Kitabı oku: «ENtità»
ENtità
Diego Maenza
Tradotto da Pasquale De Lucia
Titolo originale in spagnolo:
ENtidades
© Diego Maenza, 2021
© Pasquale De Lucia, per la traduzione
© Tektime, 2021
www.traduzionelibri.it
www.diegomaenza.com
INDICE
Storia di famiglia
Il rospo che era un poeta
La caverna
L'uomo davanti allo specchio
Alba
Sogno
I mostri interiori (o favola in un atto)
Passeggiata notturna
L'avaro
Formiche
Storia di famiglia
Ho sofferto tutta la vita a causa del mio aspetto fisico. È una maledizione che mi porto dietro fin dalla mia infanzia e a causa della quale ho vissuto provando una vergogna tale da aver lasciato il mio rifugio solo poche volte.
Ho paura che la gente mi guardi. Vivo nel terrore. Tremo. Qualche medico benevolo mi ha diagnosticato l'agorafobia, ma sono arrivato a capire che quel lieve danno, paragonato alla mia sofferenza, altro non è che un leggero solletico. Non sopporto lo sguardo delle persone. Mi stigmatizza.
A causa delle mie deformità, sono diventato l'onta della famiglia e a ciò si deve la sventura dei miei traumi più profondi. Lo sottolineo: sono la vergogna della mia famiglia. Sono la pecora nera del mio albero genealogico, non a causa delle mie azioni, ma per quello che sono.
Per darvi un'idea, i miei arti sono sproporzionati rispetto al mio corpo, perché non sono a quell'altezza che viene considerata normale. La mia testa è troppo grande. Ahimè, la fossa cranica di mio padre era perfetta! Era motivo d'orgoglio nel suo lavoro perché, essendo stato un personaggio pubblico molto conosciuto in quasi tutta la nazione, le donne lo contemplavano e provavano meraviglia, impazzivano alla presenza di mio padre; l'effetto che provocava in loro era quasi devastante. Non esagero nel dire che quando guardavano l'andatura di papà, i loro capelli si rizzavano, abbracciavano più forte i mariti, lusingatrici e schive, e gemevano in silenzio.
Sono nato con un manto floscio. Ciò nonostante, mia madre mi amava. Una madre ama sempre i suoi figli, non importa quanto siano amorfi. Mi secca avere una criniera così meschina. La criniera di mia madre, al contrario, era abbondante, folta come una giungla incontaminata, e lei la esibiva spudoratamente ogni fine settimana al suono ritmico di una musica da cabaret. Si è sempre guadagnata il sincero applauso del pubblico maschile, che strizzava l'occhio ai movimenti sensuali di mia madre. Il pelo della mia frangia è insipido. E mi fa male non aver ereditato le belle ciocche di capelli di mia nonna.
Non l'ho mai conosciuta, ma mia madre mi ha sempre detto che aveva uno sguardo speciale, amorevole e ipnotico. Quasi stesse raccontandomi una leggenda proibita, mi sussurrava in segreto che non c'era uomo che potesse resistere allo sguardo imponente della nonna. Del nonno, invece, mi raccontava ad alta voce storie affascinanti sulle meraviglie artigianali che realizzava con i suoi arti da sogno. Era un artista in senso assoluto.
In qualche occasione mi sono innamorato, più volte di due ragazze allo stesso tempo, ma le mie allusioni mutilate non sono mai state decifrate e quelle belle ragazze che ho corteggiato non mi hanno mai preso in considerazione a causa della mia deformità.
Ho zii e cugini che sono nati con gli organi nella giusta posizione. Nessuno con i miei difetti.
Guardo l'album di famiglia con nostalgia e orgoglio. La foto di mio padre nel circo Birdmink, con una bellissima testolina priva di capelli, con i suoi fili sottili e dorati come un sole nascente che adornano il suo microcefalo e le sue ciglia albine da neonato. Per poco non nacque completamente calvo, bello come mai nessuno. La foto di mia madre, con la pelle ricoperta di pelo castano, il collo felpato di una matriarca leonina e gli arti lanosi di coniglio d'Angora. Il fotografo l'ha ritratta nel suo momento migliore, il più radioso, quando tutti i peli del corpo coprivano la sua anatomia senza permettere a nessuno di oscurare le sue luminose notti di spettacolo da lupa mannara. Sono estasiato dalla foto di mio nonno. Se oggi fosse vivo, mi abbraccerebbe con i suoi arti superiori di quindici centimetri e le sue dita più piccole trasformate in moncherini paralizzati. E so che l'avrebbe fatto, nonostante il sentirsi imbarazzato nel guardare i miei arti, che mantengono la perfetta proporzione di Vitruvio. Mia nonna, con il suo unico occhio sulla fronte, avrebbe pianto se mi avesse conosciuto alla nascita, appena si fosse accorta delle mie due nocciole a vista perfettamente allineate sul mio viso. Mia madre mi avrebbe sempre amato, nonostante mi porti addosso questa disgustosa pelle lucida.
Sono nato così, deforme, e non sapete la vergogna che provo. Quando i miei genitori sono morti e io ho compiuto quindici anni, l'uomo elefante e la donna barbuta mi hanno cacciato dal circo, sostenendo che non avevo niente di speciale, che non avevo virtù alcuna per giustificare la mia permanenza con loro, perché man mano che crescevo assomigliavo sempre più a un comune spettatore. Quando sono stato espulso dal tendone, mi sono rassegnato alla consapevolezza che non avrei mai conquistato il doppio cuore delle siamesi. Quella certezza è la parte più abominevole della mia condizione. Sì, sono un mostro e mi brucia. È la maledizione che devo sopportare fino alla fine dei miei giorni.
Il rospo che era un poeta
eppure ti amo rospo
come quella donna di Lesbo amava le rose precoci
ma di più e il tuo odore è più bello perché posso annusarti
Juan Gelman, Lamento per il rospo di Stanley Hook
Non è mai stato un segreto per nessuno che Rospo, fin dalla tenera età, amasse frequentare gli stagni. Quando era appena un bambino, Rospo scoprì un piacere indescrivibile nello schizzarsi di fango. Era qualcosa che lo faceva sentire unico, speciale, diverso, potente, soprattutto considerando che le madri degli altri ragazzi non permettevano ai propri rampolli quelle licenze di divertimento immondo dei bagni negli acquitrini. Così Rospo, quando tornava a casa dalle paludi, imbrattato di fango secco e pezzi di ninfee sulla sua unica salopette, agli occhi dei suoi amici pubescenti era come un eroe anonimo di ritorno dalla sua lotta contro l'incarnazione del male. I ragazzi lo guardavano con segreta ammirazione, al contrario delle loro madri, per le quali Rospo rappresentava la personificazione della sporcizia e dell'abbandono. Continuavano a provare disgusto o paura, mascherati, ovviamente, da una presunta espressione di pietà.
Nonostante tutto, i ragazzi erano sempre gentili con lui e, quando si accorgevano che Rospo gironzolava con l'intento di unirsi alle loro attività ricreative, si rallegravano di poter contare sulla sua amicizia. In questo modo, il giorno dopo avrebbero avuto un argomento di conversazione molto importante quando entravano a scuola. Gli tiravano la palla di stracci e, come sempre, Rospo la bloccava con la sua robusta sacca vocale, che lo costringeva a emettere un gracidio forte e sano. Nei giochi col pallone, Rospo fungeva sempre da portiere, in quanto le sue gambe potenti gli permettevano di dare lo slancio necessario per indirizzare il suo corpo pesante verso il lato della palla e fermarla con le dita palmate. Poi Rospo sfoderava un sorriso di compiacenza e felicità e i ragazzi lo ricompensavano con alcuni insetti viscidi che raccoglievano clandestinamente per lui con pazienza e affetto. Ah, com'era bella la vita! Fino a quando le madri del quartiere sporgevano le loro teste spettinate dalle finestre di ogni casa, alcune mentre lavavano i piatti, altre mentre facevano il bucato, e ripetevano in coro i nomi dei loro figli in modo che questi accorressero alle loro chiamate e, ovviamente, perché si allontanassero dalla presenza nociva di Rospo, il quale avrebbe potuto trasmetter loro (così affermavano quando rimproveravano i propri figli all'interno della casa) malattie come la zampa rossa, chitridiomicosi, neoplasie, papillomi o salmonellosi. Allora Rospo rimaneva solo e si recava saltellando nell'unico rifugio che gli permetteva di sfuggire a quella tangibile realtà: la palude.
In mezzo a quella solitudine, Rospo percorreva per settimane le paludi di grandi dimensioni; altre volte attraversava in maniera perfetta le brevi distese di fango e ne usciva rinfrescato. Ma ciò che attirava la sua attenzione era frequentare quello che cominciò a chiamare il pantano poetico. Lì si radunavano molti dei suoi simili per cantare alla notte, a volte in coro, a volte in un assolo che sapeva molto di mistico e reverenziale. Tuttavia, Rospo imparò con umiltà, portando dentro di sé un orgoglio ostinato e una comprensione personale di sapere di essere nato con una virtù che nessuno, nemmeno la purezza più cristallina di qualche laguna incantata, poteva cancellare. Era convinto di avere in sé il dono della poesia e che la sua illuminazione interiore trascendesse i concerti sempre più insipidi cantati in coro dalle rane comuni.
Se da ragazzo Rospo era stato un problema per le madri dei ragazzi, dopo la pubertà il giovane e bel Rospo si sarebbe rivelato una complicazione per le madri delle ragazze. Non è che avessero qualcosa contro Rospo a livello personale, anzi, il suo fascino ammaliava, in segreto, anche le mamme più decorose, le quali dovevano comunque essere discrete e correggere il comportamento delle proprie figlie. Il motivo per cui disprezzavano Rospo era perché era un poeta; perché, secondo le oneste signore delle famiglie più onorevoli, Rospo era un fannullone. Di cosa vivrai, figlia mia, se lui sa solo frequentare gli stagni? Ma alle ragazze, è risaputo, sembrano superflui, anacronistici, noiosi, antiquati, inutili ed esagerati i consigli dei loro genitori, che disprezzano avidamente. Al contrario, trovano attraente quell'enigmatico barlume di mistero che gli esseri eccezionali, e in particolare i Rospo poeti, di solito hanno intorno a sé. Le ragazze iniziarono a diventare matte dal desiderio che Rospo le invitasse solo una volta a un appuntamento nella palude o per un paio di salti sulle ninfee. Non mancarono le liti che arrivarono ai graffi, alle tirate di capelli e, naturalmente, ai setti rotti.
Rospo saltava indifferente a tutti questi rituali, perché la sua vita era dedicata interamente alla poesia. In quel periodo, pensieri esistenziali cominciarono a covare dentro Rospo. Sedendosi su una pietra nella palude formatasi di maniera temporanea in un periodo caldo dell'anno, chiunque avesse alzato lo sguardo indirizzandolo verso est, avrebbe notato nelle costellazioni il segno inevitabile del Rospo. Mettendo da parte le connotazioni esoteriche che una simile situazione può evocare, per il nostro personaggio quella figura sfuggente e vagamente riconoscibile non aveva altro significato che la brevità della vita stessa. Una stella, pensava Rospo, è molto più degna di essersi formata all'inizio dell'universo di qualsiasi essere cosciente che possa guardarla.
Il pensiero di Rospo è troppo pessimista, diranno i più drastici, che in questioni di natura pratica si distinguono sempre come i più assennati. Tuttavia, ci sarà una stirpe opposta di sognatori che, tralasciando le esaltazioni festive a cui i tempi che corrono ci hanno abituati, riconosceranno il valore del ragionamento del giovane Rospo. Ma veniamo al problema: lui non condivise mai il suo pensiero con nessuno, né lo mise mai per iscritto. D'altronde, non è un pensiero che dal punto di vista dei filosofi valga la pena analizzare, di quegli esseri tormentati, visitati solo dalla fatalità e dall'apatia e che non sono mai stati turbati dall'aroma indelebile delle muse, com’è il caso di questo Rospo meditativo che frequenta abitualmente la terribile armonia dei poeti. Non aveva mai incontrato un bardo di persona, è vero e lo ammetteva con orgoglio, poiché aveva sempre sostenuto la teoria per niente effimera che fare il bagno negli stagni dei poeti fosse un processo molto più straziante e profondo dell'ipotetica ma non impossibile opportunità di conoscerne le anime. Ciò di cui il nostro Rospo non si rese conto è che le due potessero essere la stessa cosa.
L'idea che Rospo aveva in merito alla poesia era bella ma assurda, diremmo stupiti. Ma in fondo non è così, poiché il Rospo che in quel momento stava allungando le anche alzandosi dalla pietra che fungeva da punto di vista sul promontorio, non scrisse mai una poesia.
Si potrebbe dire che le abbia perpetrate. Le conservò nella sua memoria durante quei giorni in cui ne ebbe bisogno, come per sostenere la sua vita sull'impalcatura delle illusioni, per inalare una boccata in più di speranza nel suo animo, per continuare a sostenersi sul filo del rasoio della sua vita; tutto questo per poi scartarle come chi cambia i fazzoletti a causa del raffreddore.
Convinto della solidità del suo dono, Rospo decise di abbandonare le paludi da cui aveva imparato tanto. Si allontanò da esse fisicamente ma non nello spirito, poiché portò con sé l'essenza delle distese di fango per espandere la sua particolare visione del mondo in ogni recital che iniziò a dare. Qualche notte di luna cantò nei parchi cittadini e le sue poesie irradiavano armonia. Non mancarono le persone affabili che gli lanciarono un paio di monete, seppur con un po' di paura, curiosità e interesse malsano per il suo ampio sorriso anfibio. A poco a poco, Rospo iniziò a guadagnarsi da vivere come artista itinerante, visitò ogni città del paese e il suo nome e la sua presenza iniziarono a essere conosciuti in tutta la nazione. Diversi giornalisti vollero intervistarlo, alcuni presentatori televisivi lo richiesero per i loro programmi, lo stesso Ministro della Cultura gli offrì un'importante posizione burocratica come Ambasciatore per la poesia. Editori privati di successo gli proposero di immortalare le sue poesie su carta; le case discografiche internazionali pretesero, senza successo, che firmasse contratti per incidere dischi dei suoi recital; un pluripremiato regista dall'altra parte del continente lo pregò (si dice in ginocchio) di recitare nel suo nuovo film; alcuni studiosi cercarono di proporlo come il candidato ideale per il Premio Nobel per la Letteratura. Rospo rifiutò ogni richiesta insistente. Disgustato dall'umanità e dai suoi spettacoli banali, Rospo lasciò le piazze per sempre.
Una notte piena di stelle scoprì una palude silenziosa lontana dai villaggi e si bagnò nei suoi fanghi. Sfiancato dalla turpitudine della fama e dalla melma della celebrità, trascorse un anno sabbatico nel fango. Da quella notte in poi, accorse ogni sera al richiamo della palude del silenzio come un vizio segreto che avrebbe mantenuto fino ai suoi ultimi giorni.
Dopo il meritato ritiro, Rospo tornò nella comunità che lo aveva visto crescere, con un'immensa angoscia sulle spalle e trafitto da un'infinita tristezza. Ciò nonostante, voleva essere gentile con la vita e provò a darsi una seconda possibilità. Cercò di contattare i suoi vecchi amici, quei ragazzi che lo invitavano a giocare con la palla e gli riservavano un trattamento caloroso; ma quei ragazzi di una volta, polverosi pretendenti atleti senza scarpe, erano spariti. Al loro posto c'erano gentiluomini semi-imborghesiti, istruiti in scuole private, annoiati e ingelatinati aspiranti cassieri di banca, dirigenti d'azienda o comuni burocrati, che ora non avrebbero voluto avvicinarsi a qualcuno come Rospo se non per malsana curiosità. Andò alla ricerca di quelle vergini che un tempo spasimavano per lui, ma ormai erano tutte sposate, la maggior parte di loro con cassieri di banca, dirigenti d'azienda o comuni burocrati. Provò a visitare i vecchi stagni, quelli che gli avevano insegnato l'armonia e la tranquillità, ma trovò solo sterilità e delusione. Deciso a lasciarsi trasportare sulla via dell'abbandono, tornò nell'ambiente umido della sua tana. Entrando, scorse uno sguardo giovane e inquieto che lo seguiva da una finestra vicina. Notò la bellezza della fanciulla che lo guardava, esile e innamorata. I suoi lineamenti erano stati modellati con una bellezza insolita, scolpita per piacere e affascinare, per ispirare poesie nei Rospo malinconici. I suoi lunghi capelli neri potevano solo significare il mantenersi caste delle damigelle che attendono l'amore. Rospo capì che la vita lo stava ricompensando. Nei giorni che seguirono, con l'abilità clandestina dei più tenaci anuri, Rospo si mise in contatto con la bella ragazza. Si innamorarono come possono innamorarsi solo gli amanti furtivi. Una notte di luna (Rospo amava le notti di luna), si diedero appuntamento nella palude del silenzio. La fanciulla si avvicinò a Rospo e, tremando, si dilettò della pelle secca, ruvida e verrucosa, e del suo indelebile odore di umidità. Quella fu l'unica volta che fecero l'amore.
All'alba, notando il vuoto delle stanze della fanciulla e l'assenza della bella signorina, il padre della virtuosa, uomo severo e prepotente come nessun altro, con dolore e lacrime agli occhi, punì la ragazza e la portò via dal villaggio. Rospo non la rivide mai più.
Nei mesi successivi, consumato da una disperazione febbrile, Rospo si recò in una miriade di villaggi alla ricerca della sua amata. Vi furono donne (dalle vergini di casa più pudiche alle volgari prostitute) che, pazze di passione per quell'aura di rarità e stravaganza che Rospo emanava a ogni salto, si offrirono di alleviare le sue pene, ma il cuore di Rospo si rifiutò di macchiare il ricordo della sua amata.
Questa è la storia di Rospo. Io l'ho amato come si possono amare solo le gocce di rugiada che cadono nelle albe serene. Alcuni asseriscono che il mio Rospo sia morto rugoso, arido, disidratato in un pomeriggio di forte sole, afflitto per un amore incompiuto. Altri affermano che sia entrato nella sua piccola grotta e che dal giorno del suo ritorno non abbia più assaggiato insetto alcuno. Una minoranza sostiene che si sia fuso con la palude del silenzio. Ciò che tutti mi assicurarono era che morì recitando un'ultima poesia in cui invocava l'amore di una fanciulla. Voglio credere che fossi io quella musa delle poesie di Rospo. Ogni notte vado nelle paludi, mi piace sporgermi e sentire l'odore fetido e bello delle loro ninfee, e lasciarmi trasportare dalla mia convinzione personale che in realtà Rospo è tutto quel coro di ballate ipnotiche che gli anuri intonano nei chiari di luna al risplendere delle stelle; chiarore che fa risaltare lo splendore di centinaia di occhi come se fossero stelle luminose che mi angosciano e allo stesso tempo mi illuminano.
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