Kitabı oku: «Il Misterioso Tesoro Di Roma», sayfa 2
Quelle visite di contenuto religioso non avevano molto senso per me, perché avevo da tempo abbandonato le mie convinzioni, quindi non trovavo alcun significato nell’entrare in ogni chiesa per vedere alcune pale d’altare dipinte secoli prima o per ammirare una statua o un’icona, per quanto notevole, antica e ben fatta che fosse.
Ma con mia sorpresa le chiese non contenevano solo architettura e resti di tematica religiosa, erano anche rifugi per molti altri elementi, resti archeologici o appartenenti alla cultura popolare indipendentemente dalla loro origine, poiché erano diventati luoghi di rifugio per pezzi artistici, non era necessario che l’argomento fosse esclusivamente religioso.
Ne è stato un esempio la visita che abbiamo fatto alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin, al cui esterno si trova quel resto archeologico di un grande tondo scolpito con l’immagine di una persona anziana con i capelli in disordine e la barba arruffata, con uno sguardo fisso e inquietante e con la bocca aperta.
All’inizio siamo rimasti un po’ sorpresi, mentre procedevamo avanti con la fila e di fronte alla nostra perplessità uno di noi osò mettere la mano lì e non accadde niente, dopodiché l’abbiamo messa tutti con lo stesso risultato, senza comprendere appieno il significato nè a cosa servisse.
Più avanti in hotel la guida ci avrebbe spiegato che si trattava della Bocca della Verità, nella quale, una volta introdotta la mano destra nell’apertura, se la persona che l’aveva fatto non diceva la verità, la avrebbe persa.
Successivamente abbiamo continuato a girovagare per la città, stupiti dalla quantità di resti artistici e culturali sopravvissuti allo scorrere degli anni.
Avevo sentito parlare dei castelli del Medioevo, quelle sontuose e grandiose costruzioni, fortificazioni erette per salvare le proprietà dei re e dei signori feudali del luogo, insieme agli abitanti dei villaggi vicini, ma essere lì era come vivere in una città medievale dove si manteneva ancora la stessa architettura nelle sue strade, fontane e piazze.
Dovunque guardassimo, che fosse un balcone o l’architrave di una porta, rimanevamo colpiti dalla maestosità dei dettagli lavorati, scolpiti o dipinti, ricordi di una gloriosa era artistica precedente. Inoltre, come abbiamo appreso in seguito, la coltivazione delle diverse arti era qualcosa che veniva tenuta in vita nelle scuole, considerate tra le più prestigiose al mondo, un buon posto dove vivere se sei un amante della storia.
Ma io ero più pragmatico, preferivo ciò che aveva portato la tecnologia e tutti i vantaggi che ciò implicava. I viali ampi e lisci, dove potevi spostarti con il tuo veicolo da un luogo all’altro in breve tempo, senza dover salire e scendere per le strade acciottolate.
Un modo diverso di vedere e considerare la vita, preferivo le grandi città, dove era facile accedere a tutti i servizi in poco tempo. Non avevo mai considerato che qualcuno potesse vivere in un posto così particolare.
Alzarmi la mattina e vedere tutto ciò mi sembrava abbastanza inaudito e sconcertante, non riesco a immaginare vivere lì da quando si è piccoli, doveva essere come stare permanentemente in un museo, sapendo che tutto ciò che tocchi ha centinaia di anni.
Anche se in termini di persone, le differenze con noi non erano così tante, tuttavia alcuni ci guardavano con una faccia strana, come sospettosa, che ci faceva sentire estranei lì, quasi come una forza di occupazione.
Forse era solo una percezione, forse perché usavamo abiti diversi da quelli che eravamo abituati a vedere lì.
Fosse quel che fosse, con il disgusto del furto che avevamo sofferto durante la mattinata, stavamo attenti a che non si verificassero altri alterchi o problemi simili, sapendo che ora eravamo meno.
Forse il nostro viaggio era stato troppo precipitoso per le circostanze sociopolitiche del momento, ma era un segno di buona volontà da parte della nostra accademia, un segno di cooperazione e scambio.
Non so se un gruppo di studenti italiani avrebbe visitato il nostro paese, suppongo sarebbe potuto capitare, ma le mie informazioni non arrivavano a tanto.
Forse faceva parte di una politica di apertura con il resto del mondo, non lo so, ciò che era chiaro è che non avevo mai visitato il paese e che era una grande opportunità per farlo, quindi non volevo che niente o nessuno mi ostacolassero.
Se il compagno a cui era stato rubato il portafoglio mi avesse detto l’importo che gli mancava, io stesso lo avrei rimborsato in modo da poter continuare pacificamente con quell’escursione.
Non riesco a immaginare quale altro elemento di valore potesse avere in esso, perché tutta la documentazione l’avevamo depositata all’ambasciata. Qui, per muoverci in città, ci avevano fornito una scheda in cui inserire i nostri dati, le indicazioni dell’albergo dove alloggiavamo e il numero di telefono dell’ambasciata. Nonostante fosse appena iniziata la primavera, faceva piuttosto caldo e non eravamo abituati a temperature così elevate in questo periodo dell’anno e abbiamo trovato difficile reperire fontanelle per bere.
Quelle che c’erano non eravamo sicuri che fossero potabili, anche se le persone di lì bevevano senza preoccupazioni, ma prudentemente preferimmo solo rinfrescarci le mani e la testa, dato che una fonte che ha funzionato per così tanti secoli, non poteva essere pulita come avremmo voluto.
Forse era il contrasto, ma quelle persone ci sembravano abbastanza innocenti, lontane dalle grandi città piene del fumo delle fabbriche, a cui eravamo abituati, ma loro pensavano qualcosa del genere di noi, quando restavamo stupiti dai dettagli che loro contemplavano tutti i giorni.
Ci piaceva così tanto quello che vedevamo che alcuni miei colleghi, per non dimenticarlo, si dedicarono a imprimerlo nei loro quaderni da disegno, riempiendoli con schizzi più o meno riusciti degli edifici più significativi e importanti. Altri, al contrario, sembravano essere più bravi a scrivere e si fermavano in ogni strada cercando di raccontare in alcuni paragrafi che meraviglia stavamo percependo. C’erano solo un paio di colleghi che erano riusciti a portare le macchine fotografiche.
Non so come fossero passati attraverso la dogana, dato che ci avevano dato istruzioni specifiche prima di partire sul non portare nessuna tecnologia dal nostro paese, ma suppongo che il cognome dei genitori di quei compagni avesse più peso di qualsiasi altra regola scritta.
Di tanto in tanto ci chiedevano di fermarci per scattare alcune foto in cui appariva l’intero gruppo e sul retro l’edificio in questione.
Forse nel viaggiare ero più inesperto di tutti gli altri, dato che avevo portato solo un piccolo taccuino, in cui volevo raccogliere ogni giorno ciò che era più degno di nota senza riuscire a catturare in quelle poche righe l’ammirazione che suscitava in me quella città ad ogni passo.
Uno degli aspetti che mi è sembrarono più curiosi a causa del contrasto con quello che conoscevo, era il modo in cui le donne si vestivano. Le donne più grandi indossavano un fazzoletto nero sopra la testa e vestivano dello stesso colore. Le ragazze lo facevano con colori discreti e sciarpe molto appariscenti.
Abituato a vedere quelle del mio paese truccate, con ampie gonne a ruota, con maniche corte che lasciavano vedere le braccia e indossando il fazzoletto solo come accessorio decorativo.
Inoltre, sembrava che ci fosse una chiara differenziazione tra i sessi su ciò che poteva o non poteva essere fatto, quindi gli uomini si pavoneggiavano per strada con i loro abiti come se stessero partecipando ai migliori galà, mentre la maggior parte di loro quando non era al lavoro indossava una semplice camicia a causa del caldo incessante, ma per noi era un atteggiamento un po’ strano, gli uomini sembravano essere quelli che comandavano nella società, mentre le donne nascoste cercavano di passare inosservate, come se non avessero avuto nulla da dimostrare o per cui contribuire.
Mi sembrava abbastanza sorprendente, era come se tutti fossero rimasti bloccati nel tempo, per quanto riguardava il modo di vestirsi intendo, non penso che fosse qualcosa di religioso, come con i Quaccheri, una comunità che si era isolata dal mondo, mantenendo la propria cultura senza voler progredire, la prova di ciò era l’abbigliamento che usavano non molto lontano da quello che vedevamo ora.
Beh, quelle erano le mie impressioni a quel tempo, alla fine avrei capito la cultura che stavo vedendo, e tutto era frutto della mia inesperienza, perché come indicato dai colleghi che avevano viaggiato in Europa altre volte, a seconda del paese in cui si era c’erano costumi e modi di vestire totalmente diversi.
Anche i comportamenti di uomini e donne erano abbastanza diversi a seconda del paese in cui ci si trovava, quindi mi raccontarono dell’esuberanza della donna francese che esibiva le sue qualità senza decoro, così da non dover aspettare che fosse l’uomo a cercarla, ma era lei a scegliere quello che sembrava più galante.
Anche in altri luoghi con cui condividevamo una cultura e una lingua comuni, sembravano ancora mantenere tradizioni abbastanza particolari, così a differenza di quanto accadeva nel nostro paese da tempo, le donne non erano ancora riuscite ad avere un livello sufficiente di indipendenza economica e politica, e questo accadeva in Inghilterra, dove erano avvenuti i primi movimenti per ottenere il suffragio universale, ossia che le donne avessero il diritto di votare per scegliere i loro rappresentanti legali e con questo venne loro riconosciuta una serie di diritti che la equiparavano all’uomo, ma, rimuovendo l’aspetto politico, c’erano ancora molte che non lavoravano se non nei settori minori e nelle proprie case.
Quei confronti non cessavano di stupirmi, sarà che questa parte del mondo si stava evolvendo più lentamente di quanto pensassi.
Almeno nel mio paese è stato fatto uno sforzo importante per condividere la cultura con gli altri, una volta integrati nella società tutti gli immigrati che negli ultimi decenni erano venuti da tutti i paesi d’Europa, rifugiati politici, richiedenti asilo o semplicemente parenti, che così si sono incontrati di nuovo.
Molti erano arrivati fuggendo da un sistema politico che non li convinceva, altri cercavano migliori condizioni di vita e opportunità di lavoro e tutti erano stati accolti senza distinzioni di sesso, razza o religione.
In poco tempo avevano assimilato la cultura del paese senza perdere la propria, tanto che per strada era difficile distinguerli, tanto nelle scuole quanto nei posti di lavoro.
Forse ciò che spiccava di più era il colore della loro pelle o alcuni dettagli del viso, ma poiché c’erano già così tanti che erano stati da generazioni e generazioni in questo paese, non era indicativo di nulla.
Ciò che avevano mantenuto come segno di identità erano i loro rituali e cerimonie, al momento di sposarsi o per dire addio ai loro cari quando morivano, ad alcuni dei quali avevo partecipato in più di un’occasione, le prime volte per curiosità e altre per amicizia.
CAPITOLO 2. LA PRIMA SORPRESA
Attraversavamo quelle vecchie strade, molte delle quali acciottolate, alla ricerca di quella che sarebbe dovuta essere una breve visita, ma i luoghi di interesse turistico erano interminabili e innumerevoli, almeno così sembrava al resto dei membri del gruppo, che si emozionava ogni volta che giravamo un angolo scoprendo un edificio importante e antico.
A me così tante visite agli edifici storici risultavano eterne, quindi ero un po’ stanco e affaticato, forse per aver camminato da un posto all’altro per tutta la mattina, o forse per il caldo persistente e per il fuso orario, il che significava che era ancora buio pesto nel mio paese quando era a malapena mezzogiorno qui o poteva anche essere dovuto all’aver fatto le ore piccole, nella nostra esplorazione fallita della vita notturna della città, o una combinazione di quanto appena detto.
Inoltre, tutto questo è rimasto qui immutato per centinaia di anni e penso che continuerà così per molti altri.
Non capisco la necessità che hanno gli altri di visitare ciascuno dei luoghi che sembravano interessanti, documentandoli con fotografie o sui loro quaderni come se fossero loro gli scopritori di antiche rovine.
Mi sedetti accanto a una fontana di pietra, nel mezzo di una piazza, aspettando che i compagni uscissero da una chiesa. Ero distratto, guardavo verso il fondo dello stagno che si formava mentre l’acqua cadeva nella fontana, quando una bambina mi si avvicinò.
Per la sua altezza non credo che avesse più di sei o sette anni, indossava un abito bianco e una sciarpa gialla in testa e con un ampio sorriso mi offrì un fiore con grandi petali bianchi.
Dopo aver raccolto una presenza così preziosa e delicata nelle mie mani e senza conoscere il motivo di quel dono, desiderai pagare ed estrassi alcune monete dal mio portafoglio e gliele mostrai in modo che mettesse le mani per dargliele, ma scosse la testa, dicendomi qualcosa che non capii e sollevando la mano destra all’altezza della testa in un gesto di addio, si voltò e fuggì.
Non sapevo cosa fare di quella piccola meraviglia e la misi nel risvolto della giacca, in altre circostanze non l’avrei fatto, perché sapevo che questo tipo di ornamento fiorito è usato nei matrimoni e in alcuni eventi sociali, sebbene siano usati più spesso dalle donne come accessorio.
Quando alzai lo sguardo, dopo aver sistemato il fiore, vidi che la ragazza si allontanava tra alcuni dei tanti vicoli che conducevano a questa piazza, sinceramente ero un po’ disorientato da questa distribuzione urbanistica piuttosto caotica, abituato alle grandi città in cui dalle strade principali, di dimensioni maggiori, partivano le altre secondarie più piccole, ma qui le dimensioni della strada non erano indicative di nulla, da ognuna di esse nasceva un’altra e successivamente un’altra di dimensioni diverse e da queste altre nuove strade e viali.
Inoltre, le poche indicazioni che enunciavano il nome del luogo in cui ci trovavamo erano scritte in quella lingua straniera, che nonostante condividesse un simile alfabeto era abbastanza enigmatica per me.
Forse se avessi prestato un po’ più di attenzione alle lezioni di lingua antica, in cui i miei insegnanti avevano impiegato così tanti sforzi nel tentativo di inculcarmi l’amore per la cultura classica, ma dal momento che quella materia non contava troppo per il voto finale, non la studiai con molto interesse, e ciò ora mi impediva di approfittare in maniera migliore di questo viaggio, non solo perché la città era piena di iscrizioni su porte e architravi e altri resti archeologici, nella lingua latina antica e già in disuso, ma perché la lingua che i cittadini parlavano qui, l’italiano, ne era una sua derivazione o evoluzione.
Inoltre, la guida che ci era stata assegnata dall’ambasciata, ci aveva fatto da traduttore, parlando con i mercanti e i venditori che si avvicinavano al gruppo per cercare di venderci l’uno o l’altro oggetto o quando volevamo entrare in un edificio privato per contemplare i resti architettonici o storici in quelle ville.
A questo proposito non mi era troppo chiaro il tipo di relazione che l’arte aveva con quella città, sembrava che gli antichi benefattori, i mecenati dell’epoca, pagassero generosamente gli artisti perché lasciassero opere da loro plasmate, e con ciò avevano fatto di quella capitale un centro culturale di riferimento.
È vero che nel mio paese abbiamo alcuni mecenati che donano parte della loro ricchezza a giovani talenti, ma la loro generosità non arriva a livello che i loro benefici vengano riconosciuti decadi dopo decadi come incoraggiamento per le nuove generazioni.
Inoltre, lo stesso governo fornisce, attraverso vari meccanismi, assistenza diretta o di supporto a coloro che si distinguono dagli altri per merito, ma queste sovvenzioni non si concentrano esclusivamente sugli artisti, ma cercano invece di premiare coloro che eseguono meglio un determinato lavoro, affinché possano continuare a formarsi e migliorarsi.
Pertanto, le giovani promesse di scienza, ricerca, arte e persino sport vengono premiate con sussidi in modo che possano dedicarvi la loro vita senza preoccuparsi di trovare un lavoro per pagare i loro studi.
Fortunatamente per me, sono stato tra quei giovani favoriti dalla sorte, premiati dal governo, da cui dipendevano il progresso e il futuro del nostro Paese. Questa borsa di studio statale mi ha permesso di studiare nello stesso centro di altri, senza bisogno di avere un padre con una posizione politica elevata o con una grande fortuna, come alcuni dei miei compagni di viaggio, o senza avere una carriera sportiva straordinaria e promettente come altri.
La mia specialità e il motivo per cui simpatizzavo per le scienze era la matematica, perché fin da piccolo mi piaceva scoprire la relazione che gli elementi avevano in natura, indovinare gli eventi prima che accadessero, prevedere il comportamento degli animali e delle persone.
Di tutto ciò non ne avevo idea, ma quando iniziai a studiare matematica capii che era il linguaggio del futuro poiché con esso avrei potuto fare ipotesi su eventi presenti e futuri, capire le associazioni degli insiemi e il loro comportamento e applicarlo alla vita quotidiana.
Forse era qualcosa di pretenzioso proprio come mi era stato prospettato da qualche insegnante, il cercare di dare un po’ di logica al mondo che ci circonda, senza tener conto del comportamento istintivo. Allo stesso modo, alcuni dei miei colleghi studenti mi criticavano definendomi presuntuoso poiché preferivano affidarsi a qualcosa di intangibile come la buona o la cattiva sorte, ma ero sicuro che dietro ogni fatto e ogni comportamento ci fosse una formula che lo potesse spiegare.
Mi ero quindi specializzato in teorie economiche, attraverso le quali fui in grado di prevedere il comportamento dei governi rispetto al commercio interno ed estero.
La teoria principale che sostenevo è che le città si espandessero o si contraessero a seconda della disponibilità di cibo, non era una questione di buono o cattivo raccolto, ma di facilità o difficoltà dello scambio attraverso il commercio.
Quindi ho riletto la storia attraverso questa ipotesi e ho potuto rivedere come alcuni popoli fossero destinati a scomparire perché non avevano una materia prima da offrire alle città vicine e quindi non potevano commerciare con ciò di cui altri avevano bisogno.
Alcuni dei miei professori, quando dovetti difendere la mia tesi, mi accusarono di forzare la realtà per adattarla al modello matematico, ma ero sicuro che la loro fosse diffidenza.
Se conoscessi tutte le variabili economiche di una determinata città, o almeno le più importanti, potrei prevedere senza troppi errori, quanti anni di sussistenza avrà e se la sua gente si possa trasformare in dominatrice o dominata.
Pertanto, se quelle città che coltivavano e generavano materie prime, non erano circondate da altre persone capaci di trasformarle e produrle, rimanevano senza possibilità di crescita. Era una simbiosi perfetta, vantaggiosa per entrambi, in cui il produttore sopravviveva grazie alla manifattura delle materie prime.
È vero che ciò causava una differenza economica piuttosto importante visto che i produttori dovevano pagare fino a dieci volte di più per lo stesso prodotto che avevano preso dalla terra quando veniva lavorato, ma se si parla esclusivamente di sostentamento, entrambi i popoli riuscivano a sopravvivere.
Forse le mie teorie avevano impressionato pochi, ma la cosa più notevole era quando venivano usate in altri ambiti, alcuni mi avevano proposto di realizzare una variazione per provare a ipotizzare come funzionassero i paesi a livello militare.
Sebbene la mia idea economica iniziale fosse più prevedibile, poiché le persone non sono più governate esclusivamente dalla quantità di armi che possiedono, ma dalla qualità e dalla capacità logistica di esse, elementi che nelle mie equazioni sono difficili da valutare e avvalorare.
Mentre ero assorto in questi pensieri, improvvisamente sentii qualcuno gridare, veniva da quel punto in cui era andata la bambina che mi aveva regalato il fiore.
Guardai dappertutto e nessuno sembrava sussultare per quello strillo, durò alcuni secondi e poi si dissipò nel frenetico andirivieni dei viandanti.
Rimasi fermo per un momento e mi venne uno strano pensiero, forse quella ragazza era in pericolo. Mi attraversò un brivido che mi saliva per tutta la spina dorsale fino al collo e improvvisamente corsi verso il punto in cui avevo visto l’ultima volta quella bambina, della quale sembrava che nessun altro avesse notato la richiesta di aiuto.
Lì lasciai miei compagni di viaggio senza nemmeno avvertirli, poiché non sapevo ancora dove stessi andando. Percorsi velocemente un centinaio di metri quasi senza respirare fino a fermarmi improvvisamente quando la strada terminava, dividendosi in due.
Guardai ansioso e spaesato da tutte le parti perché non era passato molto tempo da quando avevo sentito quella piccola e non la vedevo da nessuna parte. Non avrebbe potuto correre tanto in così poco tempo come avevo fatto io, quindi avrei dovuto già vederla, anche se a differenza della piazza affollata che avevo appena lasciato qui non riuscivo a vedere nessuno.
Sarebbe stato molto utile chiedere a qualsiasi viandante se avesse visto una bambina passare di lì, ma non trovando nessuno, non sapevo cosa fare, avrei potuto dirigermi verso una o l’altra strada, ma fino a dove? Per quanto tempo avrei continuato la mia ricerca?
Anche se non sapevo nulla di quella bambina, pensare che potesse essere in pericolo era decisamente preoccupante e non volevo tornare indietro, ma era inutile continuare a correre indefinitamente per queste strade.
Sarebbe potuta sparire solo se fosse stata presa in braccio, perché non vedevo nessun altra possibilità poiché non sarebbe arrivata così lontano e così velocemente con i suoi piedi.
Tornai sui miei passi piuttosto abbattuto e preoccupato, deluso per non essere stato in grado di aiutarla, con il fiato rotto per lo sforzo e vidi che verso la metà della via c’era una piccola porta che non avevo notato mentre correvo.
Percorsi di nuovo nervosamente la strada dall’inizio per vedere se ci fossero altre aperture e non ne trovai nessun’altra, “È possibile che l’abbiano portata qui?” Mi chiesi di fronte alla piccola porta che mi arrivava un po’ al di sopra del petto.
Misi le mani su quel vecchio cancello di legno, gonfio per l’umidità e spinsi per vedere se cedeva, perché non aveva né batacchio né chiavistello. Dopo diversi tentativi, cedette e si aprì facendo un fastidioso stridio, come le biciclette vecchie e piene di grasso quando non vengono usate per un po’ di tempo.
Mi fermai di fronte a quella cavità oscura decidendo se entrare o no, perché ero sicuro che fosse una proprietà privata a cui nessuno mi aveva invitato ad accedere, ed era improbabile che quella bambina fosse entrata lì perché in quel caso avrei dovuto sentire quel suono particolare, a meno che … la porta non fosse già aperta prima che la prendessero.
Infilai la testa per vedere cosa ci fosse dietro questa gonfia porticina di legno vecchio e tutto ciò che riuscii a vedere fu una profonda e immensa oscurità, accompagnata da un intenso odore di umidità, più tipico dei luoghi vicini al mare, nei quali l’umidità prevalente nell’ambiente impregna le pareti, corrodendole e formando salnitro che le scrosta e le sgretola.
Rimasi lì resistendo al forte odore, aspettando che i miei occhi si abituassero all’oscurità per cercare di individuare qualche oggetto all’interno, mentre provavo a ascoltare un qualsiasi rumore per quanto insignificante che fosse, ma tutto ciò fu vano, nessun suono echeggiò lì dentro, l’unica cosa che potevo sentire era la mia respirazione accelerata e non vidi nulla che non fosse l’oscurità assoluta, quindi dovetti concludere che quella porta conducesse a una stanza chiusa, fredda e umida.
Ma cosa poteva essere? Forse un vecchio negozio di alimentari o la portineria abbandonata di una casa.
Con grande attenzione e avvertendo della mia presenza nel caso ci fosse stato qualcuno all’interno di quel luogo sinistro, mi decisi a entrare.
Per evitare di scontrarmi con qualsiasi oggetto, lasciai la porta aperta, ma non aiutò molto perché quell’oscurità nera si trasformò solo in una fitta penombra dove la mia ombra si proiettava come una sagoma sinuosa e spettrale sulla parete di fondo.
Dopo essere quasi caduto perché all’ingresso c’erano tre gradini in discesa di cui non mi ero accorto, mi ripresi e cercai di non urtare nulla, camminando molto lentamente fino a quando non andai a sbattere contro un muro.
Non ci saranno stati nemmeno due metri di distanza dalla porta in fondo alla lugubre stanza e non sembrava esserci altro accesso, un vicolo cieco.
In nessun modo la ragazza sarebbe potuta entrare lì e anche lo avesse fatto non sarebbe stato volontariamente, ma dove poteva essere? Mi stavano finendo le idee, quindi continuai a esplorare quella piccola stanza, appigliandomi a qualsiasi cosa.
Con le mani continuavo a toccare ogni centimetro di quella stanza finché non trovai una fessura nella parete, era l’intelaiatura di un’altra porta, che toccai poco dopo.
Al tatto era ruvida e umida, molto simile a quella che avevo dovuto spingere per accedere a quella stanza cupa.
Feci scivolare la mano sul davanti cercando di sentire il pomello per aprirla, ma non riuscivo a trovarlo, trovai solo un buco all’altezza dell’ombelico, che immaginavo fosse il buco della serratura.
Spinsi con forza come avevo fatto con la porta di accesso, ma non si mosse. Dato che non cedeva, pensai che potesse aprirsi verso di me, quindi cercai di tirarla, mettendo le dita come potevo in quella piccola cavità della serratura, ma tutti i miei sforzi furono vani perché nemmeno in questa direzione cedeva.
Mi abbassai fino all’altezza dell’apertura nella porta, per vedere se almeno potessi vedere qualcosa attraverso e l’unica cosa che riuscii a vedere, in modo abbastanza parziale, fu un cortile quadrato, simile a un chiostro, circondato da colonne erette come sbarre di una prigione.
Queste sembravano custodire e proteggere i numerosi grandi dipinti appesi alle pareti adiacenti. Nulla che mi aiutasse a identificare il posto, perché case signorili del genere, le avevo già viste diverse volte durante la mattinata, ma non vedevo la ragazza o qualsiasi altra persona a cui chiedere aiuto per spostare quella porta pesante e dovetti rassegnarmi davanti al mio clamoroso fallimento. Sapendo che non avrei potuto fare nulla di più per quella bambina e che i miei compagni di classe, dopo aver terminato la loro visita alla chiesa dove li avevo lasciati, mi avrebbero cercato, tornai quindi nella piazza con la fontana al centro da dove mi ero allontanato.
Ero ancora preoccupato per la bambina che solo un momento prima di scomparire mi aveva regalato quel delicato fiore, ma allo stesso tempo non ero nemmeno sicuro che le fosse successo qualcosa.
Tornai dove erano e i miei colleghi mi stavano già aspettando, cercandomi nei dintorni. Dopo averli rassicurati e chiesto loro come fosse stata la loro visita, continuammo in un’altra nuova via e di fronte a noi emerse un vecchio monumento da scoprire.
Di nuovo rimasi fuori, ma questa volta mi rifugiai all’ombra di un balcone in modo che non mi arrivasse troppo sole.
Essendo lì, un po’ più calmo, ripreso dalle emozioni provate pochi minuti prima, mi sono ricordato di aver vissuto qualcosa di simile in precedenza, una situazione molto compromettente del mio passato, che pensavo fosse dimenticata, sbiadita nel corso degli anni, ma la ricordai nella mia mente come se la stessi rivivendo in quel preciso momento.
In quell’occasione sarei dovuto intervenire e non l’ho fatto per paura o codardia, non lo so bene, ma se fosse stato per me si sarebbe salvata.
Mi riferisco a mia sorella, a quando eravamo piccoli, io non avevo nemmeno sette anni e lei ne aveva circa cinque.
Era una giornata calda come oggi, nella piscina alla base, alla quale appartenevamo perché nostro padre era un militare. Uscimmo entrambi a mezzogiorno, quando sapevamo che non ci sarebbe stato nessuno in giro, perché gli adulti in quel momento stavano dormendo e noi ne approfittammo per fare il bagno.
I nostri genitori erano usciti per fare una di quelle visite a cui eravamo tanto abituati, a causa della costante attività sociale di nostra madre, a volte incompatibile con la vita rigida e strutturata di nostro padre, ma è così che lei aveva superato le sue assenze costanti, quando lo assegnavano a missioni diverse per mesi.
Iniziò come una forma di intrattenimento e a poco a poco iniziò ad occuparle sempre più tempo, fino a diventare una parte importante della sua vita.
All’inizio era solo un modo per distrarsi, quindi iniziò ad andare una volta a settimana a un innocuo corso di pittura, poi due, poi … allestì una delle stanze come suo studio di lavoro e da lì a diventare professionista fu una questione di tempo e molta pratica, perché aveva l’essenziale, una grande abilità con il pennello e un buon occhio per i dettagli.
I suoi professori orgogliosi del suo lavoro furono quelli che la incoraggiarono a iniziare a fare mostre per il resto dello staff della base, ma a piccoli passi.
Successivamente, iniziò un tour delle diverse basi militari vicine, che la invitavano conoscendo il suo talento e la destrezza con i pennelli e poi trascorse la sua vita pubblica, per modo di dire, in diverse città che la invitavano a partecipare a mostre collettive o individuali per presentare i suoi progressi.
Inoltre, l’esercito la sosteneva, perché migliorava l’immagine del corpo militare tra i civili, dimostrando che la vita all’interno di una base non dovesse per forza essere noiosa e monotona e che le donne dell’esercito non dovevano rinunciare alle loro ambizioni e alla loro vita, potendosi realizzare proprio come tutte le altre.
In breve tempo, quella famiglia cambiò identità, passò dall’essere la famiglia di mio padre, conosciuto come il famoso capitano, decorato in vari contesti e rispettato da tutti coloro che avevano servito al suo comando, all’essere la famiglia di mia madre, nota all’intero paese, per essere la pioniera e in molti casi l’esempio dell’eccellenza delle donne all’interno e all’esterno dell’esercito, al punto che l’hanno persino invitata in uno di quei programmi in prima serata (con massimo pubblico).
Ücretsiz ön izlemeyi tamamladınız.