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Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12», sayfa 12

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A. D. 1352

Non andò guari che l'Imperatore venne sollecitato a rompere l'accordo e a collegar le sue armi con quelle de' Veneziani, perpetui nemici de' Genovesi e delle loro colonie. Mentre egli stava così titubando tra la pace e la guerra, gli abitanti di Pera, ne riacceser lo sdegno col lanciare da lor baloardi un masso, che nel mezzo di Costantinopoli venne a cadere. Mossene doglianze dall'Imperatore, si scusarono senza scompigliarsi col rinversarne la colpa sopra un dei loro ingegneri. Ma alla domane ricominciarono questa prova, manifestandosi ben contenti di avere imparato che Costantinopoli non era fuor di gittata per la loro artiglieria. Allora Cantacuzeno sottoscrisse il Trattato propostogli dai Veneziani; ma la potenza dell'Impero romano poco aggiunse, o levò nella querela di queste due ricche e potenti repubbliche315. Dallo stretto di Gibilterra sino alle foci del Tanai, le loro flotte si combattettero per più riprese senza conseguenze decisive per nessuna delle due parti, finchè venisse il momento della memoranda battaglia datasi nell'angusto braccio di mare che bagna le mura di Costantinopoli. Non sarebbe sì agevol cosa il conciliare insieme i racconti de' Greci, de' Veneziani e de' Genovesi.316 Tenendomi sulle tracce d'uno Storico imparziale317, desumerò da ciascuna di queste nazioni i fatti che i loro scrittori narrano, o a svantaggio della lor parte, o ad onore della parte avversaria. I Veneziani, fiancheggiati dai Catalani loro collegati, aveano il vantaggio del numero, perchè la loro flotta, compresovi il debole soccorso di otto galee di Bisanzo, andava composta di settantacinque vele, mentre i Genovesi non ne contavano più di sessantaquattro. Ma i vascelli da guerra di questi oltrapassavano, in quel secolo, di forza e grandezza le navi di tutte le altre Potenze marittime. Comandava la flotta de' primi il Pisani, quella de' secondi il Doria, uomini, le famiglie e i nomi de' quali tengono onorevole sede ne' fasti della lor patria; ma l'ingegno e la fama del Doria oscuravano i meriti del suo rivale. Incominciò la pugna nel momento di una tempesta, e durò tumultuosamente dall'aurora sino alla notte. I nemici de' Genovesi dan lode al valore di questi; ma la condotta de' Veneziani nè manco ottenne l'approvazione de' loro amici; entrambe le parti furono unanimi negli encomj tributati alla maestria e al valore de' Catalani, che coperti di ferite sostennero il maggior impeto della zuffa. Al separarsi delle due flotte potea dubitarsi, qual fosse la vincitrice. Benchè se i Genovesi perdettero tredici galee, prese o mandate a fondo, per parte loro ne distrussero ventisei, due de' Greci, dieci de' Catalani, e quattordici de' Veneziani. Il mal umore dei vincitori, diè a divedere uomini avvezzi a contare sopra vittorie più luminose: ma il Pisani venne a confessare la propria sconfitta col riparare ad un porto affortificato, d'onde, col pretesto di obbedire agli ordini della sua repubblica, veleggiò cogli avanzi di una flotta fuggitiva e posta in disordine, all'isola di Candia, lasciando il mare libero ai suoi nemici. Il Petrarca318 in una lettera pubblicamente indiritta al Doge e al Senato, adopera la sua eloquenza a riconciliare le due Potenze marittime, da lui chiamate fiaccole dell'Italia. Celebra il valore e la vittoria de' Genovesi, ch'ei riguarda siccome i più abili marinai dell'Universo, deplorando la sventura de' Veneziani lor confratelli, li stimola ad inseguire col ferro e col fuoco i vili e perfidi Greci, e far monda la capitale dell'Oriente dall'eresia di cui la aveano infestata. Lasciati in abbandono dai loro confederati, aveano anche perduta ogni speranza di poter resistere i Greci, onde tre mesi dopo questa battaglia navale, l'Imperatore Cantacuzeno sollecitò, e pervenne a sottoscrivere un Trattato coi Genovesi, i cui patti erano un perpetuo bando de' Catalani e de' Veneziani, e il concedimento ai primi di tutti i diritti del commercio e poco meno che della sovranità. L'Impero romano (chi può non sorridere nel chiamarlo ancora con questo nome?) sarebbe divenuto ben presto una pertenenza di Genova, se alla ambizione di questa repubblica non avessero tarpate l'ali la perdita della libertà e la distruzione della sua flotta. Una lunga contesa di cento trent'anni, fu conchiusa dal trionfo della Repubblica di Venezia: e le fazioni intestine che dilaceravano i Genovesi, li costrinsero a cercar la pace domestica sotto il dominio di un padrone straniero, fosse il Duca di Milano, o il Re di Francia. Nondimeno, sbandita l'idea delle conquiste, i Genovesi serbarono l'antico genio al commercio: la colonia di Pera continuò a signoreggiare la Capitale e la navigazione del mar Nero, fino all'istante che la conquista de' Turchi nel disastro di Bisanzo l'avvolse.

CAPITOLO LXIV

Conquiste di Gengis-kan e de' Mongulli dalla Cina sino alla Polonia. Pericolo in cui si trovano i Greci a Costantinopoli. Origine de' Turchi Ottomani in Bitinia. Regni e vittorie, di Otmano, Orcano, Amurat I, e Baiazetto I. Fondazione e progressi della monarchia de' Turchi, in Asia e in Europa. Situazione critica di Costantinopoli e del greco Impero.

Dai minuti litigi di una Capitale co' suoi sobborghi, dalle fazioni e dalla viltà de' tralignati Greci, passo a narrare le vittorie luminose de' Turchi, di quel popolo, la cui schiavitù civile nobilitavano disciplina militare, religioso entusiasmo e forza d'indole nazionale. L'origine e i progressi degli Ottomani, oggidì padroni di Costantinopoli, sono un argomento collegato colle più rilevanti scene della storia moderna; ma a ben comprenderlo fa mestieri innanzi tutto il conoscere la grande invasione e le rapide conquiste de' Mongulli e de' Tartari; genere di avvenimenti che può stare a petto di quelle prime convulsioni della natura che scossero e cambiarono la superficie del Globo; e poichè mi son fatto lecito di dar luogo in questa mia opera a tutte quelle particolarità, che, comunque ad altre nazioni spettassero, o più o meno immediatamente contribuirono alla caduta dell'Impero romano, io non poteva risolvermi a passar sotto silenzio que' fatti che per la non volgare loro grandezza, chiamano l'attenzione del filosofo anche sulla storia delle distruzioni e delle stragi319.

A. D. 1206-1227

Tutte queste migrazioni, uscivano a mano a mano dalle vaste montagne situate fra la Cina, la Siberia e il mar Caspio. Que' paesi ove anticamente dimorarono gli Unni ed i Turchi, erano abitati nel duodecimo secolo da quelle orde o tribù di pastori, che discendendo dalla medesima origine, serbavano gli stessi costumi de' loro proavi; e le riunì e le condusse a vittoria il formidabile Gengis-kan. Questo Barbaro, conosciuto da prima col nome di Temugino, innalzatosi sulla rovina de' suoi eguali all'apice della grandezza, derivava da nobil prosapia: ma sol nell'ebbrezza de' trionfi, o egli, o i suoi popoli immaginarono di attribuire l'origine della sua famiglia ad una vergine immacolata, della quale ei sarebbe stato, di padre in figlio, il settimo discendente. Il padre di questo conquistatore avea regnato sopra tredici orde che formavano in circa trenta, o quarantamila famiglie: due terzi e più delle quali, ricusarono prestare obbedienza e tributo a Temugino, ancora fanciullo. Compiva questi il tredicesimo anno, quando si vide costretto a battaglia co' suoi sudditi ribelli, ed essendone stati infelici gli eventi, il futuro conquistatore dell'Asia dovette cedere alla necessità e darsi alla fuga. Ma mostratosi indi maggiore della fortuna, Temugino, giunto all'età di quarant'anni, facea rispettare il suo nome e la sua possanza a tutte le confinanti tribù. Nello stato nascente delle società, ove grossolana è la politica, generale il valore, uom non può fondare la sua prevalenza che sul potere e sulla volontà di gastigare i nemici, di premiare i partigiani. Allorchè Temugino la sua prima lega militare conchiuse, le cerimonie di questa si ridussero al sagrificio di un cavallo, e all'atto di attingere in comunione all'acqua di un ruscello. In quel momento il Capo promise ai compagni di star con essi a parte delle sciagure, come de' favori della fortuna, lor distribuendo in prova di ciò le sue suppellettili e i suoi cavalli, nè altra ricchezza serbandosi che la gratitudine e le speranze de' collegati. Dopo la prima vittoria ch'ei riportò, vennero per ordine del medesimo collocate sopra una fornace settanta caldaie, ed immersi nell'acqua bollente settanta ribelli riconosciuti per maggiormente colpevoli. Continuando di sì fatto tenore, la sua preponderanza aumentò sterminando chi resisteva, ricevendo gli omaggi di chi avea la prudenza di sottomettersi. Anco i più ardimentosi tremarono contemplando incastrato in argento il cranio del Kan de' Keraiti320, che sotto nome di Pretejanni, avea mantenuta una corrispondenza col Pontefice e co' Principi dell'Europa. Però l'ambizioso Temugino il potere della superstizione non pose in non cale; laonde da un profeta di quelle selvagge orde, che sopra un cavallo bianco saliva in cielo, ricevè il titolo di Gengis321 (il più grande), e il diritto venutogli da Dio di conquistare e governar l'Universo. In una curultai, o Dieta generale, si assise sopra uno strato di feltro che venne per lungo tempo venerato siccome reliquia; e da quel posto, solennemente acclamato gran Kan o Imperatore de' Mongulli322 e de' Tartari323. Di questi nomi divenuti rivali, benchè da una stessa origine derivanti, il primo si è perpetuato nell'imperiale dinastia, il secondo, o per errore, o a caso, è divenuto comune a tutti gli abitanti dei deserti del Settentrione. Il codice di leggi dettato da Gengis ai suoi sudditi, proteggea la pace domestica, e incoraggiava la guerra cogli stranieri. L'adulterio, l'assassinio, lo spergiuro, il furto di un cavallo, o di un bue, venivano puniti di morte, onde, comunque ferocissimi quegli uomini, fra di loro si comportavano con moderazione ed equità. L'elezione del Gran Kan fu serbata per l'avvenire ai Principi di sua famiglia, e ai Capi delle tribù. In questo codice si trovavano regolamenti per la caccia, fonti di diletti e di esistenza ad un campo di Tartari. Una nazione vincitrice avrebbe avuto per obbrobrio il sommettersi a servili lavori, de' quali incaricati erano gli schiavi e gli stranieri; ed ogni lavoro, eccetto la professione dell'armi, a quelle genti pareva servile. Quanto alla disciplina e agli studj militari, vedeasi che l'esperienza di un provetto comandante ne avea instituite le regole. Armati d'archi, di scimitarre, e di mazze di ferro quelle milizie, venivano divise in corpi di cento, di mille, di diecimila. Ciascun ufiziale o soldato facea garante la propria vita della sicurezza, o dell'onore de' suoi compagni, e sembra suggerita dal genio della vittoria la legge che proibisce il far pace col nemico, o non vinto, o non ridotto all'atto di supplichevole. Ma soprattutto è meritevole de' nostri elogi e della nostra ammirazione la religione di Gengis. Intanto che gli inquisitori della Fede cristiana sostenevano colla ferocia l'assurdità, un Barbaro, prevenendo le lezioni della filosofia, poneva colle sue leggi le basi di un puro deismo e di una perfetta tolleranza324. Per Gengis ora primo e solo articolo di fede l'esistenza di un Dio, autor d'ogni bene, la cui presenza tiene tutto lo spazio della terra e de' cieli che la sua possanza ha creati. I Tartari e i Mongulli adoravano gl'idoli particolari di lor tribù; e missionarj stranieri aveano convertito un grande numero di questi alla legge di Cristo, o di Mosè, o di Maometto. Ma concedendosi a ciascuno di darsi liberamente e senza disputare, alle pratiche della propria religione entro il ricinto del medesimo campo, il Bonzo, l'Imano, il Rabbino, il Prete o nestoriano, o cattolico, godeano del pari l'onorevole immunità dal prestar servigio militare e dal pagare tributo. Laonde, se nella moschea di Boccara, l'impetuoso conquistatore, permise che i suoi cavalli calpestassero il Corano in tempo di pace, il saggio legislatore rispettò i Profeti e i Pontefici di tutte le Sette. La ragione di Gengis nulla doveva ai libri, perchè questo Kan non sapea nè leggere, nè scrivere; ed eccetto la tribù degl'Iguri, pressochè tutti i Mongulli o Tartari, pareggiavano in ignoranza il loro Sovrano; talchè la ricordanza delle loro geste si è conservata sol per via di tradizioni state raccolte e scritte sessant'otto anni dopo la morte di Gengis325. Alla insufficienza di questi annali possono supplire quelli de' Cinesi326, de' Persiani327, degli Armeni328, dei Siriaci329, degli Arabi330, de' Greci331, de' Russi332, de' Polacchi333, degli Ungaresi334, e dei Latini335; ognuna delle quali nazioni è degna di fede allorchè racconta o sofferti svantaggi, o sconfitte336.

A. D. 1210-1214

Le armi di Gengis e de' suoi capitani sottomisero a mano a mano tutte le orde del deserto, che stavano accampate tra il muraglione della Cina ed il Volga. L'Imperatore Mongul, divenuto Monarca del Mondo pastorale, comandava a più milioni di guerrieri pastori, superbi della loro lega, e impazienti di sperimentare le loro forze contro i ricchi e pacifici abitatori del Mezzogiorno. Già stati tributarj degli Imperatori cinesi, gli antenati di Temugino, egli stesso umiliato erasi a ricevere da essi un titolo d'onore e di servitù. Qual si fu la sorpresa della Corte di Pechino in veggendo venire a sè un'ambasceria dell'antico vassallo, che in tuono di Re pretendea imporle un tributo di sussidj e di obbedienza da lui prestato poc'anzi, e ostentare disprezzo verso il Monarca figlio del Cielo? I Cinesi sotto il velo di una orgogliosa risposta palliarono i proprj timori; timori avverati ben tosto dall'impeto di un grande esercito che ruppe per ogni banda la fragile sbarra del lor muraglione, Novanta delle loro città o per fame, o vinte in assalto si arrendettero ai Mongulli. Le dieci ultime di queste persistendo a difendersi con buon successo, Gengis che conoscea la pietà filiale de' Cinesi, mise al suo antiguardo i lor Maggiori presi in battaglia; indegno abuso della virtù de' nemici, che a poco a poco non rispose più al fine cui era inteso. Centomila Kitani posti alla custodia de' confini ribellarono unendosi ai Tartari. Nondimeno, il vincitore acconsentì di venire a patti, e furono prezzo della sua ritirata una Principessa cinese, tremila cavalli, cinquecento giovinetti, altrettante vergini, e un tributo d'oro e di drappi di seta. In una seconda spedizione, Gengis costrinse l'Imperatore della Cina a trasportarsi oltre al fiume Giallo in una delle sue residenze imperiali che più avvicinavansi ad ostro; ma lungo e difficile fu l'assedio di Pechino337, perchè gli abitanti, benchè costretti dalla fame, consentirono piuttosto a decimarsi fra loro per divenirsi scambievol pastura, e giunti a non avere più sassi, lanciavano verghe d'oro e d'argento sull'inimico. Ma i Mongulli fecero saltare in mezzo della città una mina che pose in fiamme l'Imperiale palagio, incendio che per trenta giorni durò. Oltre alla distruzione che i Tartari portarono in quello sfortunato paese, le interne fazioni lo dilaceravano; laonde con minore difficoltà Gengis aggiunse al suo dominio cinque province settentrionali di quel reame.

A. D. 1218-1224

Verso ponente, i possedimenti di Gengis pervenivano ai confini degli Stati di Carizme, che si estendevano dal golfo Persico fino ai limiti dell'India e del Turkestan, e governavali il Sultano Mohammed, il quale ambizioso d'imitare Alessandro il Grande, avea dimenticato che i suoi Maggiori fossero stati sudditi, e dovessero gratitudine ai Selgiucidi. Gengis deliberato di mantenersi in lega di commercio e d'amistà col più poderoso fra i Principi musulmani, non diè ascolto alle segrete sollecitazioni del Califfo di Bagdad; che voleva sagrificare alla sua vendetta personale la religione e lo Stato; ma un atto di violenza e d'inumanità commesso da Mohammed, trasse con giustizia l'armi de' Tartari nell'Asia Meridionale. Costui fece arrestare e trucidare ad Otrar una carovana composta di tre ambasciatori e di cencinquanta mercatanti. Ciò nullameno, sol dopo avere chiesta soddisfazione e vedersela ricusata, sol dopo orato, e digiunato tre giorni sopra d'una montagna, l'Imperator de' Mongulli si appellò al giudizio di Dio e della sua spada. «Le nostre battaglie d'Europa, dice uno scrittore filosofo338, non sono che deboli scaramucce, se poniam mente agli eserciti che combattettero e perirono nelle pianure dell'Asia». Settecentomila Mongulli, o Tartari mossi, dicesi, sotto il comando di Gengis e de' quattro suoi figli, incontrarono nelle vaste pianure poste a tramontana del Shion o dell'Jaxarte, il Sultano Mohammed a capo di quattrocentomila guerrieri; e nella prima battaglia, che durò fino a notte, censessantamila Carizmj rimasero morti sul campo. Mohammed, sorpreso dal numero e dal valore de' suoi nemici, fe' sonare a ritratta, distribuendo le sue truppe nelle città di frontiera, perchè persuadeasi che cotesti Barbari, invincibili sul campo di battaglia, non la durerebbero contro la lunghezza e la difficoltà de' tanti assedj regolari che per ridurlo era mestieri intraprendere; ma Gengis avea saggiamente instituito un corpo di meccanici e di ingegneri cinesi, instrutti forse del segreto della polvere, e capaci, sotto un tal condottiero, di assalire estranei paesi con quel vigore che nel difendere la loro patria non dimostrarono, e di ottenere miglior successo. Gli Storici persiani narrano gli assedj e le rese di Otrar, Cogenda, Boccara, Samarcanda, Carizme, Herat, Meroù, Nisabour, Balc, e Candahar, la conquista delle ricche e popolose contrade della Transossiana, di Carizme, e del Korazan. Ma poichè le devastazioni operate da Gengis e dai Mongulli vennero da noi descritte nel volere offrire un'idea de' tremendi effetti che dovettero conseguire dalle invasioni degli Unni e di Attila, mi limiterò in questo luogo ad osservare che dal mar Caspio insino all'Indo, i conquistatori trasformarono in deserto uno spazio di oltre a più centinaia di miglia, cui l'opera umana avea coltivato e adorno di numerose abitazioni; nè il volgere di cinque secoli successivi ha bastato a riparare quel guasto che durò quattro anni. L'Imperatore tartaro incoraggiava, o tollerava il furore dei suoi soldati, che sitibondi di strage e saccheggio, e pensando all'istante, dimenticavano ogni idea di futuro godimento; e fatti più feroci dalla natura di quella guerra che i pretesti di una giusta vendetta sancivano. La caduta e la morte del sultano Mohammed, che abbandonato da tutti e non compianto da alcuno, in una deserta isola del Caspio finì sua vita, sono una debole espiazione a fronte delle calamità di cui fu l'origine. Il figlio di lui, Gelaleddino, più d'una volta arrestò i Tartari in mezzo al corso della vittoria, ma il valore di un solo eroe per salvar l'impero de' Carizmj era poco. Oppresso dal numero nel ritirarsi verso le rive dell'Indo, Gelaleddino, spinse entro l'onde il cavallo, e intrepido attraversando il più rapido ed ampio fiume dell'Asia, costrinse il suo vincitore ad ammirarlo. Dopo una tale vittoria, l'Imperator tartaro, cedendo a stento alle importunità de' suoi soldati fatti ricchi e stanchi di battersi, consentì ricondurli nella nativa contrada. Onusto delle spoglie dell'Asia, tornò lentamente addietro, dando a divedere qualche lampo di compassione sulla sventura de' vinti, e mostrandosi deliberato a rifabbricare le città per la sua invasione distrutte. Raggiunsero il suo esercito i due Generali, che con trentamila uomini di cavalleria avea spediti oltre i fiumi Osso e Jassarte per ridurre le province australi della Persia. Così dopo avere atterrato tutto quanto gli si opponea nel cammino, superate le gole di Derbend, attraversato il Volga e il Deserto, compiuto l'intero giro del mar Caspio, questo esercito tornava trionfante da una spedizione di cui l'antichità non offre esempj, e che niuno più mai a rinnovellare si accinse. Gengis segnalò il suo ritorno debellando quanti ribelli, o popoli independenti erano rimasti fra i Tartari; indi, carico d'anni e di gloria, morì esortando i suoi figli a conquistare per intero la Cina.

A. D. 1227

Lo Harem di Gengis contenea cinquecento donne o concubine, e nella numerosa sua posterità avea scelti quattro de' suoi figli, chiari per merito come lo erano per natali, affinchè sotto i comandi del padre sostenessero i primarj impieghi militari e civili dello Stato. Tusi era il Gran Cacciatore, Zagatai339 il Giudice, Octai il Ministro, Tuli il Generale. I loro nomi e le geste si fanno scorgere di frequente nella storia delle conquiste di Gengis. Costantemente collegati e dal proprio e dal pubblico interesse, tre di questi fratelli si contentarono unanimemente per sè e per le loro famiglie, di un retaggio di regni dipendenti dal Capo supremo dello Stato. Octai venne acclamato Gran-Kan, o Imperatore de' Mongulli, o dei Tartari. Gli succedè Gayuk, per la cui morte lo scettro dell'Impero passò nelle mani de' cugini di lui, Mangoù e Cublay, figli di Tuli e pronipoti di Gengis. Ne' sessant'anni che seguirono la morte di questo conquistatore, i quattro primi Principi che gli succedettero, sottomisero quasi tutta l'Asia e una gran parte dell'Europa. Senza farmi ligio all'ordine de' tempi, o estendermi sulla descrizione degli avvenimenti, offrirò, come in un quadro generale, il progresso delle loro armi, primo ad oriente, secondo ad ostro, terzo a ponente ad e settentrione.

A. D. 1234

I. Prima dell'invasione di Gengis, la Cina dividevasi in due Imperi o dinastie, una del Nort, l'altra del Mezzogiorno340, e la conformità delle leggi, del linguaggio e de' costumi temperava gli inconvenienti che venivano dalla differenza di origine e d'interessi. La conquista dell'impero settentrionale, già smembrato da Gengis, fu, sette anni dopo la morte del medesimo, affatto compiuta. Costretto ad abbandonare Pechino, l'Imperatore avea posta la sua residenza a Laifiong; città il cui recinto formava una circonferenza di molte leghe, e che, volendo credere agli Annali cinesi, contenea un milione e quattrocentomila famiglie, tra antichi abitanti e fuggitivi che vi ripararono. Ma fu mestieri a questo Sovrano il darsi nuovamente alla fuga; onde seguito da sette cavalieri si rifuggì ad una terza capitale, ove in veggendo perduta ogni speranza di salvare la vita, salì sopra un rogo, attestando la propria innocenza, imprecando il destino che lo perseguiva, e dando ordine che appena si fosse trafitto, venisse incenerita la pira. La dinastia dei Song, antichi Sovrani nativi di tutto l'Impero, sopravvisse circa quarantacinque anni alla caduta degli usurpatori del Nort, nè l'assoluta conquista della Cina accadde che sotto il regno di Cublai. In questo intervallo, i Tartari, oltrechè ebbero divagamenti di estranie guerre, non sì facilmente vinsero la resistenza dei Cinesi, i quali, se nella pianura non osavano far fronte ai lor vincitori, trincerati ne' monti, li costrinsero ad una innumerabile sequela d'assalti, e porsero milioni di vittime ai loro ferri. Così per gli assalti, come per le difese adoperavansi a vicenda le macchine da guerra degli antichi, e il fuoco greco; e a quanto sembra non era peregrino a queste genti l'uso della polvere, delle bombe, e de' cannoni341. Regolati venivan gli assedj dai Maomettani e dai Franchi che Cublai colle sue larghezze allettava a prender servigio sotto di lui. Dopo avere valicato il gran fiume, le truppe e l'artiglieria furono per lunghi e diversi canali trasportate fino alla residenza reale di Hamchen, o Quisnay, paese famoso pei suoi lavori di seta, e per essere sotto il clima più delizioso di tutta la Cina. L'Imperatore, principe giovine e pauroso, si arrendè senza oppor resistenza, e prima di trasferirsi al luogo del suo esilio, in fondo della Tartaria, toccò nove volte il suolo col fronte, fosse per implorare la clemenza del Gran Kan, o per rendergli grazie. Ciò nullameno la guerra (A. D. 1279), che d'allora in poi prese il nome di ribellione, durava nelle province meridionali di Quisnay fino a Canton, e coloro che più coraggiosamente si ostinarono nel difendere la libertà della patria, scacciati da ogni punto del territorio, si rifuggirono entro le navi; ma poichè i Song si videro avvolti e ridotti all'ultime estremità da una flotta di gran lunga superiore, il più prode di quei campioni, tenendosi fra le braccia l'Imperatore ancora fanciullo, esclamò: «è maggior gloria per un Monarca il morir libero, che il vivere schiavo,» e così gridando, si precipitò col regale infante nel mare. Imitato un simile esempio da centomila Cinesi, tutto l'Impero da Tunkin sino al gran muro, riconobbe Cublai per Sovrano. Non mai sazia l'ambizione di questo Principe, egli meditò allora la conquista del Giappone; ma distrutta per due volte la sua flotta dalla tempesta, tale spedizione malaugurosa costò inutilmente la vita a centomila Mongulli o Cinesi: nondimeno colla forza e col terrore delle sue armi ridusse a varj gradi di soggezione e tributo i vicini reami della Corea, del Tonkin, della Cocincina, di Pegù, del Bengala, e del Tibet. Trascorrendo poscia con una flotta di mille vele l'Oceano indiano, una navigazione di sessant'otto giorni il condusse, siccome sembra, all'isola di Borneo, situata sotto a Linea equinoziale; d'onde, benchè non tornasse privo di gloria e di prede, non potè consolarsi di aver lasciato fuggire il selvaggio Sovrano di quella contrada.

A. D. 1258

II. Più tardi, e condotti dai Principi della Casa di Timur, i Tartari conquistarono l'Indostan; ma Holagoù-Kan, pronipote di Gengis, fratello e luogotenente de' due Imperatori Mangoù e Cublai, terminò la conquista dell'Iran o della Persia. Senza imprendere una enumerazione monotona de' tanti Sultani, Emiri, o Atabecchi che questo Principe soggiogò, farò unicamente cenno della sconfitta e della distruzione degli Assassini, o Ismaeliti342 della Persia, perchè tale impresa può riguardarsi, come un servigio prestato all'umanità. Il regno di questi odiosi settarj da oltre cento sessant'anni impunemente durava nelle montagne poste ad ostro del mar Caspio, e il loro Principe, o imano inviava un governatore alla colonia del monte Libano, tanto formidabile e famosa nella Storia delle Crociate343. Al fanatismo del Corano gl'Ismaeliti aggiugnevano le opinioni indiane sulla trasmigrazione dell'anime e le visioni de' loro profeti. Primo dovere per essi era il consagrare ciecamente l'anima e il corpo agli ordini dei Vicario di Dio. I pugnali de' missionarj di questa setta si fecero sentire nell'Oriente e nell'Occidente; onde i Cristiani e i Musulmani contano un grande numero d'illustri vittime immolate allo zelo, alla avarizia, o all'astio del Vecchio della Montagna, che così in linguaggio corrotto venne nomato. La spada di Holagoù infranse i costui pugnali, sole armi nelle quali valesse, nè di questi nemici dell'uman genere rimane oggidì altro vestigio che la denominazione Assassino, volta a significato parimente odiosissimo dalle lingue europee. Il leggitore che ha considerati successivamente l'ingrandirsi e il declinare della Casa degli Abbassidi, non la vedrà con occhio d'indifferenza perire. Dopo la caduta dei discendenti dell'usurpatore Selgiuk, i Califfi aveano ricuperati i loro Stati ereditarj di Bagdad e dell'Yrak dell'Arabia, ma data in preda a fazioni teologiche la città, il Comandante de' Credenti vivea oscuramente entro il suo Harem, composto di settecento concubine. Questi all'avvicinar de' Mongulli, oppose loro deboli eserciti e ambasciatori superbi. «Per volere di Dio, dicea il Califfo Mostasem, i figli di Abbas comandano sulla terra. Ei li sostiene sul trono, e i loro nemici in questo Mondo e nell'altro verran castigati. E chi è dunque cotesto Holagoù che ardisce sollevarsi contro di noi? Se egli vuole la pace, sgombri immantinente il territorio sacro de' prediletti del Signore, e otterrà forse dalla nostra clemenza il perdono delle sue colpe». Un perfido Visir mantenea in così cieca presunzione il Califfo assicurandolo, che, quand'anche i Barbari fossero penetrati nella città, le donne e i fanciulli avrebbero bastato per opprimerli dall'alto dei terrazzi di Bagdad. Ma appena Holagoù ebbe avvicinata la mano al fantasma, questo in fumo si dissipò; dopo due mesi d'assedio, presa d'assalto, e saccheggiata dai Mongulli la città di Bagdad, il feroce lor comandante pronunziò la sentenza del Califfo Mostasem, ultimo successore temporale di Maometto, e la cui famiglia discesa da Abbas, avea tenuti per più di cinque secoli i troni dell'Asia. Comunque vaste fossero le mire del conquistatore, il deserto dell'Arabia protesse contro la sua ambizione le città sante della Mecca e di Medina344. Ma i Mongulli spargendosi al di là del Tigri e dell'Eufrate, saccheggiarono Aleppo e Damasco, e minacciarono unirsi ai Franchi per liberare Gerusalemme. L'ultima ora dell'Egitto sarebbe sonata, se questa contrada non avesse avuti migliori difensori degl'inviliti suoi figli; ma i Mammalucchi che respirata aveano, durante la giovinezza, l'aria vivifica della Scizia, pareggiavano i Mongulli in valore, in disciplina li superavano; assalito per più riprese in regolare battaglia il nemico (A. D. 1242-1272), volsero il corso di questo impetuoso torrente al levante dell'Eufrate e sui regni dall'Armenia e della Natolia, che all'impeto di questa invasione non avean riparo da opporre. Il primo dei due regni ai Cristiani, ai Turchi perteneva il secondo. Ben qualche tempo resistettero i Sultani d'Iconium; ma finalmente un d'essi, Azzadino, si vide costretto a cercar ricovero fra i Greci di Bisanzo, e i suoi deboli successori, ultimi Selgiucidi, dai Kan di Persia furono sterminati.

A. D. 1235-1245

III. Soggiogato appena l'Impero settentrionale della Cina, Octai risolvè portar le sue armi fin nelle contrade più remote dell'Occidente. Un milione e mezzo di Mongulli, o di Tartari avendo portati i lor nomi per essere ascritti ne' registri militari, il Gran Kan, scelse una terza parte di questa moltitudine, e ne affidò il comando al nipote Batù, figlio di Tuli, che regnava sulle paterne conquiste al nort del mar Caspio. Dopo le feste di allegrezza che durarono quaranta giorni, partì per questa clamorosa spedizione, e tal si furono l'ardore e la sollecitudine delle sue innumerabili soldatesche, che in men di sei anni, novanta Gradi di longitudine, ossia un quarto della circonferenza terrestre, per esse vennero trascorse. Attraversarono i grandi fiumi dell'Asia e dell'Europa, il Volga e il Kama, il Don e il Boristene, la Vistola e il Danubio, ora a nuoto da starsi a cavallo, or sul diaccio, durante il verno, ora entro battelli di cuoio, che seguivano sempre l'esercito, servendo al trasporto dell'artiglieria e delle bagaglie. Le prime vittorie di Batù annichilarono ogni avanzo di libertà patria, nelle immense pianure del Kipsak345 e del Turkestan. In questa rapida corsa, passò per mezzo ai regni conosciuti oggidì sotto i nomi di Kasan, e di Astrakan, intanto che le truppe da lui mosse verso il monte Caucaso penetrarono nel cuore della Circassia e della Georgia. La discordia civile de' gran Duchi o Principi della Russia, abbandonò il loro paese in preda ai Tartari che coprirono il territorio russo dalla Livonia infino al mar Nero. Chiovia e Mosca, le due capitali antica e moderna, furono incenerite; calamità passeggera, e probabilmente men funesta ai Russi della profonda e forse indelebile traccia che una schiavitù di due secoli sul loro carattere ha impressa. I Tartari con egual furore devastavano e i paesi che divisavano conservare, e i paesi d'onde erano frettolosi d'uscire. Dalla Russia, ove aveano posta dimora, fecero una scorreria passeggiera, ma non meno struggitrice, sino ai confini dell'Alemagna; e le città di Lublino e di Cracovia disparvero. Avvicinatisi alle coste del Baltico, sconfissero nella battaglia di Lignitz i Duchi di Slesia, i Palatini polacchi e il Gran Mastro dell'Ordine teutonico, empiendo nove sacca delle orecchie destre di coloro che avevano uccisi. Da Lignitz, temine occidentale della loro corsa, si volsero all'Ungheria, in numero di cinquecentomila, incoraggiati dalla presenza del proprio Sovrano e condottiero Batù, e, a quanto diedero a divedere, animati dal suo medesimo spirito. Scompartitisi in varj corpi di truppa, superarono i monti Carpazj, e dubitavasi tuttavia sulla possibilità del loro arrivo, quando sui popoli perplessi i primi atti del lor furore operarono. Il Re Bela IV adunò affrettatamente le forze militari delle sue contee e de' suoi vescovadi, ma egli avea già venduta la sua nazione col dar ricetto ad una banda errante di Comani, composta di quarantamila famiglie. Un sospetto di tradimento e l'uccisione del loro Capo avendo eccitati questi selvaggi ospiti alla sommossa, tutta la parte di Ungheria, posta a settentrione del Danubio, fu perduta in un giorno, spopolata nel volgere di una state, e le rovine de' tempj e delle città vidersi seminate d'ossa di cittadini che espiarono le colpe de' Turchi loro antenati. Le calamità di que' tempi ci vengono descritte da un Ecclesiastico ungarese, che spettatore del saccheggio di Varadino, ebbe la ventura di sottrarsi alla morte, e ne danno a divedere come le stragi operate dal furore de' Barbari in mezzo agli assedj e alle battaglie, fossero anche meno atroci del destino che la perfidia serbò ai fuggitivi. Lusingati prima questi meschini con promesse di perdono e di pace ad uscire delle foreste, i Tartari aspettarono che avessero terminati i lavori della mess e della vendemmia, poi tutti, a sangue freddo, li trucidarono. Nel vegnente verno i Mongulli, valicato sul diaccio il Danubio, s'innoltrarono verso Gran o Strigonium, colonia germanica e Capitale del regno, e contro le mura della medesima addirizzarono trenta macchine, colmando le fosse di sacchi di terra e cadaveri; indi quando fu presa, dopo una strage alla cieca, il truce Kan ordinò alla sua presenza la morte di trecento nobili matrone. Fra le diverse città e Fortezze dell'Ungheria, tre sole ne rimasero dopo l'invasione, e il misero Bela corse a nascondersi nelle Isole dell'Adriatico.

315.Cantacuzeno non mostra maggior chiarezza nel racconto della seconda guerra (l. IV, c. 18, pag. 24, 25-28-32), e traveste i fatti che non osa negare. Mi auguro quella parte di Niceforo Gregoras che rimane tuttavia manoscritta a Parigi.
316.Il Muratori (Annali d'Italia, t. XII, p. 144) ne rimette alle antiche Cronache di Venezia (Caresino, continuatore di Andrea Dandolo, t. XII, p. 421, 422), e di Genova (Giorgio Stella, Annales Genuenses, t. XVII, pag. 1091, 1092). Ho consultate accuratamente l'una e l'altra di queste cronache nella grande Raccolta degli storici dell'Italia dello stesso Muratori.
317.V. la Cronaca di Matteo Villani di Firenze (lib. II, c. 59, 60, p. 145-147; c. 74-75, p. 156, 157, nella Raccolta del Muratori t. XIV).
318.L'abate di Sade (Mémoires sur la vie de Petrarque, t. III, p. 257-263) ha tradotta questa lettera che egli avea copiata in un manoscritto della Biblioteca del Re di Francia. Benchè affezionato al Duca di Milano, il Petrarca non nasconde nè la sua maraviglia, nè la sua afflizione sulla sconfitta successiva de' Genovesi, e sullo stato lagrimevole in cui si trovarono nel seguente anno (p. 223-332).
319.Prego il leggitore a riandare que' capitoli della presente Storia ove sono descritti i costumi delle nazioni pastorali e le conquiste di Attila e degli Unni, e da me composti in un tempo in cui io desiderava, più di quanto sperassi, di condurre a termine questo lavoro.
320.I Kan dei Keraiti molto probabilmente non sarebbero stati capaci di leggere le eloquenti epistole composte a loro nome dai missionarj nestoriani, che presentavano il loro regno di tutte le favolose maraviglie attribuite alle indiane Monarchie. Può darsi che questi Tartari (da essi nominati Pretejanni) si fossero sottomessi al Battesimo e agli Ordini sacri (V. Assem., Bibl. Orient., t. III, part. II, p. 487-503).
321.Dopo che il Voltaire ha pubblicate la sua Storia e la sua Tragedia, il nome di Gengis, almeno in francese, sembra essere stato generalmente ricevuto. Nondimeno Abulgazi-Kan dovea sapere il vero nome del suo antenato, e sembra giusta l'etimologia ch'egli ha offerta; Zim, in lingua dei Mongulli, significa grande, e Gis è la desinenza del superlativo (Hist. généalog. des Tartares, part. III, p. 194, 195). Non abbandonando quindi il significato di grandezza, fu da quei popoli chiamato Zingis l'Oceano.
322.Il nome di Mongul, prevalso fra gli Orientali, è divenuto il titolo del sovrano dell'Indostan, del Gran Mogol.
323.I Tartari, o propriamente i Tatar, discendenti di Tatar-kan, fratello di Mougul-kan (V. Abulgazi, prima e seconda parte) si collegarono in un'orda di settantamila famiglie sulle rive del Kitay (p. 103-112), nella grande invasione d'Europa (A. D. 1238); sembra che marciassero all'antiguardo, e la somiglianza del loro nome colla parola Tartarei, rendè più famigliare ai Latini la denominazione di Tartari (Paris, p. 398).
324.Scorgesi una singolare somiglianza tra il codice religioso di Gengis-kan e quello del Locke. (V. le Costituzioni della Carolina, nelle sue Opere, vol. IV, p. 535, edizione in 4., 1777).
325.Raccolta eseguita nell'anno 1294, per ordine di Chasan, Kan di Persia, e quarto discendente di Gengis. Sul fondamento di queste tradizioni, Fadlallà, Visir del ridetto Kan, compose la Storia dei Mongulli in lingua persiana; della quale si è valso Petis de la Croix, nella sua Storia di Gengis-kan. La Storia genealogica de' Tartari, pubblicata a Leida nel 1726 in due volumi in 12, è una traduzione che gli Svedesi, andati prigionieri in Siberia, fecero sul manoscritto Mongul di Abulgazj-Bahadar-kan, discendente di Gengis, che regnava sugli Usbek di Carasme, o Carizme, tra gli anni 1644-1663; opera assai preziosa per l'esattezza dei nomi delle genealogie e dei descritti costumi della nazione. Essa è divisa in nove parti: la prima delle quali contiene un intervallo che da Adamo giunge sino a Mongul-kan; la seconda da Mongul fino a Gengis; la terza è la vita di Gengis; la quarta, quinta, sesta e settima narra la storia generale de' quattro figli di Gengis e della loro posterità, l'ottava e la nona, la storia particolare de' discendenti di Scibani-kan, che regnò ne' paesi di Morenahar e di Carizme.
326.Storia di Gengis-kan, e di tutta la dinastia de' Mongulli suoi successori, conquistatori della Cina, tolta dalla Storia Cinese, opera del R. P. Gaubil Gesuita missionario a Pechino; Parigi 1739 in 4. Questa traduzione porta l'impronta cinese, cioè la scrupolosa esattezza nel raccontare i fatti domestici, e l'assoluta ignoranza in tutto quanto agli estranei si riferisce.
327.Histoire du grand Gengis-khan premier empereur des Mongouls et des Tartares, par M. Petis de la Croix, à Paris, 1710, in 12. Tale Opera costò all'Autore dieci anni di fatica, ed è tolta in gran parte dagli Scrittori persiani, fra gli altri da Nisavi, segretario del Sultano Gelaleddin che ha i pregi e i pregiudizj di un contemporaneo. O il compilatore, o gli originali hanno dato luogo alla censura di scrivere in istile alquanto romanzesco. V. anche gli articoli di Gengis-kan, Mohammed, Gelaleddin ec., nella Biblioteca orientale del d'Herbelot.
328.Aitono, principe armeno, indi Fra Premonstrato (Fabricius, Bibl. lat. med. aevi, t. I, pag. 34), dettò in francese la storia de' Tartari suoi antichi commilitoni; la quale venne immediatamente tradotta in latino, ed è l'opera De Tartaris, inserita nel Novus Orbis di Simone Grineo (Basilea, 1555 in foglio).
329.Gengis-kan e i primi suoi successori tengono verso il fine la nona dinastia di Abulfaragio (Vers. Pococke, Oxford, 1663, in 4); la decima dinastia è quella dei Mongulli di Persia. L'Assemani, Bibl. orient., t. II, ha tolti alcuni fatti dai suoi scritti siriaci e dalla vita de' Mafriani, giacobiti o primati dell'Oriente.
330.Fra gli Arabi, tali di lingua e di religione, merita di essere distinto Abulfeda, Sultano di Hamà nella Sorìa, che combattè in persona contro i Mongulli, seguendo le bandiere dei Mammalucchi.
331.Niceforo Gregoras (l. II, c. 5, 6) intendendo la necessità di collegare la storia degli Sciti con quella di Bisanzo, ha descritto con eleganza ed esattezza i costumi de' Mongulli dal momento che si stanziarono nella Persia, ma non si mostra istrutto della loro origine, e altera i nomi di Gengis e de' suoi figli.
332.Il Signor Levesque (Hist. de Russie, t. II) ha narrata la conquista della Russia operata dai Tartari, sulle tracce del patriarca Nicone e delle Cronache antiche.
333.Quanto alla Polonia, mi basta la Sarmatia Asiatica et Europaea, di Mattia di Micou, o Michovia, medico e canonico di Cracovia (A. D. 1506), inserita nel Novus Orbis di Grineo (Fabricius, Bibl. lat. mediae et infimae aetatis, t. V, p. 56).
334.Citerei Turoczio, il più antico scrittore di questa Storia generale (parte 2, c. 74, p. 150) nel primo volume dei Scriptor. rerum hungaricarum, se questo stesso volume non contenesse l'originale racconto di un contemporaneo che fu testimonio e vittima dell'invasione de' Tartari (M. Rogerii Hungari, varidiensis capituli canonici, carmen miserabile, seu Historia super destructionem regni Hungariae, temporibus Belae IV regis per Tartaros facta, pag. 292-321); pittura eccellente, fra quante io ne conosca, delle circostanze che alla invasione de' Barbari vanno congiunte.
335.Mattia Paris, fondandosi sopra autentici documenti, ha narrati i terrori e i pericoli dell'Europa. V. il suo voluminoso indice alla parola Tartari. Due frati, Giovanni de Plano Carpini e Guglielmo Rubruquis, e il Nobile veneto Marco Polo, mossi da zelo, ovvero da curiosità, visitarono nel secolo decimoterzo la Corte del Gran Kan. Le relazioni latine de' due primi leggonsi inserite nel primo volume di Hackluyt; l'originale italiano, o la traduzione della terza si trova nel secondo tomo del Ramusio (Fabricius, Bibl. lat. medii aevi, t. II, p. 198, t. V, p. 25).
336.Il Signor De Guignes nella sua grande Storia degli Unni ha ragionato fondatamente sopra Gengis-kan e i suoi successori (V. t. III, l. XV-XIX, e negli articoli de' Selgiucidi di Rum, t. IV, l. XI, de' Carizmj, l. XIV, e de' Mammalucchi, t. IV, l. XXI, e anche le Tavole del primo volume). Comunque l'Autore dia saggio ivi di molta istruzione ed esattezza, non ne ho tolto che alcune osservazioni generali, e alcuni passi di Abulfeda, il testo de' quali non è ancora stato tradotto dall'arabo.
337.O più giustamente Yen-king, antica città, le cui rovine vedonsi tuttavia in qualche distanza a scilocco della moderna città di Pechino, fabbricata da Cublai-kan (Gaubil, pag. 146). Nan-king e Pé-king, sono nomi vaghi indicanti la corte d'ostro e la corte di tramontana. Nella geografia cinese troviamo continui impacci or dalla somiglianza, or dalla alterazione de' nomi.
338.Voltaire, (Essai sur l'Histoire génerale, tom. III, c. 60, p. 8). Nella parte che si riferisce alla Storia di Gengis e dei Mongulli, trovansi, come in tutte le opere di questo scrittore, molte considerazioni giudiziose e verità generali mescolate con alcuni particolari errori.
339.Zagatai diede il proprio nome ai suoi Stati di Maurenahar, o Transossiana, e i Persiani chiamano Zagatai i Tartari che migrarono da quel paese. Tale autentica etimologia e l'esempio degli Usbek, de' Nogai ec., debbono farci istrutti a non negare affermativamente che alcune nazioni abbiano assunti nomi proprj di persone.
340.Marco Polo, e i Geografi orientali distinguono gl'Imperi del Nort e del Mezzogiorno co' nomi di Catai e di Mangi; così la Cina rimase divisa fra il Gran-Kan e i Cinesi dall'A. di G. C. 1234 al 1279. Dopo scoperta la Cina la ricerca del Catai sviò i nostri navigatori del secolo XVI, voltisi a scoprire un passaggio a greco.
341.Mi fido nell'erudizione e nell'esattezza del padre Gaubil, il quale traduce il testo cinese degli Annali mongulli, o di Yuen (p. 71-93-153); ma ignoro in qual tempo questi Annali fossero composti e pubblicati. I due zii di Marco Polo, che militarono come ingegneri all'assedio di Siengiangfu (l. II, c. 61, in Ramusio, t. II; V. Gaubil, p. 155, 157), dovrebbero aver conosciuto e raccontati gli effetti di cotesta polvere struggitrice, e il loro silenzio è una obbiezione che sembra pressochè decisiva. Io sospetto che la recente scoperta della polvere, nata invece in Europa, sia stata trasportata alla Cina dalle carovane del secolo XV, e falsamente adottata dai Cinesi come antica loro scoperta, precedente all'arrivo de' Portuguesi e de' Gesuiti. Pure il padre Gaubil afferma che l'uso della polvere da sedici secoli era noto in quelle contrade.
342.Tutto quanto possiamo sapere intorno agli Assassini della Persia e della Sorìa, lo dobbiamo al sig. Falconet. V. le due Memorie copiosissime di squisita erudizione dal medesimo lotto all'Accademia delle Iscrizioni (t. XVII, p. 127-170).
343.Gl'Ismaeliti della Sorìa o Assassini in numero di quarantamila, aveano acquistate, o fabbricate dieci Fortezze nelle montagne sopra Tortosa, e vennero sterminati dai Mammalucchi verso l'anno 1280.
344.Alcuni storici Cinesi estendono le conquiste fatte da Gengis sino a Medina, patria di Maometto (Gaubil, p. 42); asserzione atta quanto mai a provare l'ignoranza di quei popoli su tutto ciò che alla storia del loro paese non si riferisce.
345.Il Dastè-Kipsak, ossia la pianura di Kipsak, tiene sulle due rive del Volga uno spazio immenso che si estende verso i fiumi Iaik e Boristene, e credesi terra natale de' Cosacchi, che dal paese abbiano preso il lor nome.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
540 s. 1 illüstrasyon
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