Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12», sayfa 8
CAPITOLO LXII
Gl'Imperatori greci di Nicea e di Costantinopoli. Innalzamento e regno di Michele Paleologo. Finta riconciliazione del medesimo col Papa e colla Chiesa latina. Divisamenti ostili del Duca d'Angiò. Ribellioni della Sicilia. Guerra dei Catalani nell'Asia e nella Grecia. Sommossa di Atene, e stato presente di questa città.
Il dispetto di avere perduta Costantinopoli rianimò alcun poco il vigore de' Greci. I Principi e i Nobili, dimenticato il lusso de' lor palagi, corsero all'armi, e i più forti, o i più abili di questi s'impadronirono degli avanzi della monarchia. Sarebbe difficil cosa il trovare ne' lunghi e sterili volumi degli Annali di Bisanzo203 due principi degni di essere paragonati a Teodoro Lascaris, e a Giovanni Duca Vatace204, che collocarono e mantennero sulle mura di Nicea nella Bitinia il romano stendardo. Diversi d'indole, l'uno dall'altro, i due principi, questa medesima diversità alle condizioni in cui posti erano conveniva. Nel tempo de' suoi primi sforzi (A. D. 1204-1222), il fuggitivo Lascaris non possedea che tre città, non comandava che a duemila soldati; ma una generosa disperazione in tutti gli atti del regno suo lo sostenne; in ogni sua fazion militare, pose la sua vita e la sua corona in pericolo. Sorprese per solerzia i suoi nemici dell'Ellesponto e del Meandro; per intrepidezza pervenne a ridurli; regnando e continuando a vincere per diciotto anni diede al principato di Nicea tale estensione che ad un impero addiceasi. Fondato sopra base più salda e sostenuto da più abbondanti forze, questo trono pervenne a Vatace, genero e successore di Teodoro Lascaris. Così l'indole sua propria, come le cambiate circostanze di questo regno, condussero Vatace a calcolare ponderatamente i pericoli, a spiar le occasioni, a preparare il buon successo de' suoi ambiziosi disegni. Nel narrare la caduta dell'Impero latino, ho accennate di volo le vittorie de' Greci, il contegno prudente e i successivi progressi di un conquistatore, che nel durare di trentatre anni di regno, liberò le province dalla tirannide de' nativi e degli stranieri, e strinse per ogni lato una Capitale, divenuta ignudo tronco, smosso dalle radici, e presto a cadere al primo colpo di scure. Ma più degni ancora di encomio e di ammirazione sono l'interna economia, e il pacifico governo del successore di Teodoro205. Egli ne assunse le redini in tempo che le calamità della guerra aveano scemata la popolazione, e toltele pressochè tutte le vie di sussistenza; perchè non vi essendo più nè modi nè allettamenti a coltivare la terra, i fondi più fertili rimanevano abbandonati e sol coperti di ginestre e di rovi. L'imperatore ne fe' dissodare una parte a suo conto, talchè fra le sue mani, e per la sua vigilanza, diedero più copiosi ricolti di quanti sperar ne potesse la sollecitudine di un fittaiuolo. Divenuti i dominj reali il giardino e il granaio dell'Asia, il Principe non ebbe d'uopo di vessare i popoli per assicurarsi una fonte di ricchezze perenni e legittime. Giusta la natura dei terreni, questi divenivano, per le imperiali cure, o campi da grano, o selve, o vigneti, o prati, ove numerose greggie andavano al pascolo. Nel presentare l'Imperatrice di una corona ricca di perle e di diamanti, l'Imperatore le fece intendere sorridendo che questo prezioso ornamento era stato comperato coi danari ricavati dalla vendita delle uova del suo immenso pollaio. La rendita dei dominj imperiali bastava alle spese del palagio, al mantenimento degli ospitali, al sostegno della dignità e del lusso del trono, e più vantaggiosa di questa rendita divenne allo Stato la forza del buon esempio. Tornarono i primi onori e l'antica sicurezza all'aratro. Schifi allora i Nobili di riparare la fastosa loro indigenza o colle spoglie involate al povero, o con favori mendicati alla Corte, una rendita più certa e non abbietta si procacciarono dai propri dominj. Affrettatisi i Turchi a comperare il superfluo delle biade, e delle mandrie dello Stato, Vatace si mantenne accuratamente in corrispondenza con essi, ma non quindi incoraggiò l'introduzione delle produzioni dell'industria straniera e della seta del Levante, come tenne lontane da' suoi dominj le manifatture dell'Italia. «I bisogni della natura, solea dire Vatace, sono indispensabili da soddisfare: ma il capriccio della moda in un giorno nasce e perisce» con tai precetti e col proprio esempio, il saggio Monarca e la semplicità de' costumi, e l'industria del popolo, e l'economia domestica, favoriva. Primo scopo di premure gli furono l'educazione della gioventù e lo splendore delle lettere206: solito a dire con verità che un principe ed un filosofo sono i due più eminenti personaggi della società umana, non si arrogava decidere qual dei due avesse la preferenza. La prima sposa del medesimo, Irene, figlia di Teodoro Lascaris, più illustre per merito personale e per le virtù del suo sesso, che pel sangue Comneno trasfuso nelle sue vene, avea dato in dote al marito l'Impero. Dopo la morte di lei, Vatace sposò Anna, o Costanza, figlia naturale dell'imperatore Federico II. Ma non essendo questa ancor giunta alla pubertà, l'Imperatore accolse nel proprio letto una Italiana del suo seguito: e i vezzi e le arti della concubina ottennero dall'amante, tranne il titolo, tutti gli onori ad una Imperatrice dovuti; debolezza del Monarca, che come enorme delitto divulgarono i frati; ma la violenza delle costoro invettive, non giovò che a far risplendere maggiormente la pazienza del Sovrano. La filosofia del nostro secolo perdonerà, non v'ha dubbio, a questo principe una debolezza cui compensava un complesso raro di virtù; e quegli stessi contemporanei che mitemente giudicarono le più impetuose e fatali passioni di Lascaris, non seppero negare ai falli di Vatace un'indulgenza ai restauratori degl'Imperi dovuta207. Que' Greci, i quali, privi di leggi e di tranquillità, gemevano tuttavia sotto il giogo latino, invidiavano la felicità di quei lor confratelli che già riacquistata aveano la civile libertà; e Vatace con una politica non condannevole, metteva ogni sollecitudine a persuaderli de' vantaggi che migrando al regno di lui avrebbero trovati.
A. D. 1255-1259
Appena ci facciamo a paragonare i regni di Giovanni Vatace, e di Teodoro, figlio di lui e successore, appaiono manifesti il tralignamento e la differenza tra il fondatore, poi reggitore dell'Impero fondato, e l'erede in cui non era che lo splendore a lui preparato dal padre208. Non vuole cionnullameno negarsi qualche forza d'animo a Teodoro; allevato alla scuola paterna, addestrato nella caccia e nella guerra, poteva egli del tutto mancarne? Benchè Costantinopoli non abbia ceduto all'armi di questo principe, pure ne' tre anni che il suo regno durò, ei condusse per tre volte i suoi eserciti vittoriosi fin nel cuore della Bulgaria. Ma ogni pregio da lui posseduto oscuravano l'ira e la diffidenza, il primo dei quali difetti può attribuirsi alla consuetudine di non essere stato mai contraddetto; l'altro forse gli derivava da alcune confuse e vaghe nozioni sulla depravazione dell'uman genere. Stando in cammino per una delle sue spedizioni nella Bulgaria, consultò sopra un caso di politica i suoi principali ministri, fra i quali, il gran Logoteta, Giorgio Acropolita osò con sincerità sostenere una opinione che feriva il Sovrano. Questi, portata primieramente la mano all'elsa della sua scimitarra, fu rattenuto indi dal nuovo pensamento di punire in modo più obbrobrioso il Ministro. Cotesto uffiziale, un de' primarj dell'Impero, ebbe dal suo Signore il comando di scendere da cavallo, e spogliato delle sue vesti alla presenza del Principe e dell'esercito, e steso sul suolo, soggiacque ai colpi di bastone, che due guardie, od esecutori senza pietà gli menarono addosso; gastigo durato sì lungo tempo, che quando per ordine imperiale fu fatto tregua alle percosse, il misero paziente quasi non ebbe bastante forza per sorgere da terra e trascinarsi alla sua tenda. Dopo essere stato ritirato per alcuni giorni, gli stessi comandi assoluti di Teodoro lo richiamarono nel Consiglio; e, ciò che prova quanto i Greci d'allora ad ogni sentimento di onore e di vergogna fossero morti, è il saper noi l'obbrobrio cui fu sottoposto Acropolita, dalla sua narrazione medesima209. Questa crudeltà ingenita dell'Imperatore ebbe maggior alimento da un penoso morbo che gli presentava di continuo imminente la morte, e dai timori destatisi nel medesimo di doverlo alle forze di un veleno, o di un sortilegio. Ogn'impeto di collera che lo assaliva, costava or le sostanze, or la vita, o gli occhi, o alcun membro del corpo a qualche individuo della famiglia imperiale, o a qualche grande uffiziale della Corona; laonde sul terminar de' suoi giorni, il figlio di Vatace si meritò dal popolo, o certamente dalla sua Corte, il nome di tiranno. Venuto una volta in deliberazione di maritare una nobile ed avvenentissima donzella ad un vil plebeo, cui solo merito era il capriccio del Sovrano che lo favoriva, e non acconsentendo a tai nozze la madre della giovane che apparteneva alla famiglia de' Paleologhi, Teodoro, per sin dimenticati i riguardi e al grado, e all'età dovuti, la fe' mettere fino al collo entro un sacco insieme a diversi gatti, delle quali bestie veniva aizzato a punture di spille il furore. Giunto agli ultimi del viver suo questo Principe, mostrò rincrescimento delle passate crudeltà e desiderio con successivi atti clementi di cancellarle. Lo crucciavano ad un tempo (A. D. 1559) i pensieri di un figlio che non avendo più di otto anni, egli vedeva avventurato ai pericoli di una lunga minorità; ne confidò pertanto la tutela alla santità del patriarca Arsenio, e al valore di Giorgio Muzalone, gran domestico. Questo secondo quanto godea il favore del Principe, altrettanto della pubblica esecrazione era scopo; tanto maggiormente che le corrispondenze fra i Greci e i Latini avendo introdotto nelle monarchie de' primi i titoli e i privilegi ereditarj, le famiglie nobili210 si adiravano in veggendo l'innalzamento di un favorito privo di meriti, e che, per giunta, incolpavano di tutti gli errori del Sovrano e delle calamità della patria. Nondimeno nel primo Consiglio tenutosi dopo la morte di Teodoro, Muzalone dall'alto del trono aringò in difesa della propria condotta e delle intenzioni da cui fu mossa, con tanta arte, che per allora lodatane la modestia, e largheggiatogli di proteste di stima e di fedeltà, i più inviperiti nemici del favorito si mostrarono i primi ad onorarlo col titolo di custode e salvator de' Romani. Ma otto giorni bastarono agli apparecchi di una congiura che scoppiò nel nono, mentre si celebravano le pompe funerali del Monarca defunto nella cattedrale di Magnesia,211 città dell'Asia, situata in riva all'Ermo, alle falde del Sipilo, poichè in questa città Teodoro era spirato. Interrotta la cerimonia da una sommossa delle guardie, Muzalone, i fratelli e i partigiani di questo, vennero trucidati a piè dell'altare, datosi per nuovo collega al Patriarca, assente in quel punto, Michele Paleologo, uno de' Greci d'allora il più illustre per meriti e per natali212.
Fra tanti che invaniscono de' loro antenati, la maggior parte è ridotta a contentarsi di una gloria municipale, o domestica, e avene assai pochi i quali osassero consegnare i privati fasti delle lor famiglie agli Annali della propria nazione. Ma sino dalla metà dell'undecimo secolo, la nobile schiatta de' Paleologhi213 luminosa nella Storia di Bisanzo si mostra. Incominciatone lo splendore col valoroso Giorgio Paleologo che collocò il padre de' Comneni sul trono di Costantinopoli, i congiunti, o discendenti dello stesso Giorgio continuarono nelle successive generazioni a segnalarsi or comandando gli eserciti, or presedendo ai Consigli di Stato. La famiglia imperiale non disdegnò il lor parentado, talchè, se l'ordine di successione fosse stato a rigore osservato rispetto alle donne, la moglie di Teodoro Lascaris avrebbe ceduto alla sua sorella primogenita, madre di quel Michele Paleologo, che in appresso innalzò al trono la propria famiglia. Al vanto di una illustre nascita Michele aggiungea quello che dalle sue nozioni politiche e militari gli derivava. Asceso fin dagli anni della prima giovinezza alla carica di Contestabile o comandante de' Franchi mercenarj, la sostenne splendidamente, e avido e prodigo ad un tempo la sua ambizione il rendea; perchè, se la spesa necessaria al mantenimento suo personale, non eccedea le tre piastre d'oro, molto danaro abbisognavagli per far donativi, che alle sue maniere affabili e buone qualità sociali accrescevano pregio. Questa affezione ch'egli si era guadagnata dal popolo e dai soldati, diede ombra alla Corte; nondimeno Michele si sottrasse per tre volte ai pericoli che o la sua imprudenza, o quella de' suoi partigiani gli suscitarono.
1. Sotto il regno di Vatace, che era pur quello della giustizia, essendo nato litigio fra due uffiziali214, l'un de' quali accusava l'altro di sostenere il diritto ereditario de' Paleologhi al trono, si pensò definirlo con un combattimento giudiziario, usanza che i Greci aveano tolta di recente dalla giurisprudenza dei Latini. Comunque soggiacesse l'accusato, si mantenne sempre fermo nel protestare sè essere il solo colpevole, e i discorsi o imprudenti, o criminosi da lui tenuti non solamente non avere ottenuta approvazione dal suo protettore Michele Paleologo, ma a non saputa di questo essere stati fatti. A mal grado di ciò, forti sospetti aggravavano tuttavia il Contestabile, fatto scopo per ogni dove alle dicerie della malevolenza, onde l'arcivescovo di Filadelfia, scaltrito cortigiano, lo sollecitava a sottomettersi al Giudizio di Dio, e a far palese colla prova del fuoco la sua innocenza215. Il qual partito se Paleologo avesse accettato, tre giorni prima innanzi le prove, doveasi, secondo quelle costumanze, avvolgergli il braccio in un sacchetto, fasciatura che l'imperiale suggello guarentiva indissolubile; poi gli facea mestieri portar tre volte dall'altare alla balaustrata del santuario una palla di ferro rovente; e il non riceverne danno, o dolore, comunque non si fosse premunito con verun'arte, assoluto lo rimandava. Ma con una piacevole accortezza il Contestabile da una tal prova pericolosa si liberò. «Io sono soldato, diss'egli, e pronto a combattere, brandendo l'armi, i miei accusatori, ma ad un profano, ad un peccatore mio pari, Dio non comparte il dono di far miracoli. Ben la vostra pietà, o prelato santissimo, può meritarmi questa grazia celeste. Riceverò pertanto, ma solo dalle vostre mani, la palla arroventata che debb'essere il mallevadore della mia innocenza». L'arcivescovo rimase scompigliato, l'Imperatore sorrise; nuovi servigi meritarono a Michele assoluzione e perdono e onori novelli.
2. Sotto il regno successivo, essendo Paleologo governator di Nicea, fu avvertito, in tempo che Teodoro era lontano, dei pericoli da temersi dalla diffidenza di questo principe, che probabilmente accigneasi a compensarne i servigi col dargli morte, o privarlo per lo meno degli occhi. Per non fare una tale esperienza, il Contestabile, seguito da alcuni servi, abbandonò la città e gli Stati di Teodoro; spogliato indi dai Turcomani nell'attraversare il Deserto, trovò nondimeno alla Corte del Sultano ospizio e buon'accoglienza. Ridotto ad una tanto equivoca condizione di vita l'esule illustre, seppe unire i doveri che gli imponea la gratitudine verso il Sultano a quelli di cittadino; laonde mentre i Tartari respingea dai dominj del suo benefattore, mandava salutevoli avvisi alle guernigioni romane delle frontiere, e pervenne ad ultimare un Trattato di pace, fra le cui condizioni vi fu quella, decorosa per lui, della sua grazia e del suo ritorno alla patria.
3. Intanto ch'egli stava difendendo l'Oriente contra le fazioni del despota dell'Epiro, il Principe, sul solo fondamento di nuovi sospetti, lo condannò, e questa volta Michele, fosse debolezza, o fedeltà, porse la mano alle catene, e si lasciò condurre da Durazzo a Nicea, cammino di circa seicento miglia. Il ministro incaricato di una commissione sì odiosa, per altro la mitigò coi riguardi usati verso del prigioniere; ne andò guari che i pericoli sovrastanti ad esso, dileguarono per l'infermità dell'Imperatore, e cessarono affatto allor quando questi giunto all'istante della morte raccomandò al medesimo Paleologo il proprio figlio; col quale atto nel modo il più evidente manifestò di riconoscere e l'innocenza, e il potere d'un uomo sì ragguardevole.
Ma oltre alla rimembranza dell'oltraggio che questa sua innocenza avea ricevuto, troppo manifesto era il potere, perchè vi fosse speranza di arrestarne il corso in sulla via che l'ambizione gli apriva216. Nel Consiglio tenutosi dopo la morte di Teodoro, primo Michele a giurar fedeltà a Muzalone, fu indi il primo ad infrangere un tal giuramento; ma si condusse con tanta scaltrezza, che trasse profitto dalla strage accaduta pochi giorni dopo, senza partecipar del delitto, o almeno del rimprovero del delitto. Quando si venne alla scelta di un reggente, ponendo destramente in conflitto le passioni e gli interessi contrarj de' candidati, se ne cattivò i voti, in guisa che ciascuno per parte sua protestava non esservi alcuno, dopo di sè, che più di Paleologo meritasse la preferenza. Col titolo di gran Duca, accettò, o si arrogò il potere esecutivo dello Stato, sintanto che durasse la lunga minorità del giovine Cesare. Nulla avendo a temere dal Patriarca, che era solamente un fantasma insignito d'onori, seppe colla superiorità del suo ingegno o allettare, o dileguare le fazioni de' Nobili. Avea Vatace depositati i tesori, venuti dalla sua assegnatezza, entro un Forte situato alle rive dell'Ermo, e da' suoi fedeli Varangi difeso; ma il Contestabile, che avea mantenuta la sua autorità, o la sua prevalenza sulle truppe straniere, adoperò le guardie per impadronirsi del tesoro, il tesoro per corrompere le guardie; inoltre sì accorto, che comunque delle pubbliche ricchezze abusasse, di avarizia, o avidità personale non fu giammai sospettato. Tutti i discorsi di lui e de' suoi partigiani intendevano a far credere ai sudditi di ogni classe che la loro prosperità sarebbe cresciuta in proporzione del suo potere. Mitigò il rigor delle tasse, perpetuo argomento delle querele del popolo, e proibì le prove del fuoco e i combattimenti giudiziarj, barbare instituzioni, già abolite, o venute in discredito, così nella Francia217 come nell'Inghilterra218, alla qual considerazione si arroge che il giudizio per via della spada opponeasi egualmente alla ragione di un popolo ingentilito219, e alle propensioni morali di un popolo pusillanime, siccome i Greci lo erano. Si guadagnò l'amore de' veterani assicurando il vitto alle mogli e ai figli de' medesimi. Col proteggere il progresso delle Scienze e la purezza della religione, ebbe per sè i filosofi e i Sacerdoti; largo promettitore di ricompense al merito, fece sì che tutti gli aspiranti a cariche applicassero a sè medesimi queste promesse. Non ignorando quanta fosse la prevalenza del clero, si studiò con buon successo per procacciare i suffragi di un Ordine così poderoso, al quale scopo gli somministrò un onorevole colore il dispendioso viaggio che da Nicea a Magnesia intraprese. Visitandoli di notte tempo, con nuove liberalità seduceva i prelati, e lusingò la vanità dell'incorruttibile Patriarca coll'omaggio di condurne egli medesimo la mula per le strade della città, allontanando colla propria mano la calca, onde si tenesse alla dovuta rispettosa distanza. Senza rinunziare ai diritti che gli venian dalla nascita, incoraggiò la libertà delle discussioni sui vantaggi di una monarchia elettiva, per lo che i partigiani di lui poneano in aria di trionfo la seguente interrogazione: quale infermo vorrebbe affidare la cura della propria salute, qual mercatante la condotta della sua nave, all'ingegno d'un medico o d'un nocchiero ereditarj? La fanciullezza dell'Imperatore, e i pericoli da una lunga minorità minacciati, rendeano necessaria allo Stato la protezione di un Reggente adulto ed esperto, di un collegato al trono che non dovesse paventare la gelosia de' suoi pari, e insignito de' titoli e delle prerogative reali. Dopo le quali cose apparve che sol per vantaggio del principe e de' popoli, senza viste d'interesse o per sè, o per la propria famiglia, il gran Duca acconsentiva ad assumersi la tutela e l'educazione del figlio di Teodoro; del rimanente aspettava egli con impazienza il felice istante, in cui già ferma al regno la mano del giovine Principe, potesse questi liberare il suo tutore dal peso dell'amministrazione, e restituirgli il conforto di vivere nella sua pacifica oscurità. Gli vennero primieramente conferiti i titoli e le prerogative di despota, per cui godea degli onori della porpora, e del secondo grado della monarchia romana. Convenutosi indi che Giovanni e Michele sarebbero acclamati Imperatori colleghi, e sollevati entrambi sopra lo scudo, salva per Giovanni la preminenza derivatagli dal diritto di successione, i due augusti colleghi si giurarono amicizia inviolabile, permettendo ai sudditi di obbligarsi con giuramento a chiarirsi contro l'aggressore; espressione equivoca ed atta a somministrare pretesto alla discordia e alla guerra civile. Di tutto ciò Paleologo parea soddisfatto: ma nel dì della cerimonia della coronazione che accader dovea nella cattedral di Nicea, gli amici di Paleologo levarono un grido per sostenere la preminenza dovuta, questi diceano, all'età e al merito del nuovo Cesare; ed a tale contrasto fuori di luogo si cercò per temperamento il differire a più favorevole circostanza la coronazione di Giovanni Lascaris. Laonde il giovine principe, fregiato unicamente di una lieve corona, comparve seguendo il suo tutore, che solo ricevè dalle mani del Patriarca il diadema imperiale. Non senza un'estrema ripugnanza Arsenio abbandonò in tal guisa gl'interessi del pupillo: ma i Varangi (A. D. 1260), sollevata la loro azza da guerra, prevalsero alla timida fanciullezza del principe legittimo che diede un segno di approvazione; e nondimeno si fecero udire alcune voci sulla necessità che l'esistenza di un fanciullo non fosse omai ostacolo alla felicità d'uno Stato. Grato Paleologo ai suoi amici, d'impieghi civili e militari li presentò, e creando nella propria famiglia un despota e due sebastocratori, conferì al vecchio generale Alessio Strategopolo il titolo di Cesare, che rendè ampio guiderdone al suo benefattore col farlo padrone di Costantinopoli.
A. D. 1261
Correva il secondo anno del regno di Michele, allorchè, risedendo egli nel palagio e ne' giardini di Ninfea220 presso Smirne, ricevette di notte tempo la prima notizia di questo incredibile buon successo, ad annunziargli il quale si andò con molto riguardo innanzi destarlo, per condiscendere alle tenere sollecitudini della sorella del medesimo, Eulogia. Il messaggiero, uomo di niun conto e sconosciuto, non portava con sè alcuna lettera del generale vincitore; laonde Paleologo, pensando alla sconfitta di Vatace, e alla inutilità dei tentativi che egli stesso avea di recente operati, nè potendo persuadersi che ottocento soldati avessero potuto sorprendere Costantinopoli, ebbe per sospetto il messo, e fattolo arrestare, gli promise grandi ricompense, qualora un tale annunzio si fosse verificato, altrimenti gli minacciò morte. La Corte rimase per alcune ore in queste alternative di tema e di speranza, fino al momento in cui i messi di Alessio arrivarono apportatori de' trofei della vittoria, della spada cioè e dello scettro221, dei calzaretti, e del berrettone222 di Baldovino l'Usurpatore, i quali arredi nel momento della sua precipitosa fuga gli eran caduti. Venne tantosto convocata un'assemblea de' Prelati, dei Nobili e de' Senatori, e sì universale ed intensa era l'allegrezza, che niun altro fausto avvenimento avea per lo innanzi destato un giubilo simile a questo. Il nuovo Sovrano di Costantinopoli, con elaborata Orazione magnificò la propria fortuna e quella del popolo. «Fuvvi un tempo, ei dicea, un tempo assai remoto, allorchè l'Impero de' Romani, dal golfo Adriatico al Tigri e ai confini dell'Etiopia si dilatava. Vennero i giorni di calamità, ne' quali, dopo la perdita di molte province, la medesima Capitale cadde fra le mani dei Barbari dell'Occidente. Dall'ultimo grado della sciagura, il flutto della prosperità ci ha nuovamente innalzati; ma non ostante erravamo sempre esuli e fuggitivi, e a chi ne chiedeva ove fosse la patria de' Romani, additavamo arrossendo il clima del Globo e la regione del Cielo. La Providenza favorevole alle nostr'armi ne ha restituita Costantinopoli, sedia dell'Impero e della Religione. Spetta al nostro valore e al nostro coraggio il far sì che questo prezioso acquisto sia presagio e mallevadore di novelle vittorie». Tanta era nel Principe e nel popolo l'impazienza, che venti giorni dopo l'espulsione de' Latini (A. D. 1261), Michele fece il suo trionfale ingresso in Costantinopoli. Al suo avvicinare, apertasi la Porta d'Oro, il pio conquistatore, sceso da cavallo, si fece portare innanzi la miracolosa immagine di Maria la Conduttrice, affinchè apparisse che la Vergine stessa lo conduceva al tempio del proprio figlio nella cattedrale di S. Sofia. Ma dopo essersi abbandonato ai primi impeti della divozione e dell'orgoglio, contemplò sospirando la rovina e la solitudine che regnavano per ogni dove della derelitta sua Capitale. Lordati di fumo e fango i palagi, offrivano per ogni lato l'impronta della salvatica licenza de' Franchi; vedeansi intere contrade consumate dal fuoco, o guaste dall'ingiuria de' tempi; gli edifizj sacri e profani spogliati de' loro arredi, e, come se i Latini avessero preveduto l'istante di essere discacciati, ogni industria loro era stata posta nel saccheggiare e distruggere; annichilato il commercio dall'anarchia, e dall'indigenza; sparita colla ricchezza pubblica la popolazione. Essendo stata una fra le prime cure dell'Imperatore il restituire ai Nobili i palagi de' loro antenati, tutti coloro che poterono offrire valevoli documenti, tornarono a trovarsi nel ricinto delle lor case, o almeno sugli spianati ov'esse stettero un giorno. Ma questi proprietarj essendo periti in gran parte, la maggiore eredità fu del fisco. Le sollecitazioni di Michele trassero gli abitanti delle province a popolare nuovamente Costantinopoli, ove i prodi Volontarj che l'aveano liberata, ottennero possedimenti. I Baroni francesi e le primarie famiglie, insieme coll'Imperatore, si erano ritirate. Ma una moltitudine paziente di oscuri Latini, affezionatasi al paese, alcun fastidio del cambiato padrone non si prendea. Anzichè privare delle lor fattorie i Pisani, i Veneti, i Genovesi, il saggio conquistatore, dopo avere da questi ricevuto il giuramento di fedeltà, protesse la loro industria, ne confermò i privilegi, e permise ad essi di conservare la loro giurisdizione e i lor magistrati. I Pisani e i Veneziani continuarono ad occupare i loro rioni a parte nella città; ma i Genovesi, più meritevoli degli altri di gratitudine per parte de' Greci, eccitata ne aveano la gelosia; perchè la loro independente colonia che aveva sulle prime posta dimora ad Eraclea in un porto della Tracia, condiscese alla sollecitazione che li chiamava a popolare il sobborgo di Galata; ma la opportunità del sito essendo stata ad essi giovevole per rinvigorire il primitivo loro commercio non andò guari che la maestà dell'Impero di Costantinopoli ne sofferse223.
A. D. 1261
Il ritorno de' Greci a Costantinopoli venne celebrato, siccome l'epoca di un novello impero: il solo conquistatore, fondato sul diritto della propria spada, rinovò la cerimonia della sua incoronazione nella Cattedrale di S. Sofia; Giovanni Lascaris, pupillo di Michele, e legittimo Sovrano, vide a poco a poco sparire le prerogative della sua dignità, e cancellato dagli atti del governo il suo nome; ma i diritti di lui vivevano ancora nella ricordanza de' popoli, ed egli intanto avanzavasi verso gli anni della virilità e dell'ambizione. Fosse timore, o ribrezzo, Paleologo non lordò nel sangue di un innocente Principe le sue mani; ma perplesso fra i sentimenti dell'usurpatore e que' del parente, si affrancò il possedimento del trono, mercè uno di que' delitti imperfetti, co' quali i moderni Greci eransi già addimesticati, e poichè la privazione della vista rendea un principe incapace di governare l'Impero, a questo colpevole espediente ricorse; ma invece che all'infelice giovane fossero strappati gli occhi, si pensò a distruggere in esso la forza del nervo ottico esponendolo alla riflessione ardente di un arroventato bacino;224 dopo di che confinato in un lontano castello, vi languì dimenticato per molto volgere d'anni. Benchè questo meditato delitto sembri incompatibile coi rimorsi, possiam credere, che Paleologo avesse nel commetterlo una disadatta, quanto per lui comoda, fiducia nella misericordia del Cielo; ma non quindi rimanea meno esposto al biasimo e alla vendetta degli uomini. Applaudissero pure, o, intimoriti dalle sue crudeltà, si stessero silenziosi i vili cortigiani dell'usurpatore; ma il clero potea parlare a nome di un invisibile padrone, e condotto da un Prelato inaccessibile alla speranza come al timore. Vero è che Arsenio225, dopo rassegnata per breve tempo la sua dignità, si era prestato ad occupare la sede ecclesiastica di Costantinopoli; onde sotto la presidenza di lui la Chiesa greca fu restaurata. Egli sperava di ammollire per via di pazienza e di sommessioni l'animo del tiranno, e di rendersi per tal via utile al giovine Imperatore; ma troppo a lungo gli artifizj di Paleologo si erano presa a giuoco la pietosa semplicità del Prelato; il quale appena seppe il destino infausto di Lascaris, prese il partito di adoperare le armi spirituali, e questa volta la superstizione protesse la causa dell'umanità e della giustizia. Pertanto in un Concilio di Vescovi (A. D. 1262-1263), che l'esempio del loro Capo facea coraggiosi, pronunziò anatema contro Michele, avendo nondimeno la prudenza di continuare a fare menzione di lui nelle pubbliche preci. I prelati d'Oriente non avevano ancora abbracciate le pericolose massime dell'antica Roma, nè si credeano quindi in diritto di far forti le loro censure spirituali col gridare rimossi dal trono i monarchi, e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà; però il colpevole, separato in tal guisa da Dio e dalla Chiesa, diveniva scopo al pubblico orrore, orrore che, in una Capitale abitata da turbolenti fanatici, era valevole ad armare il braccio di un assassino, o ad eccitare una sedizione. Paleologo che comprendeva il pericolo, confessò il proprio delitto, implorando la clemenza del giudice: la colpa non avea più riparo; chi l'avea commessa ne godeva il frutto; una rigorosa penitenza potea cancellarla, ed innalzare il peccatore agli onori di un Santo; ma l'inflessibile Patriarca ricusò di additar vie di espiazione, o di concedere alcuna speranza di pietà celeste al colpevole, e solamente condiscese a rispondere che ad un sì atroce delitto una straordinaria espiazione voleasi. «È necessario ch'io rassegni l'Impero?» sclamò Michele, rimettendo, o facendo l'atto di rimettere la spada imperiale. E già Arsenio portava la mano a questo pegno della Sovranità; ma non tardò ad accorgersi che l'Imperatore non si sentiva inclinato a pagare a sì caro prezzo l'assoluzione implorata226; per lo che acceso di sdegno il Prelato cercò la sua cella, lasciando il monarca piangente e prostrato in sulla soglia del tempio.