora. Ecco, era morto così – e si batteva in fronte – male di cervello. Tre giorni, non più. Poi morto.
Dopo un momento cavò da un enorme portafogli la sua carta e me la porse. C'era su scritto, a mano: Corrado Weber, professore di lingua tedesca.
– Chieggo scusa – balbettava il pover'uomo – io solo a Napoli, solo, solo. Così si vive, signor, lavorando. Richter mio buon amico. Poveretto.
Improvvisamente un fragore di battimani giunse a noi dalla sala; subito dopo l'orchestra intuonò la marcia reale. La regina entrava. Passarono quattro minuti; nessuno fiatava nel vicolo. Io pensavo al mio vecchio amico Richter, al mio povero vecchietto musicomane.
– E quando è morto?
– Psst! – fece Weber – Chieggo scusa, signor. Dopo.
Cominciava la musica. Si levò in piedi, si scappellò e si mise ad ascoltare con religiosa attenzione.