Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1», sayfa 13
CAPITOLO VII
Innalzamento al trono, e tirannia di Massimino. Ribellione nell'Affrica e nell'Italia autorizzata dal Senato. Guerre civili, e sedizioni. Morti violente di Massimino e del suo figlio, di Massimo, di Balbino, e dei tre Gordiani. Usurpazione, e giuochi secolari di Filippo.
Tra le varie forme di Governo che hanno prevaluto nel Mondo, quella di una monarchia ereditaria pare che più di ogni altra presenti un bersaglio al ridicolo. Può egli dirsi senza un riso sdegnoso, che alla morte del padre la proprietà di una nazione, simile a quella di un vile armento, ricada all'infante suo figlio, ignoto al genere umano, ugualmente che a se medesimo, e che i più coraggiosi guerrieri, ed i più saggi ministri, rinunziando al loro naturale diritto all'Impero, si accostino alla culla reale colle ginocchia piegate, e con proteste di fedeltà inviolabile? La satira e la declamazione possono dipingere questi quadri frequenti con i colori più vivi; ma noi con mente più seria rispetteremo un utile pregiudizio, che stabilisce una regola di successione indipendente dalle passioni degli uomini, e con piacere accetteremo questo espediente (qualunque egli sia) che toglie alla moltitudine il pericoloso, e veramente ideale potere di eleggersi da sè stessa un padrone.
All'ombra e nel silenzio del ritiro si possono facilmente inventare diversi sistemi di governo, nei quali lo scettro debba costantemente essere conceduto al membro più degno dal libero ed incorrotto suffragio della intera nazione. L'esperienza rovina questi aerei edifizj, e mostra che in una grande società l'elezione di un Monarca non può mai dipendere dalla più saggia o dalla più numerosa parte del popolo. La milizia è il solo ordine d'uomini sufficientemente uniti per accordarsi in un medesimo sentimento, e potente assai per farlo adottare al resto dei loro concittadini. Ma il carattere dei soldati, avvezzi alla violenza insieme ed alla schiavitù, li rende affatto incapaci di essere i custodi d'una legale o anche civile costituzione. La giustizia, l'umanità, o la prudenza politica sono qualità troppo ignote ad essi, perchè le rispettino negli altri. Il coraggio soltanto acquisterà la stima loro, e la liberalità comprerà i loro voti; ma il primo di questi meriti spesso si trova nei petti più feroci, e il secondo non si può dimostrare, che a spese del Pubblico, e l'ambizione di un intraprendente rivale può rivoltarli ambidue contro il possessore del trono.
La superiore prerogativa della nascita, confermata dal tempo e dall'opinione popolare, è la più semplice e meno invidiata di tutte le distinzioni tra gli uomini. Un riconosciuto diritto estingue le speranze della fazione, e la coscienza della propria sicurezza disarma la crudeltà del Monarca. Noi dobbiamo al saldo stabilimento di questa idea la successione pacifica, e la mite amministrazione delle monarchie europee. Alla mancanza di questa medesima idea si debbono attribuire le frequenti guerre civili, colle quali un despota asiatico è obbligato di farsi strada al trono de' suoi antenati. Pure, anche in Oriente, la sfera della contesa è per lo più ristretta tra i Principi della famiglia regnante, ed appena il fortunato pretendente si è disfatto de' suoi fratelli col ferro e colla corda, non ha più gelosia de' sudditi inferiori. Ma l'Impero romano, quando l'autorità del Senato fu caduta in disprezzo, divenne un vasto teatro di confusione. Le famiglie reali, ed anche nobili delle province erano state gran tempo avanti condotte in trionfo dinanzi al carro dei superbi repubblicani. Le antiche famiglie romane si erano successivamente estinte sotto la tirannide dei Cesari, e fino a tanto che questi Principi furono vincolati dalla forma repubblicana, e sconcertati dalla replicata estinzione della loro posterità520, fu impossibile, che alcuna idea di successione ereditaria potesse radicarsi nelle menti dei loro sudditi. Ciascuno ripetè dal proprio merito un diritto a quel trono, al quale niuno per nascita poteva aspirare. Le audaci speranze dell'ambizione rimasero sciolte dal salutevole freno delle leggi e dei pregiudizj. Allora il più vile tra gli uomini poteva, senza essere tacciato di follia, sperare di innalzarsi col valore e colla fortuna ad un certo grado militare, nel quale un solo delitto lo rendesse capace di acquistare lo scettro del Mondo, strappandolo di mano ad un padrone debole ed aborrito. Dopo l'assassinio di Alessandro Severo, e l'innalzamento di Massimino, niuno Imperatore potè credersi sicuro sul trono, ed ogni barbaro contadino delle frontiere potè aspirare a quel posto augusto e pericoloso.
Trentadue anni in circa, prima di quell'evento, l'Imperatore Severo ritornando da una spedizione orientale, si fermò nella Tracia per celebrare con giuochi militari il giorno natalizio di Geta, suo figlio minore. Quei popoli corsero in folla a vedere il loro Sovrano, ed un giovane barbaro, di gigantesca statura, istantemente domandò nel suo rozzo dialetto il favore di essere ammesso a concorrere al premio della lotta. Siccome la dignità della disciplina sarebbe stata avvilita, se un pastor della Tracia avesse atterrato un soldato romano, lo fecero combattere con i più robusti servi del campo, sedici dei quali furono da lui successivamente abbattuti. Fu ricompensato il suo valore con alcuni piccoli doni, e con la permissione di arrolarsi nelle truppe. Il giorno dopo, quel fortunato barbaro si fece distinguere tra le altre reclute, esultando e saltando alla maniera del suo paese. Appena si accorse di essersi attirata l'attenzione dell'Imperatore, si trasse immantinente dietro al di lui cavallo, e lo seguitò a piedi in un lungo e rapido corso senza apparenza di stanchezza veruna. «O Trace» disse Severo maravigliato «sei tu adesso disposto a lottare»? «Volentierissimo» rispose l'instancabil giovane, e quasi in un momento atterrò sette de' più forti soldati dell'esercito. Una collana d'oro fu il premio dell'impareggiabile sua forza ed attività, e venne immediatamente destinato a servire tra le guardie a cavallo, che sempre accompagnavano la persona del Sovrano521.
Massimino, chè tale era il suo nome, benchè nato sulle terre dell'Impero, discendea da una mista razza di Barbari. Suo padre era Goto, e sua madre della nazione degli Alani. Mostrò in ogni occasione un valore eguale alla sua robustezza; e la pratica del Mondo moderò ben presto, o mascherò la sua nativa fierezza. Sotto il regno di Severo e del figlio ottenne il grado di centurione col favore o colla stima di ambidue questi Principi, il primo dei quali era eccellente conoscitore del merito. La gratitudine impedì Massimino di servire sotto l'assassino di Caracalla, e l'onore gl'insegnò ad evitare gli effeminati insulti di Elogabalo. All'avvenimento di Alessandro ritornò alla Corte, ed ottenne da questo Principe un posto utile al pubblico servizio, ed onorevole a se medesimo. La quarta legione, della quale era stato fatto tribuno, presto divenne, sotto la sua cura, la meglio disciplinata di tutto l'esercito. Con il generale applauso dei soldati, che davano al loro favorito eroe i nomi di Aiace e d'Ercole, egli fu successivamente promosso al primo militare comando522, e se non avesse sempre ritenuto un po' troppo la rozzezza della sua barbara origine, forse l'Imperatore avrebbe data la sua propria sorella in consorte al figlio di Massimino523.
Questi favori, invece di accrescere la fedeltà, servirono solamente ad accendere l'ambizione di quel pastor della Tracia, che riguardò la sua fortuna come ineguale al suo merito, fino a tanto che gli convenne riconoscere un superiore. Benchè privo di una vera prudenza, la sua naturale sagacità gli fece conoscere che l'Imperatore avea perduto l'affetto dei soldati, e gl'insegnò ad accrescere il loro disgusto a suo proprio vantaggio. È facile allo spirito di fazione ed alla calunnia di spargere il loro veleno sull'amministrazione dei migliori Principi, e di accusare le stesse loro virtù, artificiosamente confondendole con quei vizj, con i quali esse hanno una prossima affinità. I soldati ascoltarono con piacere gli emissarj di Massimino. Arrossirono essi della vergognosa pazienza, colla quale avevano per tredici anni sofferta la fastidiosa disciplina imposta loro da un effeminato Siro, il timido schiavo della madre e del Senato. Era tempo, gridavan eglino, di distruggere il vano fantasma della potenza civile, e di eleggere per loro Sovrano e Generale un vero soldato educato nel campo, esercitato alla guerra, che sostenesse la gloria dell'Impero, e ne dividesse i tesori co' suoi compagni. Un grand'esercito era allora accampato sulle rive del Reno sotto il comando dell'Imperatore medesimo, che quasi immediatamente dopo il suo ritorno dalla guerra persiana, era stato obbligato a marciare contro i Barbari della Germania. Era a Massimino affidata la cura importante di addestrare e rivedere le nuove reclute. Un giorno, entrato egli nella piazza degli esercizj, le truppe o per un moto improvviso, o per tramata congiura, lo salutarono Imperatore: colle loro alte acclamazioni posero silenzio a' suoi ostinati rifiuti, e si affrettarono a compire la ribellione coll'assassinio di Alessandro Severo.
Le circostanze di questa morte vengono riferite diversamente. Gl'Istorici, i quali suppongono, ch'egli morisse nell'ignoranza dell'ingratitudine ed ambizione di Massimino, affermano, che dopo avere preso un pasto frugale al cospetto dell'esercito, si ritirò a dormire, e che verso la settima ora del giorno, alcune delle sue proprie guardie entrarono impetuose nella tenda imperiale, e con molte ferite trucidarono il loro virtuoso e tranquillo Sovrano524. Se si presta fede ad un altro, e veramente probabil racconto, Massimino fu rivestito della porpora da un numeroso distaccamento a qualche miglio di distanza dal quartier generale; ed egli fidava più sopra i desiderj secreti, che sulle pubbliche dichiarazioni del grande esercito, Alessandro ebbe bastante tempo di risvegliare nelle truppe un debole sentimento di fedeltà; ma lo loro vacillanti proteste subitamente svanirono all'apparire di Massimino, che si dichiarò l'amico, ed il protettore dell'ordine militare, e fu unanimemente riconosciuto Imperatore dei Romani dalle applaudenti legioni. Il figlio di Mammea, tradito ed abbandonato, desideroso almeno d'involare gli ultimi suoi momenti agl'insulti della moltitudine, si ritirò nella sua tenda. Lo seguitarono subito un tribuno ed alcuni centurioni ministri di morte, ma in luogo di ricevere con risoluta costanza l'inevitabile colpo, con pianti e suppliche inutili disonorò gli estremi della sua vita, e cangiò in disprezzo qualche parte di quella giusta pietà, che la sua innocenza e le sue disgrazie doveano risvegliare. La di lui madre Mammea, all'ambizione ed all'avarizia della quale egli altamente imputava la sua rovina, perì con lui. I suoi più fidi amici caddero vittime del primo furore de' soldati; altri furono riservati alla più deliberata crudeltà dell'usurpatore, e quelli, che provarono un trattamento più dolce furono spogliati de' loro impieghi, ed ignominiosamente cacciati fuor della Corte e dell'esercito525.
I primi tiranni Caligola e Nerone, Commodo e Caracalla, furono tutti giovani dissoluti ed inesperti526, educati nella porpora e corrotti dall'orgoglio dell'Impero, dal lusso di Roma, e dalla perfida voce dell'adulazione. La crudeltà di Massimino aveva una diversa origine; il timor del disprezzo. Benchè egli si fidasse all'affetto dei soldati, che lo amavano per le virtù simili alle loro, sapea che la sua vile barbara origine, la sua rozza apparenza, e la sua totale ignoranza delle arti e dei precetti della vita civile527 formavano un contrasto molto svantaggioso cogli amabili costumi dello sventurato Alessandro. Egli si ricordava, che nella sua bassa fortuna avea spesso aspettato avanti alla porta dei superbi nobili Romani, e che gli era stato spesso negato l'ingresso dall'insolenza dei loro schiavi. Rammentava ancora l'amicizia di pochi, che aveano sollevata la sua povertà, ed assistite le sue nascenti speranze. Ma e quelli che aveano sprezzato, e quelli che aveano protetto il Trace, erano colpevoli dello stesso delitto, il quale era la cognizione della oscura di lui origine. Assai furono per questa colpa messi a morte, e Massimino, colla strage di molti suoi benefattori, pubblicò a caratteri di sangue l'indelebile istoria della sua viltà, e della sua ingratitudine528.
L'animo cupo e sanguinario del tiranno era aperto ad ogni sospetto contro i sudditi più illustri per nascita o per merito. Ogni volta ch'egli temea di qualche tradimento, l'implacabil sua crudeltà non avea alcun ritegno. Fu o scoperta o inventata una congiura contro la vita di lui; e Magno, Senator consolare, venne accusato di esserne il capo. Senza testimonj, senza processo, e senza aver luogo a difesa, Magno con 4000 dei suoi supposti complici fu messo a morte; e l'Italia, anzi tutto l'Impero, trovossi infestato da un numero incredibile di spie e di delatori. Per una leggerissima accusa, i primi tra i nobili romani, che aveano governate le province, comandati gli eserciti, e portate eziandio le insegne del consolato e del trionfo, erano incatenati su i pubblici carri, e sollecitamente trasferiti alla presenza dell'Imperatore. La confiscazione, l'esilio, o la semplice morte si consideravano come insoliti esempj della sua clemenza. Alcuni di quegli sventurati venivano per un ordine cuciti dentro lo pelli di bestie recentemente uccise, altri esposti alle fiere, ed altri condannati ad essere battuti con le verghe fino alla morte. Nei tre anni del suo regno, non si degnò di visitare nè Roma, nè l'Italia. Il suo campo, trasportato per alcune circostanze dalle rive del Reno a quelle del Danubio, era la sede del suo barbaro dispotismo, che calpestava ogni principio di legge e di giustizia, ed avea per sostegno l'arbitrario poter della spada. Egli non soffriva appresso di se alcun uomo di nobile nascita, di belle doti, o perito negli affari civili; e la Corte di un Imperatore romano risvegliava l'idea di quegli antichi capi di schiavi e di gladiatori, la cui selvaggia potenza avea lasciata una profonda impressione di terrore e di detestazione529.
Finchè la crudeltà di Massimino fu ristretta agli illustri Senatori, o ai temerarj avventurieri, che nella Corte e nell'esercito si esponevano al capriccio della fortuna, il popolo in generale contemplò con indifferenza, e forse con piacere, i loro supplizj. Ma l'avarizia del tiranno, stimolata dall'insaziabile avidità dei soldati, invase finalmente i beni del Pubblico. Ogni città dell'Impero possedeva una rendita indipendente, destinata a provvedere il grano per la moltitudine, ed a supplire alle spese dei giuochi e dei divertimenti. Con un atto solo di autorità l'intera massa di queste ricchezze fu in una sola volta confiscata per uso del tesoro imperiale. I tempj furono spogliati delle più ricche offerte d'oro e di argento, e le statue degli Dei, degli Eroi, e degl'Imperatori furono liquefatte e convertite in moneta. Ordini così empj non si poterono eseguire senza tumulti e stragi, poichè in molti luoghi i popoli vollero piuttosto morire difendendo i loro altari, che vedere in mezzo alla pace le loro città esposte alla rapina, ed alla crudeltà della guerra. I soldati stessi, ai quali veniva distribuito quel sacrilego bottino, lo ricevevano con rossore; e benchè induriti negli atti della violenza, temevano i giusti rimproveri dei loro amici e parenti. Tutto il Mondo romano alzò un clamore generale d'indignazione, gridando vendetta contro il nemico comune del genere umano. Finalmente un atto di privata oppressione eccitò una provincia pacifica, e disarmata a ribellarsi contro di lui530.
Il Procuratore dell'Affrica era un ministro degno di un tal Sovrano, che considerava le tasse e le confiscazioni dei ricchi come uno dei più fertili rami delle entrate imperiali. Era stata pronunziata un'iniqua sentenza contro alcuni ricchissimi giovani affricani, l'esecuzione della quale dovea privarli della maggior parte del loro patrimonio. In quell'estremità si risolvettero disperatamente di compire o di prevenire la loro rovina. Il respiro di tre giorni, ottenuto con difficoltà dal rapace Tesoriere, fu impiegato a raccogliere dalle loro terre un gran numero di schiavi, e di contadini ciecamente addetti ai comandi dei loro padroni, e rusticamente armati di bastoni e di scuri. I capi della congiura, ammessi all'udienza del Procuratore lo trucidarono con i pugnali, che aveano nascosti; ed assistiti dal loro tumultuoso seguito s'impadronirono della piccola città di Tisdro531, inalberandovi l'insegna della ribellione contro il Sovrano del romano Impero. Appoggiavano le loro speranze sull'odio generale contro Massimino, e prudentemente si risolvettero di opporre a quel detestato tiranno un Imperatore, che colle sue dolci virtù avea già acquistato l'amore e la stima dei Romani, e la cui autorità su quella provincia potea dar peso e stabilità all'impresa. Gordiano, loro Proconsole, ed oggetto della loro scelta, ricusò con una sincera ripugnanza quel pericoloso onore, e piangendo li supplicò di lasciargli terminare in pace una vita lunga ed innocente, senza macchiare col sangue civile la sua debole età. Le loro minacce lo costrinsero ad accettare la porpora imperiale, per lui ormai unico refugio contro la gelosa crudeltà di Massimino; giacchè, secondo la massima dei tiranni, chiunque è stato riputato degno del trono, merita la morte, e colui che delibera, si è già ribellato532.
La famiglia di Gordiano era una delle più illustri del Senato romano: per parte di padre discendeva dai Gracchi, per quella poi della madre dall'Imperatore Traiano. Un gran patrimonio gli dava campo di sostenere la dignità della sua nascita, ed ei lo godeva mostrando un gusto elegante, ed una benefica indole. Il palazzo in Roma, anticamente abitato dal gran Pompeo, era stato per varie generazioni posseduto dalla famiglia dei Gordiani533. Era esso adornato d'antichi trofei di vittorie navali, e decorato di pitture moderne. La di lui villa, sul cammin di Preneste, era celebre per i bagni di singolare bellezza ed estensione, per tre magnifiche sale di 100 piedi di lunghezza; e per un superbo portico sostenuto da 200 colonne delle quattro più rare e più stimate specie di marmo534. I pubblici spettacoli fatti a sue spese, e nei quali il popolo fu divertito da molte centinaia di fiere e di gladiatori535, sembrano superiori alla condizione di un privato, e mentre la liberalità degli altri Magistrati si ristringeva a poche solenni feste in Roma, la magnificenza di Gordiano, quand'egli era Edile, fu rinnovata ogni mese nell'anno, ed estesa, nel suo Consolato, alle principali città dell'Italia. Fu due volte Console sotto Caracalla e sotto Alessandro, perchè egli possedeva il raro talento di acquistare la stima dei Principi virtuosi, senza eccitare la gelosia dei tiranni. Egli passò innocentemente la lunga sua vita negli studj delle lettere, e nelle parifiche dignità di Roma; e sembra che prudentemente evitasse il commando delle armate, ed il governo dello province, finchè la voce del Senato, e l'approvazione di Alessandro lo fecero Proconsole dell'Affrica536. Questa provincia, mentre visse quell'Imperatore, fu felice sotto l'amministrazione del suo degno Rappresentante. Dopo che il barbaro Massimino ebbe usurpato il trono, Gordiano alleggerì quelle calamità che non poteva impedire. Quando accettò contro sua voglia la porpora, avea più di 80 anni, ultimo e pregevole avanzo del felice secolo degli Antonini, le cui virtù ravvivò nella sua condotta, e celebrò in elegante poema di 30 libri. Il figlio che aveva accompagnato quel rispettabile Proconsole dell'Affrica, come suo Luogotenente, fu insieme col padre dichiarato Imperatore. I costumi di lui erano meno puri, ma avea un carattere amabile al pari di quello del padre. Ventidue concubine riconosciute, ed una libreria di sessantaduemila volumi attestavano la varietà delle sue inclinazioni. E dalle produzioni, che lasciò dopo di se, apparisce che le donne, ed i libri erano veramente per uso, e non per ostentazione537. Il popolo romano ritrovava nelle fattezze del giovane Gordiano una rassomiglianza con l'Affricano Scipione; rammentavasi con piacere che la di lui madre era nipote di Antonino Pio, ed appoggiava le pubbliche speranze su quelle nascoste virtù, che fin allora, come si lusingava, erano rimaste occulte nel lusso indolente di una vita privata.
Appena i Gordiani ebbero calmato il primo tumulto di una popolare elezione, trasferirono la loro Corte, a Cartagine; vi furono ricevuti colle acclamazioni degli Affricani, che rispettavano le loro virtù, e che da Adriano in poi non aveano mai veduto la maestà, di un Imperatore romano. Ma queste acclamazioni non avvaloravano, nè confermavano il titolo dei Gordiani. Essi per massima e per interesse vollero sollecitare l'approvazione del Senato, e fu immediatamente spedita a Roma una deputazione dei più nobili provinciali per riferire e giustificare la condotta dei loro concittadini, i quali avendo lungamente sofferto con pazienza, si erano finalmente risoluti ad operar con vigore. Le lettere dei nuovi Principi erano modeste e rispettose. Si scusavano sulla necessità, che gli aveva obbligati ad accettare il titolo imperiale, ma sottoponevano la loro elezione ed il loro destino al supremo giudizio del Senato538.
Le inclinazioni del Senato non furono incerte, nè divise. I Gordiani, per la nascita e per le nobili alleanze, erano intimamente congiunti colle famiglie più illustri di Roma. Le ricchezze avean creato loro molti dipendenti in quel corpo, od il merito molti amici. La loro dolce amministrazione presentò il lusinghiero aspetto del ristabilimento non solo del governo civile, ma del repubblicano ancora. Il timore della violenza militare, che avea prima costretto il Senato a dimenticar la morte di Alessandro, ed a ratificare l'elezione di un barbaro pastore539, produsse allora un effetto contrario, e l'animò a sostenere i violati diritti della libertà e dell'umanità. L'odio di Massimino verso il Senato era manifesto ed implacabile: le più umili sommissioni non ne aveano mitigato il furore, e la più cauta innocenza non potea dileguare i sospetti; in somma, la cura della propria salvezza obbligò i Senatori a prendere parte in un'impresa, nella quale, se non riusciva felice, erano sicuri di dover essere le prime vittime. Queste considerazioni, ed altre forse d'una più privata natura, furono esaminate in una previa conferenza dei Consoli e dei Magistrati. Appena fu la loro risoluzione decisa, convocarono tutti i Senatori nel Tempio di Castore, con un'antica formula di secretezza540, istituita a risvegliare la loro attenzione, e celare i loro decreti. «Padri coscritti» disse il Console Sillano «i due Gordiani, ambi di consolar dignità, uno vostro Proconsole, e l'altro vostro Luogotenente, sono stati dichiarati Imperatori dal generale consentimento dell'Affrica. Rendiamo grazie» (seguitò coraggiosamente) «alla gioventù di Tisdro; rendiamo grazie al fedele popolo di Cartagine, che ci hanno generosamente liberati da un orrido mostro. – Perchè mi ascoltate con tal freddezza o timore? Perchè vi riguardate con tanta inquietezza? Perchè dubitate? Massimino è un pubblico nemico. Possa la sua inimicizia presto spirar con lui, e possiam noi lungamente godere della prudenza e della felicità di Gordiano il padre, e del valore e della costanza di Gordiano il figliuolo541.» Il nobile ardore del Console ravvivò il languido spirito del Senato. Fu con decreto unanime ratificata l'elezione dei Gordiani: Massimino, il suo figlio, ed i suoi aderenti vennero dichiarati nemici della patria, e furono promesse generose ricompense a chiunque avesse il coraggio, o la fortuna di ucciderli.
Nell'assenza dell'Imperatore, un distaccamento delle guardie Pretoriane restava in Roma per proteggere la Capitalo, o piuttosto per mantenerla in dovere. Il Prefetto Vitaliano avea segnalata la sua fedeltà per Massimino colla prontezza nell'eseguire, ed anche prevenire i crudeli ordini del tiranno. La sua morte sola poteva liberare l'autorità del Senato, e le vite dei Senatori dal pericolo e dall'incertezza. Prima che traspirassero le loro risoluzioni, fu data commissione a un Questore ed a varj Tribuni di uccidere quell'esecrato Prefetto. Eseguirono questi l'ordine con pari ardire e successo, e tenendo in mano i sanguinosi pugnali, corsero per le strade, annunziando altamente al popolo ed ai soldati la nuova della fortunata rivoluzione. L'entusiasmo della libertà fu secondato dalla promessa di un generoso donativo in terre e danari: furono abbattute le statue di Massimino: la Capitale dell'Impero riconobbe con trasporto l'autorità dei due Gordiani, e del Senato542: ed il resto dell'Italia seguitò l'esempio di Roma.
Un nuovo spirito erasi risvegliato in quell'adunanza, la cui lunga pazienza era stata insultata dallo sfrenato dispotismo, e dalla licenza militare. Il Senato prese le redini del Governo, e con ferma intrepidità si preparò a sostenere colle armi la causa della libertà. Tra i Senatori consolari, per merito e per i loro servizj, favoriti dall'Imperatore Alessandro, fu cosa facile lo sceglierne venti capaci di comandare un esercito e di regolare una guerra. Fu a questi affidata la difesa dell'Italia: fu ciascuno destinato ad agire nel suo rispettivo dipartimento, autorizzato ad arrolare e disciplinare la gioventù Italiana, ed istruito a fortificare i porti e le strade maestre contro l'imminente invasione di Massimino. Diversi deputati, scelti tra i Senatori o cavalieri più illustri, furono spediti nel tempo stesso ai Governatori delle diverse province, per vivamente esortarli a correre al soccorso della patria, e per rammentare alle nazioni i loro antichi vincoli di amicizia col Senato e col popolo romano. Il rispetto generale, con il quale furono ricevuti quei Deputati, e lo zelo dell'Italia e delle province in favore del Senato provano bastantemente che, i sudditi di Massimino erano ridotti a quell'estreme angustie, nelle quali il popolo tutto ha più da temere dall'oppressione, che dalla resistenza. L'evidenza di questa trista verità inspira un grado di furore costante, che raramente si trova in quelle guerre civili, le quali si sostengono artificiosamente in servigio di pochi capi sediziosi ed intraprendenti543.
Ma nel tempo che con ardore sì grande era la causa dei Gordiani abbracciata, più non vivevano i Gordiani. La debole Corte di Cartagine fu spaventata dal celere arrivo di Capeliano, Governatore della Mauritania, che con una piccola truppa di veterani, ed una armata di Barbari feroci assalì quella fedele ma imbelle provincia. Il giovane Gordiano usci per incontrare il nemico alla testa di poche guardie e di una indisciplinata moltitudine, allevata nel pacifico lusso di Cartagine. Il suo inutil valore servì soltanto a procurargli una morte onorevole sul campo di battaglia. Il vecchio suo padre, dopo avere regnato soli trentasei giorni, si tolse la vita alla prima nuova della disfatta. Cartagine, priva di difesa, aprì le porte al vincitore, e l'Affrica fu esposta alla rapace crudeltà di uno schiavo, obbligato a soddisfare il suo implacabile padrone con una immensa quantità di sangue e di tesori544.
Il fato dei Gordiani riempì Roma di un giusto ma inaspettato terrore. Il Senato, convocato nel Tempio della Concordia, affettava di trattare gli affari ordinarj di quel giorno, e parea che tremante ed inquieto evitasse di considerare il proprio ed il pubblico pericolo. Una tacita costernazione avea sorpreso ognuno, finchè un Senatore, del nome e della famiglia di Traiano, riscosse i compagni dal lor funesto letargo. Rappresentò egli che la scelta di caute dilatorie misure non era da gran tempo più in lor potere; che Massimino, implacabile per natura, ed inasprito dalle offese, si avanzava verso l'Italia conducendo le forze dell'Impero; e che ad essi rimaneva la sola alternativa o d'incontrarlo coraggiosamente in campo, o di aspettar vilmente i tormenti e la morte ignominiosa, riservata ai ribelli infelici. «Abbiamo perduto» prosegui egli «due eccellenti Principi; ma se noi non abbandoniamo noi stessi, le speranze della Repubblica non sono perite con i Gordiani. Vi restano molti Senatori degni del trono per le loro virtù, e capaci di sostenere co' propri talenti la dignità imperiale. Eleggiamo due Imperatori, uno dei quali possa dirigere la guerra contro il pubblico nemico, mentre il suo collega rimarrà in Roma a regolare il governo civile. Io di buona voglia mi espongo al pericolo ed all'odiosità della scelta, e dò il mio voto in favore di Massimo e di Balbino. Ratificatelo, Padri coscritti, o proponete in loro vece altri più meritevoli dell'Impero.» Il timore generale fe' tacere le voci della gelosia; il merito dei candidati fu generalmente riconosciuto; ed il Tempio risuonò con sincere acclamazioni di «lunga vita e vittoria agl'Imperatori Massimo e Balbino. Voi siete felici per sentenza del Senato; e possa la Repubblica essere felice sotto il vostro governo545».
Le virtù e la riputazione dei nuovi Imperatori giustificavano le più ardenti speranze dei Romani. Dalla varia natura dei loro talenti parea fatto ciascuno pel suo particolare dipartimento di pace o di guerra, senza dar luogo ad una gelosa emulazione. Balbino era un oratore stimato, un poeta illustre, ed un saggio magistrato, che aveva esercitata con integrità e con applauso la civile giurisdizione in quasi tutte le interne province dell'Impero. La sua nascita era nobile546, ricco il suo patrimonio, liberali ed affabili le sue maniere. L'amor del piacere veniva in lui corretto da un sentimento di dignità; e gli agi non l'avean privato della capacità necessaria per gli affari. L'animo di Massimo era alquanto più rozzo. Dal più basso stato si era, con il valore ed il senno, innalzato alle prime cariche dello Stato e dell'esercito. Le sue vittorie contro i Sarmati ed i Germani, l'austerità della sua vita, e la rigida imparzialità della sua giustizia, quando fu Prefetto della città, gli acquistarono la stima di un popolo, il cui affetto era impegnato in favore delle più amabili qualità di Balbino. I due colleghi erano ambidue stati Consoli (ma Balbino due volte); ambidue erano stati nominati tra i venti Luogotenenti del Senato, ed avendo uno sessanta, l'altro settantaquattro anni547, erano giunti ambidue alla piena maturità degli anni e dell'esperienza.