Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1», sayfa 3
Tale era lo stato dell'Europa sotto gl'Imperatori romani. Le province dell'Asia, senza eccettuarne le passeggiere conquiste di Traiano, sono tutte comprese dentro i limiti dell'Impero turco. Ma invece di seguitare le arbitrarie divisioni del dispotismo e dell'ignoranza, sarà cosa più sicura e più grata l'osservare i caratteri indelebili della natura. Il nome d'Asia Minore si dava con qualche proprietà alla penisola, che, confinata tra l'Eusino e il Mediterraneo, si avanza dall'Eufrate verso l'Europa. La più estesa e florida sua divisione verso l'occidente del monte Tauro e del fiume Ali, veniva distinta dai Romani col titolo esclusivo di Asia. La giurisdizione di quella provincia si estendeva sopra le antiche monarchie di Troia, di Lidia, e di Frigia, i paesi marittimi dei Panfilj, dei Licj e dei Carj, e le colonie greche dell'Ionia, che nelle arti, ma non nelle armi, uguagliavano la gloria della lor madre. I regni della Bitinia e del Ponto possedevano la parte settentrionale della penisola da Costantinopoli a Trebisonda. Dalla parte opposta, la provincia della Cilicia era terminata dalle montagne della Siria; la terra ferma, che il fiume Ali separava dall'Asia romana, e l'Eufrate dall'Armenia, aveva formato una volta l'indipendente regno della Cappadocia. Qui possiamo osservare che i lidi settentrionali dell'Eusino, di là da Trebisonda nell'Asia, e di là dal Danubio nell'Europa, riconoscevano la sovranità degl'Imperatori, e ricevevano dalle lor mani o Principi tributarj, o guarnigioni romane. Budzak, la Tartaria-Crimea, la Circassia e la Mingrelia sono i moderni nomi di quelle selvagge contrade97.
Sotto i successori di Alessandro, la Siria era la sede dei Seleucidi, che regnavano nell'Asia superiore, finchè la fortunata ribellione de' Parti circoscrisse i loro dominj tra l'Eufrate ed il Mediterraneo. Quando la Siria fu sottomessa ai Romani, formò la frontiera orientale del loro Impero; nè conobbe questa provincia, nella sua più gran larghezza, altri limiti che le montagne della Cappadocia a tramontana, e verso il mezzogiorno i confini dell'Egitto ed il mar Rosso. La Fenicia e la Palestina furono talora annesse alla giurisdizione della Siria, e talora ne furono separate. La prima di queste era una costa stretta e scoscesa; la seconda era un territorio superiore appena a quello di Galles in fertilità ed in estensione. Contuttociò la Fenicia e la Palestina vivranno sempre nella memoria degli uomini; perocchè sì l'America che l'Europa hanno da una ricevute le lettere, e dall'altra la religione98. Un arenoso deserto, privo di alberi e d'acqua, si stendeva lungo l'incerto confine della Siria, dall'Eufrate al mar Rosso. La vita errante degli Arabi era inseparabilmente connessa con la loro indipendenza, ed ogni volta che si arrischiarono a piantare abitazioni sopra terreni meno infecondi, divennero tosto sudditi dell'Impero romano99.
I geografi dell'antichità sono stati spesso incerti a qual parte del globo dovessero riferire l'Egitto100. Per la sua situazione questo celebre regno è incluso nella immensa penisola dell'Affrica, ma è solamente accessibile dalla parte dell'Asia, alle cui rivoluzioni, quasi in ogni periodo della storia, ha l'Egitto umilmente obbedito. Un prefetto romano sedeva sul magnifico trono dei Tolomei; e lo scettro di ferro dei Mammalucchi è ora nelle mani di un bassà turco. Il Nilo scorre per quel paese quasi cinquecento miglia dal Tropico del Cancro al Mediterraneo, e indica ad ogni parte la maggiore o minor fertilità con la misura delle sue inondazioni. Cirene, posta verso l'occidente e lungo la costa marittima, fu prima una colonia greca, dipoi una provincia dell'Egitto, ed ora è perduta nel deserto di Barca.
Da Cirene all'Oceano, la costa dell'Affrica si estende sopra 1500 miglia; ma è così strettamente serrata tra il Mediterraneo, e il Saara, o sia Deserto arenoso, che la sua larghezza rade volte eccede ottanta o cento miglia. La divisione orientale era considerata dai Romani come la provincia più particolare, e propria dell'Affrica. Fino all'arrivo delle colonie fenicie, quel fertil paese era abitato dai Libj, i più selvaggi di tutti gli uomini. Sotto l'immediata giurisdizione di Cartagine, divenne il centro del commercio e dell'Impero; ma la repubblica di Cartagine è ora degenerata nelle deboli e disordinate Reggenze di Tripoli e di Tunisi. Il governo militare di Algeri opprime la vasta estensione della Numidia, come era unita una volta sotto Massinissa e Giugurta: ma al tempo di Augusto, i limiti della Numidia furon ristretti; e due terzi almeno del paese presero il nome di Mauritania, con l'aggiunto di Cesariense. La vera Mauritania, o sia il paese dei Mori, che dall'antica città di Tingi, o Tangeri, era distinta con il nome di Tingitana, è rappresentata dal moderno regno di Fez. Salè sull'Oceano, così infame adesso per le depredazioni de' suoi pirati, era considerata dai Romani come l'ultimo oggetto della loro potenza, e quasi della lor geografia. Si scopre ancora una città fondata da loro vicino a Mequinez, residenza di quel Barbaro, che ci abbassiamo a chiamare Imperator di Marocco; ma non pare che i suoi più meridionali dominj, Marocco stesso e Segelmessa fossero mai compresi nella provincia romana. Le parti occidentali dell'Affrica sono traversate dalle catene del monte Atlante101, nome così a vuoto celebrato dalla fantasia dei poeti; ma che ora è diffuso sull'immenso Oceano, il quale scorre tra il vecchio continente ed il nuovo102.
Avendo ora finito il circuito dell'Impero romano, possiamo osservare, che l'Affrica è divisa dalla Spagna da un piccolo stretto di quasi dodici miglia pel quale l'Atlantico si volge nel Mediterraneo. Le Colonne di Ercole, così famose presso gli antichi, erano due montagne che sembravano essere state distaccate da qualche sconvolgimento degli elementi; ed a' piedi della montagna europea è ora situata la fortezza di Gibilterra. L'intera estensione del Mediterraneo, le sue coste e le sue isole erano comprese nel dominio romano. Delle isole più grandi, le due Baleari, che traggono i lor nomi di Maiorca e Minorca dalla rispettiva loro grandezza, sono adesso soggette, la prima alla Spagna e la seconda alla Gran-Britannia. È più facile il deplorare che descrivere l'attuale condizione della Corsica. Due Sovrani italiani assumono il titolo regio dalla Sardegna e dalla Sicilia. Il regno di Creta o Candia, con quel di Cipro, e molte delle più piccole isole della Grecia e dell'Asia, sono state soggiogate dalle armi ottomane; mentre il piccolo scoglio di Malta sfida la lor potenza, e sotto il governo del suo Ordine militare è cresciuto in fama e in ricchezza103.
Questa lunga enumerazione di province, i cui divisi frammenti hanno formati tanti possenti regni, può quasi indurci a perdonare agli antichi la lor vanità o la loro ignoranza. Abbagliati dall'esteso dominio, dalla forza irresistibile, e dalla reale o affettata moderazione degl'Imperatori, disprezzavano, e talvolta obbliavano le remote contrade, che erano state lasciate nel godimento di una barbara indipendenza; e a poco a poco ei presero la licenza di confondere l'Impero romano con il globo della Terra104. Ma il carattere e le cognizioni di uno storico moderno richiedono un linguaggio più sobrio e preciso. Questi può imprimere una più giusta immagine della grandezza romana, facendo osservare che l'Impero avea sopra 2000 miglia di larghezza dalla muraglia di Antonino e dai confini settentrionali della Dacia, al Monte Atlante e al Tropico del Cancro; che si stendeva in lunghezza per più di 3000 miglia dall'Oceano occidentale all'Eufrate; che era situato nella più bella parte della Zona temperata, tra i gradi ventiquattro e cinquantasei di latitudine Settentrionale; e che si supponeva contenere più di un milione e seicento mila miglia quadre, la maggior parte di terra fertile e ben coltivata105.
CAPITOLO II
Unione ed interna prosperità del romano Impero nel secolo degli Antonini.
Non per la rapidità o estensione delle sue conquiste soltanto si dee valutare la grandezza di Roma. Il Sovrano dei deserti della Russia comanda ad una porzione più vasta del globo. Nella settima estate dopo il suo passaggio dell'Ellesponto, Alessandro innalzava i trofei macedoni sulle rive dell'Ifasi106. In meno di un secolo l'irresistibile Gengis e i principi Mogolli di quella stirpe estesero le crudeli devastazioni, ed il passeggiero loro dominio dal mar della China ai confini dell'Egitto e della Germania107. Ma il saldo edifizio della potenza romana fu levato in alto o conservato dalla prudenza di molti secoli. Le contrade che obbedivano a Traiano ed agli Antonini, erano unite con le leggi, ed adornate dalle arti. Esse potevano accidentalmente soffrire per l'abuso parziale di una autorità delegata; ma il principio generale del Governo era savio, semplice e benefico. Gli abitatori delle province godevano della religione de' loro antenati, mentre negli onori e vantaggi civili per giusti gradi venivano alzati ad un'eguaglianza con i loro conquistatori.
I. La politica degl'Imperatori e del Senato, per riguardo alla religione, era felicemente secondata dalle riflessioni della parte illuminata dei loro sudditi, e dai costumi della parte superstiziosa. I diversi culti religiosi che si osservavano nel Mondo romano, erano tutti considerati dal popolo come egualmente veri; dal filosofo come egualmente falsi, e dai magistrati come egualmente utili. Di tal modo la tolleranza produceva non solo una scambievole indulgenza, ma eziandio una religiosa concordia.
La superstizione del popolo non era amareggiata da alcuna mistura di rancor teologico, nè vincolata era dalle catene di alcun sistema speculativo. Il politeista devoto, sebbene appassionatamente ligio a' nazionali suoi riti, ammetteva con una implicita fede le diverse religioni della Terra108. Il timore, la gratitudine e la curiosità, un sogno o un augurio, un singolar disordine, o un viaggio lontano lo disponevano continuamente a moltiplicare gli articoli della sua credenza, o ad accrescer la lista de' suoi protettori. La sottil tessitura della mitologia pagana era intrecciata di varj, ma non discordanti materiali. Col convenire che gli uomini saggi e gli eroi, i quali erano o vissuti o morti in servigio della patria, s'innalzassero a un grado di dignità e d'immortalità, si confessava universalmente ch'essi meritavano di esser almeno venerati, se non adorati, da tutto il genere umano. Le Divinità di mille piccoli boschi e di mille ruscelli possedevano, in pace, la loro locale e respettiva influenza; nè il Romano, che procurava di placare lo sdegno del Tevere, poteva derider l'Egiziano, che presentava le sue offerte al benefico Genio del Nilo. I visibili poteri della natura, i pianeti e gli elementi erano gli stessi per tutto l'universo. I rettori invisibili del mondo morale non potevan esser rappresentati che da finzioni ed allegorie gettate in una medesima stampa. Ogni virtù, ed anche ogni vizio ottenne la sua divina rappresentanza; ogni arte e professione ebbe il suo protettore, i cui attributi, nei secoli e nei paesi più distanti, erano uniformemente ricavati dal carattere dei loro particolari adoratori. Una repubblica di Dei, così opposti d'interessi e di tempre, richiedeva in qualunque sistema la mano moderatrice di un magistrato supremo, il quale col progredire della scienza e dell'adulazione fu a poco a poco investito delle sublimi perfezioni di Monarca Onnipotente, e di Creatore Sovrano109. Così moderato era lo spirito dell'Antichità, che le nazioni eran meno attente alle differenze, che alle somiglianze dei loro culti religiosi. Il Greco, il Romano ed il Barbaro, nell'incontrarsi avanti i loro respettivi altari, facilmente si persuadevano, che sotto nomi diversi e con diverse ceremonie essi adoravano le medesime Divinità. L'elegante mitologia di Omero dava una bella e quasi regolar forma al politeismo del Mondo antico110.
I filosofi greci ricavavano la loro morale dalla natura dell'uomo, anzi che da quella di Dio. Essi meditavan però sulla natura divina come oggetto di una speculazione molto importante e curiosa, ed in questa profonda ricerca mostravano la forza e la debolezza dell'umano intendimento111. Tra le quattro più celebri scuole, gli Stoici ed i Platonici procurarono di riconciliare i discordanti interessi della ragione e della religione. Essi ci hanno lasciate le più sublimi prove della esistenza e delle perfezioni della cagione prima; siccome però impossibile era ad essi il concepire la creazione della materia, così l'artefice, nella filosofia stoica, non viene abbastanza distinto dall'opera; mentre al contrario il Nume spirituale di Platone e dei suoi discepoli sembra piuttosto un'idea, che una sostanza. Le opinioni degli Accademici e degli Epicurei erano di una tempra men religiosa; ma nel mentre che i primi erano dalla modesta loro scienza indotti a mettere in dubbio, gli ultimi dalla loro positiva ignoranza erano costretti a negare la Provvidenza di un Reggitore supremo. Lo spirito di ricerca, avvivato dalla emulazione, e sostenuto dalla libertà, aveva divisi i pubblici maestri di filosofia in una varietà di contrarie Sette; ma la gioventù ingegnosa, che da ogni parte concorreva ad Atene ed alle altre sedi delle scienze nell'Impero romano, era egualmente ammaestrata in ogni scuola a rigettare e disprezzare la religione del popolo. Come, di fatto, era egli possibile che un filosofo accettasse per verità divine le vane novelle dei poeti, e le tradizioni incoerenti dell'antichità; o che adorasse come Dei quegli enti imperfetti, ch'esso avrebbe disprezzati come uomini? Cicerone condiscese a trattare le armi della ragione e dell'eloquenza contro tali indegni avversarj; ma la Satira di Luciano fu un'arme più adeguata, ed altrettanto più efficace. Si può ben credere che uno scrittore, il quale praticava nel mondo, non si sarebbe mai arrischiato ad esporre gli Dei del suo paese alle risa del pubblico, se questi non fossero già stati l'oggetto del secreto disprezzo fra gli ordini più colti ed illuminati della società112.
Non ostante la irreligiosità di moda, che regnava nel secolo degli Antonini, l'interesse dei sacerdoti, non meno che la credulità del popolo erano tenuti in sufficiente rispetto. Negli scritti e nei discorsi loro i filosofi dell'antichità sostenevano l'indipendente dignità della ragione, ma uniformavano le loro azioni ai comandi delle leggi e dei costumi. Riguardando con un riso di compassione e d'indulgenza i varj errori del volgo, praticavano diligentemente le cerimonie dei loro padri, frequentavano devotamente i tempj degli Dei; e talvolta condescendendo a fare la lor parte sul teatro della superstizione, coprivano i sentimenti di un ateo sotto le vesti sacerdotali. Ragionatori di questa tempra non eran molto inclinati a disputare circa le loro rispettive maniere di fede o di culto. Era indifferente per loro qual forma prender volesse la follia della moltitudine; e s'accostavano con lo stesso interno disprezzo e con la stessa reverenza esterna agli altari dei Giove Libico, dell'Olimpico o del Capitolino113.
Non è facile il concepire per quali motivi uno spirito di persecuzione si sarebbe introdotto nei concilj romani. I magistrati non potevano essere animati da una cieca sebbene onesta devozione, giacchè i magistrati stessi eran filosofi; e le scuole di Atene aveano dato le leggi al Senato. Non potevano essere incitati dall'ambizione dall'avarizia, giacchè la potestà temporale e l'ecclesiastica erano unite nelle stesse mani. I pontefici erano scelti tra i più illustri dei senatori, e l'uffizio di sommo pontefice era costantemente esercitato dagl'Imperatori medesimi. Essi conoscevano e valutavano i vantaggi della religione in quanto ella è connessa col governo civile. Incoraggiavano le pubbliche feste, che rendono più umani i costumi del popolo. Si servivano delle arti della divinazione, come di un utile strumento di politica; e rispettavano come il più saldo legame della società la giovevole persuasione, che il delitto dello spergiuro viene infallibilmente punito in questa vita o nell'altra dai Numi114 vendicatori. Ma mentre riconoscevano i vantaggi generali della religione, eran persuasi che la diversità dei culti contribuiva ugualmente ai medesimi salutevoli fini; e che in ogni paese la forma della superstizione, che avea ricevuta la sanzione del tempo e dell'esperienza, era la più acconcia al clima ed a' suoi abitatori. L'avarizia ed il buon gusto bene spesso rapivano alle vinte nazioni le eleganti statue dei loro Numi, ed i ricchi ornamenti dei loro tempj115, ma nell'esercizio della religione dei loro antenati, esse generalmente provavano l'indulgenza, anzi la protezione dei conquistatori romani. La provincia della Gallia sembra, ed in vero sembra soltanto, un'eccezione a questa universal tolleranza. Sotto lo specioso pretesto di abolire i sacrifizj umani, gl'Imperatori Tiberio e Claudio soppressero la pericolosa potenza dei Druidi116; ma si lasciarono sussistere in una pacifica oscurità, fino all'ultima distruzione del paganesimo, i sacerdoti, gli Dei ed i loro altari117.
Roma, la capitale di una gran Monarchia, era continuamente ripiena di sudditi e di stranieri di ogni parte del Mondo118 che tutti v'introducevano e professavano le superstizioni favorite de' loro paesi119. Ogni città nell'Impero era autorizzata a mantenere la purità delle sue antiche cerimonie; ed il Senato romano, usando del comun privilegio, s'interponeva talvolta per frenare questa inondazione di riti stranieri. La superstizione egiziana, la più disprezzabile ed abbietta di tutte, frequentemente fu proibita: i tempj di Serapide e d'Iside furono demoliti, ed i loro adoratori banditi da Roma e dall'Italia120. Ma lo zelo del fanatismo prevalse ai freddi e deboli sforzi della politica. Gli esiliati tornarono, si moltiplicarono i proseliti, i tempj furon riedificati con maggior lustro, ed Iside e Serapide ebbero alfine un posto tra le romane divinità121. Nè questa indulgenza era un allontanarsi dalle vecchie massime di governo. Nei più bei secoli della Repubblica, Cibele ed Esculapio erano stati invitati in Roma con solenni ambasciate122, ed era costume di tentare i protettori delle città assediate con la promessa di onori più segnalati di quelli, che ricevevano nel paese nativo123. Roma divenne a poco a poco il tempio comune dei suoi sudditi; e la cittadinanza fu conceduta a tutti gli Dei del genere umano124.
II. La meschina politica di conservare senza alcun mescuglio straniero il puro sangue degli antichi cittadini, avea rintuzzata la fortuna, ed affrettata la rovina di Atene e di Sparta. Il genio sprezzante di Roma sacrificò quella debole vanità ad una più soda ambizione, e credè più prudente ed onorevole partito adottare e far suoi la virtù ed il merito, ovunque li ritrovasse, sia tra gli schiavi o gli stranieri, sia tra i nemici od i Barbari125. Nella più florida età della Repubblica ateniese, il numero dei cittadini gradatamente decrebbe quasi da trenta126 a ventunmila127. Se al contrario si esamina l'accrescimento della Repubblica romana, si scopre che, non ostanti le continue perdite per le guerre e le colonie, i cittadini che nel primo censo di Servio Tullio non ascendevano a più di ottantatremila, erano moltiplicati, innanzi al principio della guerra Sociale, al numero di quattrocento sessantatremila uomini atti a portar le armi in servizio della patria128. Quando gli alleati di Roma pretesero una egual parte agli onori ed ai privilegi, il Senato, invero, preferì la sorte delle armi ad una concessione ignominiosa. I Sanniti ed i Lucani pagarono severamente la pena della loro temerità; ma pel resto degli Stati italiani, come successivamente rientrarono nel dovere, vennero ricevuti in seno della Repubblica129, e presto contribuirono alla rovina della pubblica libertà. Sotto un governo democratico, i cittadini esercitano il potere della sovranità; e questo potere prima degenera in abuso, indi si perde, se venga affidato ad una moltitudine disadatta pel numero al maneggio delle pubbliche cose. Ma poscia che le popolari adunanze furon soppresse dalla politica degl'Imperatori, i conquistatori più non vennero distinti dalle nazioni vinte, se non in quanto occupavano il primo ed il più onorevol ordine di sudditi; ed il loro accrescimento, sebben rapido, non fu più esposto agli stessi pericoli. I più saggi Principi però, i quali adottarono le massime di Augusto, conservarono con la più scrupolosa cura la dignità del nome romano, e largirono la cittadinanza con una prudente liberalità130.
Finchè i privilegi di cittadino romano non furono progressivamente estesi a tutti gli abitanti dell'Impero, si conservò una distinzione importante tra l'Italia e le province. La prima si riguardava come il centro della pubblica unità, e la salda base della costituzione. L'Italia pretendeva di essere la patria o almeno la residenza degl'Imperatori e del Senato131. Gli Stati degl'Italiani erano esenti da tasse, e le loro persone dalla arbitraria giurisdizione dei governatori. Alle loro comunità municipali, formate sul perfetto modello della capitale, si affidava sotto l'occhio immediato del supremo potere l'esecuzion delle leggi. Dalla radice delle alpi all'estremità della Calabria tutti i nativi d'Italia nascevano cittadini romani. Le loro divisioni di partito erano andate in obblio, ed essi insensibilmente eran venuti a formare una gran nazione unita per la lingua, pe' costumi, e pe' regolamenti civili, e proporzionata al peso di un Impero possente. La Repubblica si gloriava della sua generosa politica, ed era frequentemente ricompensata dal merito e dai servizj dei suoi figli adottivi. Se essa avesse sempre ristretta la distinzione di cittadini romani nelle antiche famiglie dentro le mura della città, quel nome immortale sarebbe andato privo d'alcuno dei suoi nobili ornamenti. Virgilio era nativo di Mantova: Orazio era disposto a dubitare se chiamar si dovesse Pugliese o Lucanio: in Padova si trovò uno Storico degno di raccontare la serie maestosa delle vittorie romane. La famiglia dei Catoni, tanto amante della patria, venne da Tusculo; e la piccola città di Arpino si vantò del doppio onore di aver prodotto Mario e Cicerone, il primo dei quali meritò, dopo Romolo e Camillo, di esser chiamato il terzo fondatore di Roma; ed il secondo, dopo aver salvata la sua patria dalla congiura di Catilina, la rendette capace di contendere con Atene la palma dell'eloquenza132.
Le province dell'Impero (come esse sono state descritte nel precedente capitolo) erano prive di ogni pubblica forza, o libertà costituzionale. Nell'Etruria, nella Grecia133 e nella Gallia134, la prima cura del Senato fu di sciogliere quelle pericolose confederazioni, le quali insegnavano agli uomini, che come le armi romane erano state vittoriose per le altrui divisioni, così l'unione sola poteva ad esse far resistenza. Quei Principi, ai quali l'ostentazione di gratitudine o di generosità permetteva per qualche tempo di reggere uno scettro precario, venivan balzati dai loro troni, appena avean soddisfatto all'incarico loro ingiunto di avvezzare al giogo le vinte nazioni. Gli Stati liberi e le città, le quali avevano abbracciata la causa di Roma, erano ricompensate con un'alleanza di nome, ed insensibilmente cadevano in una real servitù. La pubblica autorità era per ogni dove esercitata dai ministri del Senato e degl'Imperatori, e quest'autorità era assoluta e senza freno. Ma le stesse salutevoli massime di governo, che avevano assicurata la pace e l'obbedienza dell'Italia, erano estese fino alle più remote conquiste. Una nazione di Romani si formò a poco a poco nelle province, col doppio espediente d'introdurre le colonie, e di ammettere i più fedeli e meritevoli tra i provinciali alla cittadinanza romana.
«Dovunque il Romano conquista, ivi abita» è una osservazione molto giusta di Seneca135, confermata dalla storia e dalla esperienza. I nativi d'Italia, allettati dal piacere o dall'interesse, si affrettavano a godere dei vantaggi della vittoria; e si può osservare, che circa quarant'anni dopo la riduzione dell'Asia, ottantamila romani furono in un giorno trucidati pei crudeli ordini di Mitridate136. Questi esuli volontarj si occupavano per la maggior parte nel commercio, nella agricoltura e nell'appalto delle pubbliche entrate. Ma di poi che gl'Imperatori fecero permanenti le legioni, popolate furono le province da una razza di soldati; ed i veterani, comunque ricevessero la ricompensa del lor servizio o in moneta o in terreni, generalmente si stabilivano con le loro famiglie nel paese, in cui avevano onorevolmente consumata la lor gioventù. Per tutto l'Impero, ma più specialmente nelle parti occidentali, i distretti più fertili, e le situazioni più convenienti erano riservate allo stabilimento delle colonie; alcune delle quali erano di un ordine civile, ed altre di un ordine militare. Nei loro costumi e nell'interna politica le colonie formavano una perfetta rappresentanza della loro gran madre, e siccome presto divenivan care ai nazionali pei legami dell'amicizia e della affinità, esse diffondevano effettivamente una riverenza pel nome romano, ed un desiderio raramente inefficace, di parteciparne a tempo dovuto gli onori ed i vantaggi137. Le città municipali insensibilmente uguagliarono il grado e lo splendore delle colonie, e nel regno di Adriano si disputò se preferire si dovesse la condizione di quelle società che erano uscite dal grembo di Roma138, o di quelle che vi erano state ricevute. Il diritto del Lazio, come veniva chiamato, conferiva alle città, alle quali era stato accordato, un più particolare favore. I Magistrati solamente, allo spirar dei loro uffizj, assumevan la qualità di cittadini romani; ma siccome questi uffizj erano annuali, in pochi anni circolavano per le principali famiglie139. Quelli tra i provinciali a' quali era permesso di portar le armi nelle legioni140; quelli che esercitavano qualche impiego civile; tutti quelli, in una parola, che servivano il pubblico, o mostravano qualche personale talento, erano premiati con una ricompensa, il cui valsente andò continuamente diminuendo con l'accrescersi della liberalità degl'Imperatori. Per altro, anche nel secolo degli Antonini, quando la cittadinanza era stata largita alla maggior parte dei sudditi, era questa sempre accompagnata da vantaggi assai solidi. La massa del popolo acquistava con tal titolo il benefizio delle leggi romane, particolarmente negli interessanti articoli di matrimonio, di testamenti e di eredità; e la strada della fortuna rimaneva aperta a coloro, le cui pretensioni erano secondate dal favore o dal merito. I nipoti dei Galli, che aveano assediato Giulio Cesare in Alesia, comandavano le legioni, governavano le province, ed erano ammessi nel Senato di Roma141. La loro ambizione, in cambio di disturbare la tranquillità dello Stato, era intimamente connessa con la sua salvezza e grandezza.
I Romani eran così persuasi dell'influenza della lingua su i costumi nazionali, che la più seria lor cura fu di estendere col progresso delle loro armi l'uso della lingua latina142. Gli antichi dialetti dell'Italia, il Sabino, l'Etrusco ed il Veneto caddero in obblio; ma nelle province l'Oriente fu men docile dell'Occidente alla voce dei suoi vittoriosi maestri. Questa differenza distingueva le due porzioni dell'Impero con una diversità di colori, la quale sebbene fu in qualche parte nascosta, durante il chiaro splendore di prosperità, divenne più visibile a misura che le ombre della notte scesero sul Mondo romano. Le contrade occidentali furon tratte a civiltà dalle stesse mani che lo sottomisero. Appena i Barbari furon ricondotti alla obbedienza, le loro menti si aprirono a tutte le nuove impressioni delle scienze e della cultura. La lingua di Virgilio e di Cicerone, sebbene con qualche inevitabil mescuglio di corruzione, fu così universalmente adottata nell'Affrica, nella Spagna, nella Gallia, nella Britannia143 e nella Pannonia, che soltanto nelle montagne, o tra i contadini si conservarono le deboli tracce della lingua punica o della celtica144. L'educazione e lo studio inspirarono insensibilmente ai nativi di quei paesi i sentimenti dei Romani, e l'Italia diede le mode, come le leggi ai suoi provinciali latini. Essi ricercarono con maggiore ardore, ed ottennero con maggior facilità il titolo e gli onori di cittadino romano: sostennero la dignità della nazione nelle lettere145 e nelle armi: ed al fine produssero nella persona di Traiano un Imperatore che gli Scipioni non avrebbero ricusato per loro concittadino. La situazione dei Greci era ben diversa da quella dei Barbari. I primi erano stati già da gran tempo inciviliti e corrotti. Essi aveano troppo buon gusto per abbandonare la loro lingua, e troppa vanità per adottare alcuna istituzione straniera. Conservando sempre i pregiudizj dei loro antenati, dopo averne perdute le virtù, affettavano di disprezzare le rozze maniere dei romani conquistatori, mentre erano astretti a rispettare la loro superior forza e prudenza146. Nè l'influenza del linguaggio e dei sentimenti dei Greci era ristretta negli angusti confini di quella, una volta, famosa regione. Il loro Impero, col progresso delle colonie e delle conquiste, si era diffuso dall'Adriatico all'Eufrate ed al Nilo. L'Asia era coperta di città greche, ed il lungo dominio dei Re macedoni aveva sordamente introdotta una rivoluzione nella Siria e nell'Egitto. Nelle loro magnifiche Corti quei Principi univano l'eleganza ateniese al lusso orientale, e l'esempio della Corte era, nella proporzionata distanza, imitato dai più distinti ordini dei loro sudditi. Tale era la general divisione dell'Impero romano nelle lingue latina e greca. A queste possiamo aggiungere una terza distinzione pe' nazionali della Siria, e specialmente dell'Egitto. L'uso dei loro antichi dialetti, segregandoli dal commercio degli uomini, era d'impedimento alla cultura di que' Barbari147. La pigra effeminatezza dei primi gli esponeva alla derisione; e l'ostinata ferocia dei secondi eccitava l'avversione dei loro conquistatori148. Queste nazioni si eran sottomesse alla potenza romana, ma raramente desiderarono, o ne meritarono la cittadinanza; e fu osservato che passarono più di dugento trent'anni dopo l'estinzione dei Tolomei, prima che un Egiziano fosse ammesso nel Senato romano149.