Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10», sayfa 16
A. D. 960
Mentre crollava l'impero dei Califfi, nel secolo che scorse dopo la guerra di Teofilo e di Motassem, le ostilità delle due nazioni si ridussero a qualche scorreria per terra e per mare, promosse dalla vicinanza e da un odio irreconciliabile; ma le convulsioni che agitarono l'Oriente destarono i Greci dal letargo offerendo speranze di vittoria e di vendetta. L'impero di Bisanzio, dopo l'esaltazione della razza di Basilio, era stato in pace senza perdere la sua dignità, mentre poteva colla totalità delle sue forze assalire alcuni piccoli Emir, i cui Stati erano ad un tempo investiti, o minacciati in un'altra parte da altri Musulmani. I sudditi di Niceforo Foca, principe tanto rinomato in guerra quanto abbominato dal popolo, gli diedero fra le acclamazioni i titoli enfatici di Stella del mattino, e di Morte de' Saracini550. Nella sua carica di gran famigliare o di general dell'oriente, soggiogò l'isola di Creta, distrusse quella tana di pirati che da sì lungo tempo impunemente insultava la maestà dell'impero551, e ci mostra i suoi talenti in questa impresa che avea così sovente costato ai Greci danno e vergogna. Fece sbarcare le sue genti coll'aiuto di ponti solidi e uniti, che dalle sue navi gettava sulla costa. Questo sbarco disseminò lo spavento fra i Saracini. Sette mesi durò l'assedio di Candia: i Cretesi si difesero con un coraggio disperato, animati dai frequenti soccorsi che ricevevano dai lor fratelli d'Affrica e di Spagna; e quando ebbe l'esercito dei Greci superate le mura e la doppia fossa, si batterono ancora nelle strade e nelle case. Presa la capitale, fu soggiogata l'isola intera, ed i vinti, senza opporsi, ricevettero il battesimo offerto dal vincitore552. Si diede a Costantinopoli lo spettacolo d'un trionfo: applaudì la capitale a questa cerimonia da gran tempo dimenticata, e il diadema imperiale divenne l'unico guiderdone acconcio a pagare i servigi, o a satisfare l'ambizion di Niceforo.
A. D. 963-975
Dopo la morte di Romano il giovane, quarto discendente di Basilio in linea retta, Teofania sua vedova sposò successivamente i due eroi del suo secolo, Niceforo Foca e Giovanni Zimiscè, assassino di quello. Regnarono come tutori e colleghi dei figli, che erano in minore età, e i dodici anni che comandarono l'esercito dei Greci son l'epoca più bella degli annali di Bisanzio. I sudditi e gli alleati che menarono alla guerra, erano, almeno nell'opinion del nemico, dugentomila uomini, trentamila dei quali erano armati di corazze553; quattromila muli seguivano i lor passi, e un muro di picche di ferro difendeva il campo che poneano ogni notte. In una lunga serie di sanguinosi ma indecisivi combattimenti, non può scorgere lo storico che una anticipazione di quelle leggi distruttive, che avrebbe adempiute alcuni anni più tardi il corso ordinario della natura; seguirò dunque in poche parole le conquiste dei due imperatori, dai colli della Cappadocia sino al deserto di Bagdad. Gli assedi di Mopsoesto e di Tarso in Cilicia esercitarono sul principio l'abilità e la perseveranza dei lor soldati, a cui senza tema di errare darò qui il nome di Romani. Dugentomila Musulmani erano predestinati a trovar la morte o la schiavitù554 nella città di Mopsoesto, divisa in due parti dalla riviera di Saro. Pare sì numerosa questa popolazione, che dee supporsi comprendesse almeno quella dei distretti dependenti da Mopsoesto. Questa città fu presa d'assalto; ma Tarso fu lentamente vinta dalla fame. Come tosto i Saracini si furono arresi all'onorevole capitolazione offerta, ebbero il dolore di scorgere da lungi le navi dell'Egitto che venivano inutilmente a soccorrerli. Furono rimandati con un salvo condotto alle frontiere della Sorìa; aveano vissuto in pace gli antichi cristiani sotto il loro dominio, e il vuoto lasciato dalla lor partenza fu presto riempiuto da una nuova colonia: ma la moschea fu cangiata in una scuderia, fu data alle fiamme la cattedra dei dottori dell'Islamismo, e si riservò all'imperatore un gran numero di croci ricche d'oro e di gemme, spoglie delle chiese dell'Asia, da cui potè essere egualmente soddisfatta o la sua pietà o la sua avarizia; ed egli fece levare le porte di Mopsoesto e di Tarso acciocchè, incrostate nelle mura di Costantinopoli, servissero a perpetuo monumento della sua vittoria. Dopo essersi impadroniti e assicurati delle gole del monte Aman, si trasferirono più volte i due principi Romani nel centro della Sorìa: ma invece di investire Antiochia, parve che l'umanità o la superstizion di Niceforo rispettasse l'antica metropoli dell'oriente. Si contentò a tirare una linea di circonvallazione intorno alla Piazza, lasciò un esercito sotto le mura, e raccomandò al suo Luogo-tenente d'aspettare con tranquillità il ritorno della primavera; ma nel cuor dell'inverno, giovandosi d'una notte oscura e piovosa, un ufficial subalterno con trecento soldati s'accostò alle mura, vi adattò le scale, si impadronì di due torri, e tenne fermo contro la folla dei nemici, che lo stringean d'ogni parte, sino a tanto che il suo Capo si determinò suo malgrado di secondarlo. Fu messa subito a ruba e a sacco la città con molta strage; indi vi si rinnovò il regno di Cesare e di Gesù Cristo, e indarno centomila Saracini degli eserciti di Sorìa e dei navili d'Affrica vennero a logorarsi in vani sforzi sotto la Piazza. Obbediva la regia città d'Aleppo a Seifeddowlat, della dinastia di Hamadan, il quale oscurò la sua gloria abbandonando precipitosamente il regno e la capitale. Nel magnifico palazzo, che abitava fuor delle mura d'Aleppo, i Romani trovarono giubilanti un arsenale ben provveduto, una scuderia di mille e quattrocento muli e trecento sacchi d'oro e d'argento; ma le mura della Piazza non cedettero ai loro arieti, e dovettero gli assedianti accamparsi nella montagna di Iaushan, situata nelle vicinanze. Nella lor ritirata si inviperirono le dissensioni, che s'erano accese tra gli abitanti della città e i mercenari, i quali abbandonarono le porte e i baloardi, e mentre furiosamente si battevano nella piazza del mercato, furono sopprapresi ed oppressi dal nemico comune. Furon passati a fil di spada tutti gli uomini d'età matura, e condotti prigionieri diecimila giovani. Tanto considerevole fu il bottino, che non ebbero i vincitori bastanti bestie da soma per trasportarlo; si arse quel che ne restava, e dopo dieci giorni donati alla licenza e alla crapula, abbandonarono i Romani questa città deserta e inondata di sangue. Nelle loro incursioni in Sorìa, ordinarono agli agricoltori che seminassero le terre, acciocchè nella prossima stagione vi trovasse l'esercito sussistenza. Sottomisero più di cento città, e per espiare i sacrilegii commessi dai discepoli di Maometto, si diedero alle fiamme più di diciotto pulpiti delle primarie moschee. La lista dei loro conquisti ricorda per un istante i nomi classici di Ieropoli, d'Apamea e di Emeso. L'imperator Zimiscè accampò nel paradiso di Damasco, ed accettò il riscatto d'un popolo sottomesso: questo torrente non fu arrestato che dalla inespugnabile Fortezza di Tripoli, sulla costa di Fenicia. Dopo il regno di Eraclio, appena i Greci aveano veduto l'Eufrate sotto al monte Tauro; Zimiscè passò senza ostacolo questo fiume, e dee lo storico imitare la prontezza con cui sottomise le già famose città di Samosata, d'Edessa, di Martiropoli, d'Amida555 e di Nisibi, antico limite dell'impero nei contorni del Tigri. Era fomentato il suo ardore sempre più dalla smania di insignorirsi dei tesori ancora intatti d'Ecbatana556, nome notissimo e sotto il quale uno storico di Bisanzio ha nascosta la capitale degli Abbassidi. La costernazione dei fuggiaschi avea di già sparso colà il terror del suo nome: ma l'avarizia e la prodigalità dei tiranni di Bagdad ne avea già dissipate le immaginarie ricchezze. Dalle preghiere del popolo, e dalle premure imperiose del Luogo-tenente dei Bowidi era sollecitato il Califfo a provedere alla difesa della città. Rispose lo sciagurato Mothi essere stato spogliato dell'armi, delle rendite e delle province, e d'essere preparato e presto ad abdicare una dignità che non potea sostenere. L'Emir fu inesorabile: si vendettero i mobili del palazzo, e la misera somma ricavatane di quarantamila pezze d'oro, fu immediatamente spesa in capricci di lusso; ma la ritirata dei Greci liberò Bagdad da ogni inquietudine; la sete e la fame stavano alla guardia del deserto della Mesopotamia, e quindi l'imperatore, sazio di gloria e carico delle spoglie dell'oriente, fece ritorno a Costantinopoli, ove nella cerimonia del suo trionfo mise in pompa gran quantità di stoffe di seta, di vasi d'aromi, e trecento miriadi d'oro e d'argento. Questa procella frattanto non aveva che umiliato la testa delle Potenze dell'oriente, senza distruggerle. Partiti i Greci, rivennero i principi fuggitivi alle lor capitali; i sudditi ritrattarono i giuramenti carpiti dalla forza, purificarono di bel nuovo i Musulmani i lor templi, e rovesciarono gli idoli dei santi e de' martiri della religion cristiana; i Nestoriani e i Giacobiti vollero piuttosto ubbidire ai Saracini che a un principe ortodosso, nè i Melchiti erano abbastanza forti o coraggiosi per difender la chiesa e lo Stato. Di quei vasti conquisti, Antiochia, le città di Cilicia, e l'isola di Cipro furono le sole che restassero in modo utile e permanente all'impero Romano557.
CAPITOLO LIII
Stato dell'Impero d'oriente nel decimo secolo. Sua estensione e divisione. Ricchezze e rendite. Palazzo di Costantinopoli. Titoli e cariche. Orgoglio e potenza degli imperatori. Tattica dei Greci, degli Arabi e dei Franchi. Estinzione della lingua latina. Studii e solitudine de' Greci.
Sembra che alcuni raggi di luce scendano a rischiarare la profonda oscurità del secolo decimo. Noi con curiosità e con riverenza gettiamo lo sguardo sulle Opere di Costantino Porfirogeneta558, composte in età matura per istruzione del figlio, nelle quali ci avvisa che egli intende spiegare davanti ai nostri occhi lo stato dell'impero d'oriente dentro e fuori, in pace e in guerra. Nel primo di quei libri descrive minutamente l'imperatore le pompose cerimonie della chiesa e del palazzo di Costantinopoli, giusta il suo cerimoniale, o quello de' suoi predecessori559. Cerca nel secondo di considerare esattamente le province o, come allora si chiamavano, i temi dell'Europa e dell'Asia560. Espone il terzo qual fosse il sistema di tattica presso i Romani, la disciplina e l'ordine delle loro milizie, e le lor fazioni militari in mare e nel continente, ma non si sa se questo Trattato sia di Costantino o di Leone suo padre561. Il quarto tratta della amministrazion dell'impero, e vi si rivelano i segreti della politica di Bisanzio nelle sue corrispondenze di amicizia o inimicizia colle altre nazioni. I lavori letterari di quel tempo, le massime seguite nella pratica delle leggi, dell'agricoltura e negli scritti storici ebbero in vista, per quanto pare, il vantaggio dei sudditi, e furon fatti per onorare i principi Macedoni. I sessanta libri dei Basilici562, che formano il Codice e le Pandette della giurisprudenza civile, furono compilati sotto i tre primi regni di quella dinastia. Avea l'arte dell'agricoltura occupati gli ozii ed esercitato la penna de' più dotti e virtuosi personaggi dell'antichità, e i venti libri dei Geoponici di Costantino563 racchiudono quanto fu detto di meglio in quella materia. Ordinò questo principe che fossero raccolti in cinquantatre libri564 i fatti della storia più acconci a propagar le virtù e ad ispirare orrore al vizio; e poterono tutti i cittadini giovarsene per sè, o fare che si giovassero i loro contemporanei delle lezioni e degli avvisi dei tempi passati. Il sovrano dell'oriente discese in tal guisa dall'augusto carattere di legislatore al modesto ufficio di professore, o di copista; e se non rendettero i suoi successori o i suoi sudditi il debito onore alle sue cure paterne, almeno i posteri ne han ricevuta la durevole eredità.
Veramente, con un esame più severo sviene di molto il valore del donativo e la gratitudine della posterità; nè il possesso di questo imperiale tesoro ci toglie il dispiacere della nostra povertà ed ignoranza in quell'epoca della storia, e colla indifferenza o col disprezzo rimane insensibilmente cancellato l'onor degli autori. I Basilici non sono che frammenti, e una versione greca parziale e mutilata delle leggi di Giustiniano. Ma sovente la sapienza degli antichi giureconsulti si vede alterata da una rigida devozione, e tiranneggiata la libertà del commercio e la felicità della vita privata dalla proibizione assoluta del divorzio, del concubinato e del prestito fruttifero. Poteva un suddito di Costantino ammirare in quella compilazione istorica le inimitabili virtù della Grecia e di Roma; poteva scorgere a qual segno di energia e d'elevazione era già pervenuto l'uomo; ma tutto altro effetto dovette provenire da una nuova edizione della vita dei Santi che il gran Logoteta, ossia cancellier dell'impero, ebbe ordine di preparare; e Simone il Metafraste565 arricchì ed ornò colle sue favolose leggende l'oscura materia fornitagli dalla superstizione. Secondo il raziocinio umano, tutti i meriti ed i miracoli celebrati nel calendario hanno minor pregio dell'opera d'un solo agricoltore che moltiplichi i doni del cielo, e alla sussistenza provegga de' suoi simili. Eppure gl'imperatori da cui avemmo i Geoponici, hanno più premura d'esporre i precetti d'un'arte distruggitrice, quella della guerra, che sin dal tempo di Zenofonte566 si insegnava come l'arte degli eroi e dei re. La tattica di Leone e di Costantino ha ricevuto l'impronto dello spirito del secolo in cui vissero, e il suo carattere consiste nella mancanza di ingegno e di originalità. Quindi trascrivono essi, senza criterio, la regole e le massime accreditate dalle vittorie: non istile, non metodo: poste alla rinfusa le istituzioni più lontane e quelle che meno con quelle s'accordano, la falange di Sparta e quella di Macedonia, le legioni di Catone e di Traiano, di Augusto e di Teodosia. Si può anche contendere l'utilità, o almen l'importanza di questi elementi dell'arte militare. La lor teorica generale è dettata dalla ragione; ma nella applicazione ne sta il merito e la difficoltà. L'esercizio più che lo studio forma la disciplina del soldato. Il talento della guerra è il retaggio di quegli ingegni tranquilli ma pronti, creati dalla natura per decidere la sorte degli eserciti e delle nazioni; e la prima di queste qualità dipende dall'abitudine della vita, la seconda dalla prontezza del vedere, e le battaglie guadagnate per le lezioni della tattica son tanto rare quanto le epopee create colle regole della critica. Il libro delle cerimonie è una noiosa e imperfetta descrizione di quella pompa ridicola, che infettava la chiesa e lo Stato, da poi che l'una avea perduta la sua purità, l'altro la forza. Invece di alcune tradizioni favolose sull'origine delle città, invece d'alcuni maligni epigrammi sui vizi degli abitanti, si potevano sperare dalla descrizione dei temi o delle province le notizie autentiche di ciò che solo può avere il governo567. Son quelli i fatti che l'istorico si sarebbe dilettato a raccogliere: ma non si potrà condannare il suo silenzio in questo argomento quando Leone il Filosofo, e Costantino suo figlio trascurano le cose più interessanti, come la popolazion della capitale e delle province, la quantità delle imposizioni e delle rendite, il numero de' sudditi e degli estranei che sotto la bandiera imperiale militavano. Nel Trattato della amministrazion pubblica s'incontrano gli stessi difetti; avvi per altro un pregio particolare, ed è che quantunque possan essere incerte o favolose le descritte antichità delle nazioni, pure minutamente e con esattezza vi si trova esposta la geografia de' paesi barbari, e i costumi dei loro abitanti. Fra quei popoli, erano i Franchi quei soli che avean modo d'osservare e di descrivere la metropoli dell'Oriente. Il vescovo di Cremona, ambasciatore d'Ottone il Grande, ha dipinta Costantinopoli quale ella era verso la metà del decimo secolo; caldo ne è lo stile, vivace la narrazione, frizzanti le osservazioni, ed anche i pregiudizi e le passioni di Luitprando hanno l'impronta originale della libertà e dell'ingegno568. Con questi pochi sussidi tanto stranieri che tratti dal paese, io m'accingo ad esaminare l'aspetto e la situazione vera dell'impero di Bisanzio, la condizion delle province e le loro ricchezze, il governo civile e le forze militari, i costumi e le lettere dei Greci ne' sei secoli che volsero dopo il regno d'Eraclio sino all'invasion dei Franchi e dei Latini.
Dopo che si furon divise le province tra i figli di Teodosio, folti sciami di Sciti e di Germani inondarono quelle province, e misero in fondo l'impero dell'antica Roma. L'ampiezza dei dominii velava la debolezza di Costantinopoli: non erano stati attaccati i suoi confini, o per lo meno erano tuttavia nella loro integrità, e l'impero di Giustiniano si era dilatato per due grandi acquisti, l'Affrica e l'Italia; ma non possedettero gli imperatori queste contrade che poco tempo, e precariamente, e fu invasa dai Saracini quasi la metà dell'impero orientale. I Califfi arabi s'insignorirono della Sorìa e dell'Egitto, e dopo sottomessa l'Affrica, i lor Luogo-tenenti soggiogarono la provincia romana che allora formava la monarchia de' Goti in Ispagna. Approdarono i lor vascelli alle isole del Mediterraneo; a dai porti di Creta e dai Forti della Cilicia, che erano le loro stanze più rimote, gli Emiri, o fedeli o ribelli ai Califfi, insultavano del pari la maestà del trono e della capitale. Le province ancora obbedienti agli imperatori presero nuova forma; alla giurisdizione dei presidenti, dei consolari e dei conti furono sostituiti, sotto i successori d'Eraclio, i temi569 o governi militari quali ce li fa conoscere l'imperator Costantino. L'origine di quei ventinove temi, dodici dei quali in Europa, e diciassette in Asia, è del tutto oscura, ed incerta o capricciosa l'etimologia dei loro nomi; arbitrari ne erano e cangiavano spesso i confini; ma quei nomi, che sembrano più strani alla nostra orecchia, derivavano dal carattere e dalle attribuzioni delle milizie pagate dalle province, ed alla lor custodia assegnate. La vanità dei principi Greci si valse avidamente del simulacro d'alcune conquiste, e della memoria dei dominii perduti. Si creò una nuova Mesopotamia sulla riva occidentale dell'Eufrate; fu trasferito il nome di Sicilia col suo pretore ad un'angusta striscia della Calabria, e un brano del ducato di Benevento fu nomato il tema della Lombardia. Mentre declinava l'impero degli Arabi, poterono i successori di Costantino soddisfare il proprio orgoglio, e in maniera più stabile; le vittorie di Niceforo, di Giovanni Zimiscè e di Basilio II restaurarono la gloria, e i confini allargarono dell'impero Romano. La provincia di Cilicia, la metropoli di Antiochia, le isole di Creta e di Cipro tornarono alla fede di Cristo, e alla signoria dei Cesari: il terzo dell'Italia fu annesso al trono di Costantinopoli; fu distrutto il regno di Bulgaria, e gli ultimi sovrani della dinastia Macedone diedero legge alle contrade che dalle sorgenti del Tigri si estendono ai contorni di Roma. Nuovi nemici e nuove calamità ottenebrarono nell'undecimo secolo questo bell'orizzonte; gli avventurieri Normanni vennero ad invadere il rimanente dell'Italia, e i Turchi svelsero dal trono romano quasi tutte le diramazioni dell'Asia. Dopo queste perdite, regnavano ancora gli imperatori della casa Comnena dalle sponde del Danubio a quelle del Peloponneso, e da Belgrado sino a Nicea, a Trebisonda e alla tortuosa corrente del Meandro. Le vaste province della Tracia, della Macedonia e della Grecia obbedivano al loro impero; ad essi appartenevano Cipro, Rodi, Creta, e cinquanta isole del mar Egeo, o del mar Santo570, e questi avanzi superavano ancora l'estensione del più gran regno d'Europa.
Poteano ancora gli imperatori andar con ragione superbi, poichè fra tutti i monarchi del cristianesimo, non v'era un solo che vantasse una sì gran capitale571, sì grossa rendita, e uno Stato sì florido e popoloso. Le città dell'occidente erano decadute coll'impero, e le rovine di Roma, le mura di melma, le case di legno, e l'angusto recinto di Parigi e di Londra non davano ai Latini veruna idea che potesse predisporli alla vista di Costantinopoli, al suo sito e alla sua vastità, alla magnificenza de' suoi palagi, delle chiese, delle arti o del lusso de' suoi innumerabili abitatori. Poteano i suoi tesori stimolare o allettare l'avidità dei Persiani, dei Bulgari, degli Arabi e dei Russi: ma la sua forza aveva sempre ributtato, e promettea di ributtare ancora i lor temerarii assalti. Erano le province meno felici e più facili da conquistare, e si citavano pochi Cantoni e poche città che non fossero state poste a sacco dai Barbari, tanto più ingordi di bottino quanto più scemi della speranza di fermare il piede in quelle contrade ove faceano scorrerie. Dal regno di Giustiniano in poi, l'impero d'oriente venne ogni dì perdendo del suo primo splendore; la forza struggitrice era più potente di quella che tendeva a perfezionare, e i mali della guerra erano aggravati da quelli più durevoli che dalla tirannide civile e dalla ecclesiastica discendevano. Sovente il prigioniero, scampato dai Barbari, era spogliato e incarcerato dagli agenti del suo sovrano. La superstizione dei Greci ne ammolliva lo spirito coll'uso dell'orazione, e indeboliva il corpo coll'eccesso dei digiuni: la moltitudine dei conventi e delle solennità privava la nazione di gran numero di braccia e di giornate di lavoro. Nondimeno i sudditi dell'impero Bizantino erano tuttavia il popolo più industre e più operoso della terra. Era stata prodiga la natura al lor paese di tutti i beneficii del suolo, del clima e della situazione, e la lor indole paziente e pacifica era più giovevole alla conservazione e al ristauramento delle arti, di quel che potesse esserlo lo spirito guerriero e l'anarchia feudale dell'Europa. Le province che ancora eran parte dell'impero, si popolarono e s'arricchirono sulle disgrazie di quelle che irreparabilmente caddero in balìa del nemico. Per fuggire il giogo dei Califfi, vennero i Cattolici della Siria, dell'Egitto e dell'Affrica a cercare il dominio del loro legittimo principe e la società dei lor fratelli. Fu accompagnato e addolcito il loro esilio dalle ricchezze mobiliari, che sfuggono alle indagini dell'oppressione, e Costantinopoli accolse nel suo grembo il commercio che abbandonò Tiro ed Alessandria. I Capi dell'Armenia e della Scizia, scacciati dal nemico o dalla persecuzion religiosa, vi furono con ospitalità ricevuti; si diede coraggio a quei che li avean seguìti di fabbricare nuove città e di coltivar le terre deserte; e molti angoli dell'Europa e dell'Asia han conservato e il nome e le costumanze, o la memoria almeno, di quelle colonie. Quelle tribù dei Barbari, che coll'armi alla mano avean fermato il piede sul territorio dell'impero, furono anch'esse a poco a poco ridotte sotto le leggi della chiesa e dello Stato. Quando avessi bastanti documenti per descrivere i ventinove temi della monarchia Bisantina, dovrei per avventura ristringermi alla esposizione di una sola di queste province che desse a conoscere le altre. Per buona sorte posso parlare minutamente di una che più merita attenzione, cioè di quella del Peloponneso, nome che sarà gradevole alla curiosità di tutti i dilettanti delle cose antiche.
Sin dall'ottavo secolo, durante il procelloso regno degli Iconoclasti, alcune geldre di Schiavoni, che precorsero lo stendardo reale della Bulgaria, aveano inondato la Grecia ed anche il Peloponneso572. Erano stranieri Cadmo, Danao, e Pelope che aveano seminato di già su quel fertile suolo i germi della civiltà e del sapere; ma dai selvaggi del Nord furono totalmente sbarbate le reliquie di quelle già isterilite radici. Questa irruzione cangiò la faccia del paese e gli abitatori; perdette il sangue greco gran parte della sua purezza, e i nobili più superbi del Peloponneso ricevettero i nomi ingiuriosi di forestieri e di schiavi. Sotto i regni successivi si potè in parte sgombrar quella terra dai Barbari che la bruttavano; i pochi che vi si lasciarono furono legati da un giuramento di ubbidienza, di tributo e di servigio militare, che poi rinnovarono, e violarono soventi volte. Per una singolar congiuntura, si unirono gli Schiavoni del Peloponneso e i Saracini dell'Affrica ad assediare Patrasso. Erano già agli estremi i cittadini di quella città, e per ravvivarne il coraggio si immaginò di dar loro a credere che veniva in soccorso il pretor di Corinto; fecero essi una sortita così vigorosa che gli stranieri si rimbarcarono, i ribelli si sottomisero, e fu attribuita la vittoria ad un fantasma, o ad un guerriero incognito, che combatteva, si disse, nella prima schiera sotto la figura dell'appostolo S. Andrea. Allora si ornò dei trofei di vittoria la cassa che conteneva le sue reliquie, e la stirpe prigioniera fu per sempre addetta al servigio, e soggetta al potere della chiesa metropolitana di Patrasso. Dalla rivolta delle due tribù schiavone, stanziate nei contorni di Helos e di Lacedemone, fu spesso turbata la pace della penisola. Qualche volta insultarono la debolezza del ministero di Bisanzio, e qualche volta fecero resistenza alla sua oppressione. Finalmente, alla nuova che veniva in soccorso un drappello dei lor concittadini, carpirono una specie di carta che regolava i diritti e i doveri degli Ezzeriti e dei Milengi, determinando l'annuo tributo a mille ducento pezze d'oro. Nel descriver le province dell'impero, il principe ebbe cura di non confondere cogli Schiavoni una razza domestica, forse indigena, e che poteva trarre la sua origine dai miseri Iloti. I Romani, e specialmente Augusto, aveano liberato dal dominio di Sparta le città marittime, e questo privilegio valse agli abitanti il titolo di Eleuteri o di Laconii liberi573. Al tempo di Costantino Porfirogeneta, avean già quello di Manioti col quale disonorarono l'amor di libertà coll'inumana usanza di prendere, e saccheggiare i vascelli che s'arrenavano nei loro scogli. Il loro territorio che non produceva biada, ma dava un gran ricolto d'olive, si estendeva sino al capo Maleo; il lor Capo, o principe, era nominato dal pretor di Bisanzio, e un piccol tributo di ottocento pezze d'oro era un'arra delle loro immunità, piuttosto che di dependenza. Seppero gli uomini liberi della Laconia manifestare l'energia romana, e lungo tempo aderirono alla religione dei Greci antichi. Abbracciarono poi il cristianesimo per cura dell'imperator Basilio; ma Venere e Nettuno avean ricevuto gli omaggi di questi grossolani adoratori, anche cinque secoli dopo che furono proscritte nell'impero Romano le divinità del paganesimo. Il tema del Peloponneso comprendeva tuttavia quaranta città574; e nel decimo secolo, Sparta, Argo e Corinto poteano essere egualmente lontane dall'antico splendore come dalla odierna povertà. Quelli che possedevano le terre o i beneficii della provincia furono obbligati al servigio militare, sia in persona, sia con sostituti: si esigevano cinque pezze d'oro da ognuno dei ricchi possessori, e i cittadini meno agiati si univano in certo numero a pagare questo testatico. Quando fu pubblicata la guerra d'Italia, gli abitanti del Peloponneso, per dispensarsi dal servigio, offersero cento libbre d'oro (quattromila lire sterline) e mille Cavalieri con armi e bagagli. Le chiese e i monasteri fornirono la loro quota, e si colse un sussidio sacrilego dalla vendita delle dignità ecclesiastiche, e fu obbligato l'indigente vescovo di Leucadia575 a dichiararsi debitore ogni anno d'una pensione di cento pezze d'oro576.
Ma la ricchezza della provincia, la fonte più certa delle rendite pubbliche, derivava dalle preziose e abbondanti produzioni del traffico, e delle manifatture. Si scorgono alcuni sintomi d'una sana politica in una legge che libera da ogni imposizione personale i marinai del Peloponneso, e gli operai che lavoravano la pergamena e la porpora. Pare che sotto questo titolo si comprendessero gli opificii di tela, di lana, e precipuamente di seta: fiorivano nella Grecia i primi fin dal tempo d'Omero, e gli ultimi forse erano attivi sin dal regno di Giustiniano. Queste arti esercitate in Corinto, in Tebe e in Argo occupavano e mantenevano gran numero di persone: v'erano impiegati, secondo l'età e la forza rispettiva, uomini, donne, fanciulli, e se molti degli operai erano schiavi, erano poi di condizion libera e onorata i loro padroni, che dirigevano i lavori e ne raccoglieano il guadagno. I donativi che offerse all'imperator Basilio suo figlio adottivo, che egli avea ricevuti da una ricca matrona del Peloponneso, erano stati senza dubbio fatti nei telai della Grecia. Quella donna, che si nomava Danieli, gli mandò un tappeto di bellissima lana che rappresentava gli occhi d'una coda di pavone, e che era tanto grande da coprire il pavimento d'una chiesa nuova eretta in onore di Gesù Cristo, dell'arcangelo S. Michele, e del profeta Elia; di più gli diede seicento pezze di seta e di tela di varie qualità, e acconce a diversi usi. Le stoffe di seta tinte dei colori di Tiro erano ricamate coll'ago, e tanta era la finezza delle tele che una pezza intiera poteva stare nella cavità di una canna577. Uno storico di Sicilia, che descrive queste opere dell'industria greca, ne fissa il prezzo secondo la quantità e la qualità della seta, la finezza del tessuto, la vaghezza de' colori, il disegno dei ricami. Ordinariamente nel tessuto delle stoffe si impiegava uno, due o tre fili; ma se ne facevano di sei, che erano molto più forti e più cari. Fra i colori si vanta col trasporto d'un retore lo scarlatto fiammante, e il brillante più mite del color verde. Si ricamavano in oro e in seta; le righe o i circoli formavano gli ornamenti semplici; le più belle presentavano fiori esattamente imitati, e quelle che si facevano ad uso del palagio o degli altari, spesso risplendeano di pietre preziose, ed aveano figure contornate di file di perle orientali578. Sino al duodecimo secolo era la Grecia l'unico paese cristiano, il quale possedesse quell'insetto prezioso, a cui siam debitori della materia di quella elegante superfluità, ed abili operai nell'arte del fabbricarle. Ma gli Arabi erano stati destri a rubarne il segreto: i Califfi dell'oriente e dell'occidente avrebbero creduto avvilirsi recando da un paese infedele i mobili e le stoffe loro, e due città di Spagna, Almeria e Lisbona, divennero celebri per le manifatture di drappi di seta, per l'uso che ne facevano, e forse pel traffico in estere parti. I Normanni introdussero questi opificii nella Sicilia, e portandovi così un'arte profittevole, Ruggero distinse la sua vittoria dalle ostilità uniformi ed infruttuose di tutti i secoli. Dopo il sacco di Corinto, d'Atene e di Tebe il suo Luogo-tenente imbarcò nelle proprie navi una folla prigioniera di tessitori e d'operai dei due sessi, trofeo glorioso pel suo padrone, quanto vergognoso pel Greco imperatore579. Il re di Sicilia, apprezzò sommamente il valore del donativo, e quando si trattò di restituire i prigionieri, non eccettuò che quegli operai maschi e femmine di Tebe e di Corinto, i quali lavoravano sotto un barbaro signore, dice lo storico Bizantino, siccome un tempo gli Eretrii servi di Dario580. Si fabbricò nel palagio di Palermo un magnifico edifizio per questa industriosa colonia581, e l'arte fu propagata dai figli degli operai e dagli alunni che essi istruirono in modo da satisfare alle sempre crescenti inchieste delle nazioni dell'occidente. Si può attribuire la decadenza dei telai alle turbolenze dell'isola, e alla concorrenza delle città italiane. Nell'anno 1314, la repubblica di Lucca era fra le italiche la sola che facesse commercio di drappi di seta582. Una rivoluzione interna ne disperse gli operai a Firenze, a Bologna, a Venezia, a Milano ed anche nei paesi Transalpini; e tredici anni dopo questo avvenimento, è ordinato negli statuti di Modena di piantar gelsi, ed è regolata l'imposizione sulla seta cruda583. I climi settentrionali non son tanto acconci a educare i bachi da seta; ma quelli della Cina e dell'Italia mantengono i telai della Francia e dell'Inghilterra584.
Ardua privatos nescit fortuna Penates;
Et regnum cum luce dedit. Cognata potestas
Excepit Tyrio venerabile pignus in ostro.
E il Ducange, nel suo Glossario greco e latino, riferisce molti passi che esprimono lo stesso pensiero.
Καππαδοκην ποτ’ εχιδνα δακεν, αλλα και αυτη
Κατθανε, γευσαμενη αιματος ιοβολου.
Una vipera infesta morse un Cappadoce, ma morì anch'essa succhiandone il sangue velenoso.
Il frizzo è precisamente eguale a quello d'un epigramma francese. «Un serpente morse Giovanni Freron. – E che? Il serpente ne morì». Ma poichè i belli ingegni di Parigi sono in generale poco versati nell'antologia, avrei vaghezza di sapere d'onde abbiano cavato questo epigramma (Costantino Porfirogeneta, De themat., c. 2; Brunk, Analect. graec., t. II, p. 56; Brodaei Anthologia, l. II, p. 244).