Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13», sayfa 12
La dominazione temporale del Clero è sempre stato soggetto di censura a' Teologi, del pari che a' Politici, ed a' Filosofi. I primi non la credeano legittima stando alla lettera del Vangelo: agli altri non piaceva il vedere in certo modo invilita l'antica maestà della padrona del Mondo, e rimembrando i suoi Consoli, i suoi trionfi, le sue glorie, trovavano troppo dissimile, e basso un Governo sacerdotale. Pure calcolando a mente tranquilla i vantaggi e i difetti di questo, si debbe dare le debite lodi ad un'amministrazione decorosa e pacifica, non soggetta ai pericoli d'una minorità, o agl'impeti d'un giovane Principe, non rovinata dal lusso, non esposta per sè medesima ai disastri di lunghe guerre. Bensì non è dessa esente dalle vicende di successioni frequenti, e rinovate in breve periodo, di Sovrani rade volte originarj di Roma, spesso in età senile; e più spesso inesperti della politica, privi per lo più della speranza di vivere tanto da terminare opere grandi, e del conforto di avere successori che sien partecipi de' loro alti pensieri, o capaci d'emularli. Tratti sovente dalla solitudine de' chiostri, deggiono di leggieri per la ricevuta educazione, e per l'acquistata consuetudine di vita essere estranei a idee mondane, a cure d'alti affari, troppo aliene dall'austerità e dalle massime d'una religione contraria alle passioni del secolo e all'ambizione del dominio. Può per altro nelle nunziature specialmente avere attinta qualche cognizione di Mondo, ma difficilmente sapranno lo spirito e i costumi d'un Ecclesiastico trasformarsi quanto sarebbe d'uopo per uguagliare l'accortezza, ed il senno d'un Principe temporale. Non mancarono per altro, e forse non mancheranno a quando a quando gli esempj di Pontefici degni di stare al paragone coi più grandi Potentati. Il genio di Sisto V376 si sollevò dall'oscurità di un convento di Francescani; un regno di cinque anni, distrusse la razza de' banditi e di tutti quegli uomini malvagi che avea proscritta la legge; tolse agli scellerati i luoghi di secolare franchigia ove potevano rintanarsi377; creò una marineria e un esercito di terra, restaurò i monumenti dell'antichità, li pareggiò nei nuovi che eresse; e dopo aver fatto nobile uso delle pubbliche rendite, e dopo averle notabilmente accresciute, lasciò ricco di cinque milioni di scudi l'erario del Castel S. Angelo. Ma la crudeltà ne contaminò la giustizia; dalle mire di conquista fu condotta la sua solerzia; ricomparvero al suo morire gli abusi; vennero disperse le ricchezze, che egli aveva adunate; aggravò i posteri di trentacinque nuove imposte e della venalità degli ufizj; e quando ebbe mandato l'ultimo anelito, un popolo ingrato, od oppresso, ne rovesciò il simulacro378. La selvaggia originalità di Sisto V, tiene un luogo particolare nella Storia de' Papi, nè possono giudicarsi le massime e gli effetti della temporale loro amministrazione che mediante un esame positivo e comparativo delle arti e della filosofia, dell'agricoltura e del commercio, della ricchezza, e della popolazione dello Stato ecclesiastico379. Quanto a me, che desidero morire in pace con tutto il Mondo, in questi ultimi momenti della mia vita non offenderò volontariamente nè il Papa, nè il Clero di Roma.
CAPITOLO LXXI
Descrizione delle rovine di Roma nel secolo decimoquinto. Quattro cagioni di scadimento e distruzione; il Colosseo citato ad esempio. La Città nuova. Conclusione dell'Opera.
A. D. 1430
Sul finire del Regno di Eugenio IV, il dotto Poggi380 e un suo amico, servi entrambi del Papa, ascesero la collina del Campidoglio, e riposandosi fra le rovine delle colonne e de' templi, da quell'altura contemplarono l'immenso quadro di distruzione che ai loro sguardi appariva381. Il luogo della scena e questo spettacolo offerivano ad essi un vasto campo di moralizzare sulle vicissitudini della fortuna, che non risparmia nè l'uomo, nè le più orgogliose fra le sue opere, e che precipita nello stesso baratro gl'Imperi e le città, laonde convennero entrambi in questa opinione, non esservi, se si avea riguardo a quel che era stata, veruna città della Terra, che, più di Roma, offerisse un aspetto deplorabile e augusto ne' suoi stessi diroccamenti. «L'immaginazione di Virgilio, dicea il Poggi all'amico, descrisse Roma nello stato suo primitivo, e tal quale poteva essere allora, che Evandro accolse il fuggitivo Troiano382. La Rocca Tarpea che tu vedi da quella parte non presentava che una selvaggia e solitaria siepaglia; ai dì del Poeta, la cima di essa vedeasi coronata dai portici d'un tempio, e dai lor tetti dorati. Il tempio non è più; i Barbari si sono presi l'oro che lo fregiava; la ruota della fortuna ha compiuto il suo giro, e questo sacro terreno è nuovamente bruttato dalle ginestre e dai rovi. La collina del Campidoglio, su di cui ci siamo seduti, era, già tempo, la testa dell'Impero romano, la Fortezza del Mondo, il terrore dei Re. Onorata dalle pedate di tanti trionfatori, arricchita delle spoglie e dei tributi di un tanto numero di Nazioni; spettacolo che attraeva gli sguardi dell'Universo, oh! come è caduta, com'è cambiata, come ha perduta l'antica immagine! Le vigne impacciano il cammino de' vincitori, le immondezze lordano que' luoghi ove erano collocati gli scanni dei Senatori. Volgi gli occhi al monte Palatino, e dimmi se fra quegl'immensi e uniformi rottami puoi scorgere il teatro di marmo, gli obelischi, le statue colossali, i portici del palagio di Nerone; esamina gli altri colli della città, nè troverai per ogni dove che vôti spazj frastagliati soltanto da orti e rovine. Il Foro, ove il popolo romano dettava le sue leggi e creava i suoi Magistrati, non contiene oggidì che recinti serbati alla coltivazione de' legumi, o aree erbose che i bufali e i maiali calpestano. Tanti pubblici e particolari edifizj, che per la saldezza di lor costruzione parca sfidassero tutte le età, giacciono rovesciati, spogliati, sparsi nella polvere, come le membra di un robusto gigante; e quelle fra queste opere maestose, che alle ingiurie sopravvissero del tempo e della fortuna, rendono maggiormente dolorosa l'impressione del molto più che è distrutto383».
Coteste ruine vengono partitamente descritte dal Poggi, uno de' primi che siasi dai monumenti della superstizione religiosa a quelli della classica sollevato384. 1. Fra le opere de' giorni della Repubblica si discernevano ancora un ponte, un arco, un sepolcro, la piramide di Cestio, e nella parte del Campidoglio occupata dai gabellieri, una doppia fila di portici che serbavano il nome di Catulo e la munificenza di questo Romano attestavano. 2. Il Poggi accenna undici templi, qual più, qual men conservato, partendosi dal Panteon, tutta via intero, fino ai tre archi, e alla colonna di marmo, avanzi del tempio della Pace, che Vespasiano fece innalzare dopo le guerre civili e il trionfo riportato sopra i Giudei. 3. Trascorre alquanto leggermente, contando fino a sette, le antiche terme, o bagni pubblici, tutti, egli dice, sì andati a male, che niun d'essi lascia più scorgere l'uso a cui doveva servire, nè la distribuzione diversa delle sue parti. Pure i bagni di Diocleziano e di Antonino Caracalla venivano ancora indicati co' nomi de' lor fondatori, e tuttavia empieano di maraviglia i curiosi, che contemplavano la saldezza di tali edifizj, la varietà de' marmi, la grossezza e la moltitudine delle colonne, confrontando i lavori e la spesa, che a queste fabbriche si saranno voluti, colla utilità e importanza delle medesime. Oggidì ancora rimangono alcune vestigia delle Terme di Costantino, di Alessandro, di Domiziano, ovvero di Tito. 4. Gli archi trionfali di Tito, di Severo e di Costantino si trovavano intatti, non ne avendo il tempo cancellate che le iscrizioni; il frammento di un arco trionfale diroccato, serbava il glorioso nome di Traiano; due altri ancora sulle lor basi vedeansi nella via Flaminia, consagrati alla men nobile ricordanza di Gallieno e di Faustina. 5. Dopo averne descritte le maraviglie del Colosseo, potea il Poggi passar sotto silenzio un picciolo anfiteatro di mattoni, che serviva verisimilmente alle guardie pretoriane; edifizj pubblici e particolari occupavano già il luogo ove stettero i teatri di Marcello e di Pompeo, nè altro più discerneasi fuorchè il sito e la forma del Circo agonale e del gran Circo. 6. Le colonne di Traiano e di Antonino duravano su i lor piedistalli, ma gli obelischi egiziani erano infranti, o sepolti sotterra. Già sparito quel popolo di Dei e d'Eroi, creati dagli scalpelli de' statuarj, non rimaneva che una statua equestre di bronzo, e cinque marmoree figure, delle quali le più notabili due cavalli di Fidia e di Prassitele. 7. I mausolei o sepolcri di Augusto e di Adriano non potevano essere interamente spariti; ma il primo non offeriva che un mucchio di terra; quel d'Adriano, chiamato Castel Sant'Angelo, avea preso il nome e le esterne forme di una Fortezza moderna. Se aggiungeremo alcune colonne sparse qua e là, e che più non ravvisavasi a qual uso servissero, tali erano le rovine dell'antica città, perchè le mura, lunghe dieci miglia di circonferenza, affortificate da trecento settantanove torri, e che per tredici porte si aprivano, davano a divedere gl'indizj di una più recente costruzione.
Erano trascorsi oltre a nove secoli dopo la caduta dell'Impero d'Occidente, ed anche dopo il Regno de' Goti in Italia, quando il Poggi questo doloroso quadro pingea. Durante il lungo periodo d'anarchia e di sventure, mentre coll'Impero, l'arti e le ricchezze abbandonavano le sponde del Tevere, certamente la Città non potè inorgoglirsi di nuovi abbellimenti, nè tampoco restaurare gli antichi; e poichè è legge di tutte le umane cose che retrocedano se non procedono, il progresso de' secoli accelerava la rovina dei monumenti dell'Antichità. Misurare i gradi dello scadimento, e additare a ciascuna epoca lo stato di ciascun edifizio, sarebbe lavoro inutile ed infinito; restringerommi pertanto a due osservazioni che ne gioveranno di norma ad esaminar brevemente ed in modo generale le cagioni e gli effetti dello scadimento medesimo. I. Due secoli prima della eloquente lamentazione del Poggi, un autore anonimo avea pubblicata una descrizione di Roma385. Forse per sua ignoranza, l'indicato scrittore ne ha additate sotto nomi bizzarri, o favolosi le stesse cose che il Poggi aveva vedute. Però questo topografo barbaro era d'occhi e d'orecchi fornito; non potea non vedere gli avanzi di antichità che rimanevano ancora, non farsi sordo alle tradizioni del popolo. Ora egli indica in apertissime note sette teatri, undici bagni, dodici archi trionfali, e diciotto palagi, molti de' quali erano spariti prima de' tempi in cui il Poggi scrivea. Sembra pertanto che molti fra i più saldi monumenti dell'antichità si conservassero per lungo tempo386, e che i principj di distruzione abbiano operato sovr'essi con duplicato vigore ne' secoli decimoterzo e decimoquarto. 2. La medesima considerazione può venire applicata ai tre secoli successivi, e noi cercheremmo indarno il Settizonio di Severo387, celebrato dal Petrarca e dagli Antiquarj del secolo decimosesto. Sintantochè gli edifizj di Roma furono interi, la saldezza della massa e la connession delle parti resistettero all'impeto de' primi colpi; ma incominciata la distruzione, i frammenti crollati al primo urto rovinarono affatto.
Dopo molte indagini praticate accuratamente sulla distruzione delle opere de' Romani, mi sono occorse quattro cagioni principali, l'azion delle quali si è per dieci secoli prolungata. 1. I guasti operati dal tempo e dalla natura. 2. Le devastazioni de' Barbari e de' Cristiani. 3. L'uso e l'abuso fattisi de' materiali somministrati dai monumenti dell'antichità; e per ultimo le discordie intestine degli abitanti di Roma.
I. L'uomo perviene ad innalzar monumenti ben più della sua breve vita durevoli; ma son pur questi, soggetti, siccom'egli, a perire, e nell'immensità de' secoli, la sua vita e le sue opere non hanno che un istante. Non è cosa facile cionnullameno il circoscrivere la durata di un edifizio la cui saldezza ne pareggi la semplicità. Quelle piramidi, maraviglie degli antichi tempi, eccitavano la curiosità d'uomini vissuti tanti secoli prima di noi388. Cento generazioni sono sparite come le foglie d'autunno389; pur dopo la caduta de' Faraoni e de' Tolomei, de' Cesari e de' Califfi, quelle stesse piramidi, ferme ed immobili sulle loro basi, s'ergono ancora sopra le traboccanti acque del Nilo. Un edifizio composto di diverse e dilicate parti è più soggetto a perire, e i silenziosi scavamenti del tempo vengono talvolta accelerati dai turbini e dai tremuoti, dalle innondazioni e dagl'incendj. Certamente l'atmosfera e il suolo di Roma hanno provate le proprie vicissitudini; e le alte torri di questa Metropoli sono state crollate dalle loro fondamenta; ma non appare che i Sette Colli si trovino collocati in veruna delle grandi cavità del Globo, nè la città ha sperimentati que' grandi sovvertimenti della natura che ne' climi, sotto cui sono poste Antiochia, Lima, o Lisbona, annientano in pochi istanti l'opera di molte generazioni. Il fuoco è l'agente più operoso della vita e della distruzione; la volontà, o solamente la negligenza degli uomini, può produrre e dilatare questo rapido flagello. Or vediamo tutte le epoche degli annali romani contrassegnate da calamità di tal genere. Il memorabile incendio, delitto, o sventura del Regno di Nerone, continuò, con più, o men di furore per sei, o nove giorni390. Le fiamme divorarono un immenso numero di edifizj accumulati in quelle strade anguste e tortuose; e quando cessarono, di quattordici rioni di Roma, sol quattro restavano intatti, tre furono compiutamente inceneriti, gli altri sette perdettero la loro forma sotto le rovine fumanti degli edifizj incendiati391. L'Impero trovandosi allora all'apice di sua gloria, la Metropoli uscì, bella di un novello splendore, delle sue ceneri, ma i vecchi cittadini deploravano l'irreparabile perdita de' capolavori de' Greci, de' trofei delle romane vittorie, dei monumenti dell'antichità primitiva, o favolosa. Nei tempi di squallore e di anarchia, ciascuna ferita è mortale, ciascuna perdita irremediabile, nè avvi sollecitudine di Governo, o solerzia di particolare interesse che vagliano a ristorare la devastazione. Ma due considerazioni ci portano a credere molto maggiore in una città fiorente, che in una povera, la devastazione dagl'incendj operata. 1. Le materie combustibili, i mattoni, i legnami e i metalli vi si consumano, o fondono più presto, mentre le fiamme assalgono invano ignude pareti, o grosse volte spogliate de' loro ornamenti. 2. Più spesso che altrove, nelle case de' poveri, una funesta scintilla produce gl'incendj; ma poichè il fuoco le ha consumate, i maggiori edifizj che resistettero alle fiamme, o a cui le fiamme non giunsero, rimangono soli in mezzo ad un vôto spazio, nè corrono ulteriore pericolo. – La situazione di Roma la espone in oltre ad innondazioni frequenti. Il corso de' fiumi che discendono dall'uno e dall'altro lato dell'Appennino, non eccettuandone il Tevere, è irregolare e poco lungo; basse le loro acque durante l'ardor della state, le piogge o il didiacciar delle nevi li gonfiano nella primavera, o nel verno, e in torrenti impetuosi traboccano. Giunti al mare, se il vento li rispinge, e divenuto incapace di contenerli il lor letto, rompono ed allagano senza ostacolo le pianure e le città de' dintorni. Poco dopo il trionfo che celebrò le vittorie riportate nella prima guerra punica, avendo le piogge straordinarie ingrossato il Tevere, un traboccamento più durevole e più esteso di quanti se ne erano dianzi veduti, distrusse tutte le fabbriche poste al di sopra delle colline di Roma. Diverse cagioni ricondussero gli stessi guasti, e giusta la natura della parte di suolo innondata, gli edifizj o vennero trasportati dal subitaneo impulso della corrente, o lentamente sciolti e scavati dallo stagnamento dell'acque392. Eguale calamità essendosi, ne' giorni d'Augusto, rinnovellata, il fiume ribelle rovesciò i palagi e i templi situati sulle sue rive393; nè le sollecitudini di cotesto Imperatore, a fine di mondarne e ampliarne il letto colmato dalle rovine, risparmiarono in appresso ai Cesari successori eguali fatiche e pericoli394. La superstizione e privati interessi si opposero per lungo tempo al disegno di aprire, scavando nuovi canali, nuovi sbocchi al Tevere, o ai fiumi che gli portano il tributo delle loro acque395, impresa che fu eseguita di poi, ma troppo tardi, nè acconciamente, onde i vantaggi che se ne trassero non compensarono le fatiche e le spese. Il freno imposto ai fiumi è la più bella e rilevante fra quante vittorie gli uomini possano ottenere sulle ribellioni della natura396. Ora se il Tevere produsse simili guasti sotto un Governo vigoroso e solerte, chi poteva impedire, o chi potrebbe annoverare i disastri, che questo fiume arrecò alla città di Roma dopo la caduta dell'Impero d'Occidente? Finalmente il male condusse di per sè stesso il rimedio. Il cumulo delle rovine, e la terra staccatasi dai colli, coll'avere alzato il suolo, a quanto credesi, di quattordici o quindici piedi al di sopra dell'antico livello397, ha fatto sì che la città paventi meno gli straripamenti delle acque398.
II. Quegli autori d'ogni nazione che accagionano i Goti e i Cristiani dell'esterminio de' monumenti dell'antica Roma, avrebbero dovuto esaminare sino a qual punto poteano sì gli uni che gli altri essere spinti dal bisogno di distruggere, e fino a qual grado ebbero i modi e il tempo di abbandonarsi ad una tal propensione. Ho descritto molto prima il trionfo della barbarie e della religione; or mi rimane indicare con brevi cenni la correlazione o immaginaria, o reale che può concepirsi fra questo trionfo, e la rovina dell'antica Roma. Possiamo, quanto ne aggrada, comporre, o adottare, sulla migrazione de' Goti e dei Vandali, le idee romanzesche le più capaci di dilettare la nostra fantasia, supporre che uscirono della Scandinavia ardenti del desiderio di vendicare la fuga di Odino399, d'infrangere i ceppi delle nazioni, di gastigar gli oppressori, di annichilare tutti i monumenti della letteratura classica, e di collocare la loro nazionale architettura sulle rovine degli Ordini toscano e corintio. Ma in realtà, i guerrieri del Settentrione non erano nè abbastanza selvaggi, nè abbastanza ragionatori per concepire questi divisamenti di vendetta e di distruzione. Allevati negli eserciti imperiali, i pastori della Scizia e della Germania, ne aveano adottata la disciplina; e sol perchè conosceano la debolezza cui era giunto l'Impero, ad invaderne gli Stati si accinsero. Ma coll'uso della lingua latina aveano appreso a rispettare i titoli e il nome di Roma; e benchè incapaci di aspirare a pareggiare le arti e i lavori d'un popolo tanto ad essi nella civiltà superiore, più ad ammirarli che a distruggerli si mostravan propensi. I soldati di Alarico e di Genserico, padroni per un momento di una Capitale ricca e che non opponea resistenza, si abbandonarono, è vero, a tutta l'effervescenza propria di un esercito vittorioso. Ma in mezzo ai licenziosi diletti della dissolutezza e della crudeltà, le ricchezze facili a trasportarsi furono il soggetto delle loro ricerche, nè poteano trovare motivi d'insuperbire, o di compiacersi, o di sperare vantaggio nel pensar che atterravano i monumenti de' Consoli e de' Cesari. Oltrechè, preziosi per loro eran gl'istanti. I Goti sgomberarono da Roma il sesto giorno400, i Vandali il decimoquinto401; e benchè sia più facile impresa il distruggere un edifizio che l'innalzarlo, il precipitoso loro furore non sarebbe stato gran chè efficace sulle salde fabbriche dell'Antichità. Si ricorderanno i nostri leggitori, che Alarico e Genserico ostentarono rispetto verso gli edifizj di Roma; che questi edifizj vennero mantenuti nella loro integrità e bellezza sotto la prosperosa amministrazione di Teodorico402; e che il passeggiero sdegno di Totila403 trovò un freno nelle stesse considerazioni di Totila, e ne' suggerimenti che i suoi amici e i suoi nemici gli diedero. Se la precitata accusa è mal applicabile ai Barbari, non può dirsi del tutto lo stesso, rispetto ai Cattolici romani. Le statue, gli altari, i templi del demonio erano cose abborrevoli agli occhi loro; e v'ha luogo a credere che, divenuti assoluti padroni della città, si adoperassero a cancellarne ogni vestigio d'idolatria de' loro maggiori. La demolizione dei templi dell'Oriente404 lor ne offeriva un esempio, e serve in un d'appoggio a tale congettura; onde par verisimile che il merito, o il demerito di sì fatta azione dovesse in parte attribuirsi ai novelli convertiti. Nondimeno questa loro avversione si limitava ai soli monumenti della superstizione pagana, nè colpa eravi, o scandalo nel conservare gli edifizj che servivano agli affari, o ai diletti della società. Inoltre, la nuova religione pose in Roma la sua dimora, non per effetto di un popolare tumulto, ma pe' decreti degl'Imperatori e del Senato, e per le leggi di quella età. Fra tutti gl'individui, di cui la Cristiana gerarchia andava composta, i Vescovi di Roma furono comunemente i più saggi e i meno fanatici, e sarebbe certamente ingiustizia l'accusarli dell'azione meritoria di avere salvato il Pantheon405 per impiegare al servigio della religione questo maestoso edifizio.
III. Il valore di ciascuna cosa che serve ai bisogni della specie umana è composto della sua sostanza e della sua forma, della materia e della manifattura. Il prezzo di essa dipende dal numero di quelli che la possono comperare, dalla estensione del mercato, e quindi dalla facilità maggiore o minore di trasportarla al di fuori, giusta e la natura stessa di questa merce, e la sua situazione locale, e le congiunture passeggiere di questo Mondo. I Barbari che s'impadronirono di Roma, usurparono in un istante i lavori di parecchie generazioni; ma eccetto le cose atte ad una immediata consumazione, non dovettero eccitare la lor cupidigia tutte quelle che non poteano trasportarsi o sul carriaggio de' Goti, o sul navilio de' Vandali406. L'oro e l'argento furono i primi soggetti della costoro avidità, perchè in ciascun paese, e sotto il minor volume possibile, procurano la più considerabile quantità delle proprietà e del lavoro degli altri. La vanità di un Capo di Barbari attribuisce forse prezzo ad un vaso, o ad una statua foggiati con questi preziosi metalli; ma la moltitudine, più grossolana, si affeziona alle sostanze, senza pensare alla forma; nè v'ha dubbio che, generalmente parlando, il metallo non sia stato fuso in verghe, o convertito in monete battute col conio dell'Impero. Agli scorridori meno operosi, o meno felici, non rimasero da portar via che il rame, il piombo, il ferro, il bronzo; i tiranni greci s'impadronirono di tutto quanto sottratto erasi ai Goti e ai Vandali, e all'Imperatore Costante che nel visitar Roma a guisa di masnadiero tolse perfino le piastre di bronzo che coprivano il Pantheon407. Gli edifizj di Roma poteano per vero venire considerati siccome una vasta miniera, che diversi e variati materiali somministrava; il primo lavoro, quello di scavarli dalle viscere della terra, era già fatto; inoltre, i metalli già purificati e gettati in forma; i marmi segati e ridotti a pulimento; e dopo aver soddisfatto la cupidigia degli stranieri, i resti della città, se si fosse trovato un compratore, rimanevano tuttavia buone materie di vendita. Erano stati denudati de' preziosi lor fregi i monumenti dell'Antichità, ma i Romani si mostravano propensi a demolire, eglino stessi, gli archi di trionfo e le mura, semprechè in ciò vedessero un guadagno maggiore delle spese del lavoro e del trasporto. Se Carlomagno avesse posta la residenza dell'Impero d'Occidente in Italia, lungi dal por mano agli edifizj de' Cesari, il genio di questo Monarca avrebbe fatto che aspirasse ad esserne il restauratore; ma poichè fini politici il rattennero tra le germane foreste, non potè soddisfare l'amor suo per le Arti, che dando ultima opera alla devastazione, e trasportando i marmi di Ravenna408 e di Roma409, nuovo ornamento al palagio che edificò in Aquisgrana. Cinque secoli dopo Carlomagno, Roberto, Re di Sicilia, il più saggio e colto Sovrano del suo secolo, si procacciò nello stesso modo, per aggiunger pregio alle proprie fabbriche, i materiali, che gli vennero facilmente condotti per la via del Tevere e del Mediterraneo, onde il Petrarca doleasi con indignazione che l'antica Capitale del Mondo terminasse da sè medesima di denudarsi per nudrire l'insolente lusso di Napoli410. Però i saccheggi, o le vendite de' marmi e delle colonne non furono comuni nel Medio Evo: e il popolo di Roma, superiore in ciò a qualunque altro popolo, avrebbe potuto valersi degli antichi edifizj ne' suoi bisogni pubblici o particolari; ma la situazione e la forma di questi stessi edifizj li rendea sotto molti aspetti inutili alla città e a' suoi abitanti. Ben la stessa di prima era la circonferenza delle mura; ma non il luogo della città, discesa dai Sette Colli nel campo di Marte, onde molti di que' famosi monumenti, che disfidavano le ingiurie de' secoli, trovavansi lungi dalle abitazioni, e poco meno che in un deserto. I palagi delle famiglie consolari non convenivano più ai costumi o alla condizione degli incliti lor successori; perduto erasi l'uso de' bagni e de' portici411; i giuochi del teatro, del circo, dell'anfiteatro disparvero dopo il sesto secolo; alcuni templi vennero adatti all'uso della religion dominante; ma generalmente veniva preferita per le chiese cristiane la forma di croce; e l'usanza, o un ragionevole calcolo, aveano determinato un particolare modello per le celle e gli edifizj de' chiostri, il cui numero si moltiplicò a dismisura sotto il reggimento ecclesiastico. La città conteneva quaranta monasteri d'uomini, venti di donne, sessanta Capitoli e collegi di canonici e di preti412, che aumentavano, anzichè ristorarla, la spopolazione del decimo secolo. Ma se le forme dell'antica architettura vennero disdegnate da una popolazione che non sapea nè prevalersene, nè sentirne i pregi, non può dirsi così degli abbondanti materiali, che questa architettura somministrava, e che i Romani volsero a profitto de' lor bisogni o della loro superstizione; le più belle colonne d'Ordine ionico e d'Ordine corintio, i più preziosi marmi di Numidia e di Paro, vennero condannati a essere puntelli or d'un convento, or di una stalla. Le devastazioni che tuttodì non perdonano i Turchi alle città della Grecia e dell'Asia, ne porgono un esempio di quanto faceano a que' giorni i Romani. In questa progressiva distruzione de' monumenti di Roma, il solo devastatore meritevole di scusa è Sisto V, che al grandioso edifizio di S. Pietro adoperò le pietre del Settizzonio413. Un frammento, una rovina, comunque tronchi, comunque profanati, possono ancora destare un sentimento soave di patetica rimembranza; ma la maggior parte dei marmi (non bastò alla barbarie sformarli) vennero distrutti, ed arsi per trarne calce. Il Poggi, dopo il suo arrivo in Roma, avea veduto sparire il tempio della Concordia414, e molti altri grandi edifizj; e un epigramma scritto a que' giorni annunzia una giusta e rispettabil paura, che continuando di quel tenore, si sarebbero alla perfine annientati tutti i sacri monumenti della veneranda Antichità415. I bisogni e i guasti operati dai Romani ebbero termine sol perchè la loro popolazione scemò. Il Petrarca, trasportato dalla sua immaginazione, ha potuto assegnare a Roma una maggiore quantità d'abitanti che non contenea416, e però duro fatica a credere che anche nel secolo decimoquarto vi fossero più di trentatremila abitanti. Se da quell'epoca, venendo al Regno di Leone X, si aumentarono ad ottantacinquemila417, non dubito che tale accrescimento non sia stato alla città antica funesto.
IV. Ho serbato a trattare per l'ultima la più possente fra le cagioni di distruzione, le guerre intestine di Roma. Sotto il dominio degl'Imperatori greci e francesi, la pace della città venne turbata da frequenti, ma passeggiere sedizioni. Sol declinando la autorità de' successori di Carlomagno, vale a dire nei primi anni del decimo secolo, trovasi la data di quelle guerre particolari, la cui licenza, violando impunemente le leggi del codice e del Vangelo, nè rispettò la maestà del Sovrano assente, nè la persona del Vicario di Gesù Cristo presente. Durante un oscuro periodo di cinque secoli, Roma fu perpetuamente dilaniata dalle sanguinose querele de' Nobili e del popolo, de' Ghibellini e de' Guelfi, degli Orsini e de' Colonna; ho descritto ne' due precedenti capitoli le cagioni e gli effetti di questi disordini pubblici, alcune particolarità de' quali sono sfuggiti alla conoscenza della Storia, altri non meritano che si porga ad essi attenzione. In questi tempi, ne' quali ogni disparere veniva risoluto colla spada, ne' quali niuno potea, per la sicurezza della sua vita, o delle sue proprietà, riposarsi sopra leggi prive di forza, i possenti cittadini si armavano or per assalire, or per respingere que' nemici che abborrivano, e di cui temevano l'odio. Eccetto Venezia, tutte le Repubbliche dell'Italia si trovavano alla medesima condizione; i Nobili si erano arrogato il diritto di fortificare le loro case, e d'innalzar salde torri418 e valevoli a resistere contro un assalto improvviso. Le città ringorgavano di munizioni da guerra; Lucca contenea cento torri, la cui altezza aveano limitata ad ottanta piedi le leggi, e seguendo una convenevole proporzione, possono applicarsi le stesse singolarità agli Stati più ricchi e più popolosi. Allorchè il Senatore Brancaleone volle rimettere in vigore la giustizia e la pace, ebbe per prima cura, il dicemmo, di demolire cenquaranta delle torri che vedevansi in Roma, e negli ultimi giorni dell'anarchia e della discordia, sotto il regno di Martino V, uno de' tredici o quattordici rioni della città, ne contava ancora quarantaquattro. Sfortunatamente, erano, oltre ogni credere, accomodati ad uso sì pernizioso gli avanzi della Antichità; i templi e gli archi trionfali offerivano una base larga, e salda, quanto facea mestieri, a sostenere i nuovi baloardi di mattoni e di sassi; citerò ad esempio le torri che furono innalzate sugli archi di trionfo di Giulio Cesare, de' Titi e degli Antonini419. Vi voleano pochi cambiamenti per trasformare un teatro, un anfiteatro, o un mausoleo, in una forte ed ampia rocca. Non n'è d'uopo il ripetere che dal molo di Adriano si fece sorgere il castel Sant'Angelo420. Il Settizonio di Severo fu in istato di resistere all'esercito di un Sovrano421. Il sepolcro di Metella è sparito sotto le fortificazioni di cui venne gravato422; i Savelli e gli Orsini occuparono i teatri di Pompeo e di Marcello423; le informi Fortezze costrutte su questi edifizj, hanno a mano a mano acquistato il lustro e l'eleganza degl'italiani palagi. Le stesse chiese vennero cinte d'armi e di spalti, e le macchine da guerra collocate sul comignolo della chiesa di S. Pietro, atterrivano il Vaticano e il cristiano Mondo scandalezzavano. Ogni luogo fortificato è soggetto ad assalto, e quanto viene assalito, a distruzione. Se i Romani fossero riusciti a torre ai Pontefici il Castel Sant'Angelo, avrebbero annichilato questo monumento di servitù, come con un pubblico decreto era stata manifestata la loro deliberazione. Ciascuna piazza vedea esposti in un solo assedio al pericolo di essere atterrati tutti gli edifizj innalzati per sua difesa; chè certo in ognuna di tali occasioni non si risparmiavano a questo fine nè espedienti, nè macchine struggitrici. Dopo la morte di Nicolò IV, Roma, priva di Sovrano e di Senato, si trovò per sei mesi abbandonata al furore delle guerre civili. «Le case, dice un contemporaneo, Cardinale e poeta424, rimasero rovinate sotto massi d'enorme grossezza, e lanciati con incredibile rapidità425; i colpi dell'ariete infransero le mura, le torri furono avvolte in mezzo a vortici di fuoco e di fumo, e l'avidità e il risentimento aizzavano l'ardore degli assedianti». La tirannide delle leggi compì l'opera della distruzione, e le diverse fazioni della Italia, abbandonandosi a cieche e sconsigliate vendette, spianarono a vicenda tutte le case e le castella de' loro avversarj426. Se pongonsi a confronto pochi giorni di straniere invasioni e secoli d'intestine guerre, non cadrà dubbio sul quanto le ultime sieno state alla città di Roma esiziali; a sostegno della quale opinione mi viene all'uopo citare il Petrarca. «Vedete, egli dice, questi avanzi che attestano l'antica grandezza di Roma! Nè il tempo, nè i Barbari superbir possono di una tanto incredibile distruzione; è forza attribuirla agli stessi cittadini di Roma, ai più illustri fra' suoi figli; e i vostri antenati (egli scrivea ad un Nobile della famiglia Annibaldi) compierono coll'ariete quel che l'Eroe Cartaginese non potè colla spada de' suoi guerrieri427». La preponderanza di quest'ultima cagione aumentò il danno con azione reciproca, perchè la rovina delle case e delle torri che la guerra civile atterrava, costringeva continuamente i cittadini a procacciarsi dai monumenti dell'Antichità i materiali per novelli edifizj di distruzione.
1. Monaldeschi (Ludovici Boncomitis), Fragment. Annalium roman. (A. D. 1328), in Scriptores rerum italicarum del Muratori, t. XII, p. 525. N. B. La fiducia che può essere inspirata da questo fragmento, viene alquanto diminuita da una singolare interpolazione mediante cui l'Autore racconta la sua propria morte, accaduta quando compieva il centoquindicesimo anno.
2. Frammenta Historiae romanae (vulgo Thomas Fortifiocca, in romana Dialecto vulgari) A. D. 1327-1354, nel Muratori (Antiquit. med. aevi ital., t. III, p. 247-548), base autentica della Storia del Rienzi.
3. Delphini (Gentilis) Diarium romanum (A. D. 1370-1410) in Rerum italic., etc. t. III, part. II, p. 846.
4. Antonini (Petri), Diarium romanum (A. D. 1404-1417) t. XXIV, p. 969.
5. Petroni (Pauli) Miscell. historica romana (A. D. 1433-1446), t. XXIV, p. 1101.
6. Volaterrani (Jacob), Diarium rom. (A. D. 1472-1484), t. XXIII, p. 81.
7. Anonymi Diarium urbis Romae (A. D. 1481-1492), t. III, part. I, II, p. 1069.
8. Infessura (Stephani), Diarium romanum (A. D. 1294, 1378-1494), t. III, part. II, p. 1109.
9. Historia arcana Alexandri VI, sive excerpta ex Diario Joh. Burcardi (A. D. 1492-1503) edit. a Godefr. Gulielm. Leibnizio, Hanov. 1897, in 4. I manoscritti che si trovano nelle diverse Biblioteche dell'Italia e della Francia possono giovare a compire la grande e preziosa Opera del Burcardo, (Foncemagne, Mém. de l'Acad. des Inscript., t. XVII, p. 597-606).
Eccetto l'ultima Opera, questi frammenti e giornali si trovano nella Raccolta del Muratori, mia scorta e mio maestro nella Storia d'Italia. Il Pubblico gli debbe in ordine a ciò: 1. Rerum italicarum Scriptores (A. D. 500-1500) quorum potissima pars nunc primum in lucem prodit, etc., 28 vol. in fol., Milano, 1723-1738-1751. Rimangono a desiderarsi un soccorso di tavole cronologiche ed alfabetiche che servano di chiave a questa grand'Opera, tuttavia in disordine e in uno stato difettoso. 2. Antiquitates Italiae medii aevi, 6 volumi in fol.; Milano, 1738-1743, in settantacinque Dissertazioni piene d'interesse su i costumi, il governo, la religione ec. degli Italiani del Medio Evo con un supplimento considerabile di chirografi, cronache, ec. 3. Dissertazioni sopra le Antichità italiane, 3 vol. in 4; Milano, 1751, traduzione in italiano dell'Opera precedente, eseguita dal medesimo Autore, e che per essere citata merita la stessa fiducia del testo latino Antiquitates. 4. Annali d'Italia, 18 volumi in 8; Milano, 1753-1756, compilazione arida, ma esatta ed utile della Storia d'Italia, dopo la nascita di Gesù Cristo fino alla metà del secolo XVIII. 5. Delle Antichità Estensi ed Italiane, 2. vol. in fol.; Modena, 1717-1740. Nella Storia di questa nobile famiglia d'ond'escono gli attuali Re d'Inghilterra, il Muratori non si è lasciato trasportare dalla fedeltà e dalla gratitudine che, come suddito, doveva ai Principi della Casa d'Este. In tutte le sue Opere si manifesta scrittore laborioso ed esatto, e cerca sollevarsi al di sopra de' pregiudizj ordinarj ad un prete. Nato nel 1672, morì nel 1750, dopo avere trascorsi circa 60 anni nelle Biblioteche di Milano e di Modena. Vita del Proposto Ludovico Antonio Muratori, scritta da Gian Francesco Soli Muratori, nipote e successore del medesimo. Venezia, 1756, in 4.
Littore Etrusco violenter undis,
Ire dejectum monumenta regis
Templaque Vestae.
(Hor. Carm. l. I, od. II).
Se il palagio di Numa e il tempio di Vesta furono atterrati ai giorni di Orazio, quella parte de' ridetti edifizj che fu consumata dall'incendio di Nerone, come potea mai meritare gli epiteti di vetustissima o d'incorrupta?
Ad quae marmoreas proestabat ROMA columnas,
Quasdam praecipuas pulchra Ravenna dedit.
De tam longinqua poterit regione vetustas
Illius ornatum Francia ferre tibi.
E aggiugnerò, secondo la Cronaca di Sigeberto (Histor. de France, t. V, p. 378), extruxit etiam Aquisgrani Basilicam plurimae pulchritudinis, ad cujus structuram a ROMA et Ravenna columnas et marmora devehi fecit.
Oblectat me, Roma, tuas spectare ruinas;
Ex cujus lapsu gloria prisca patet.
Sed tuus hic populus muris defossa vetustis
Calcis in obsequium, marmora dura coquit;
Impia tercentum si sic gens egerit annos
Nullum hinc indicium nobilitatis erit.
Hoc dixisse sat est, Romam caruisse senatu
Mensibus exactis heu sex; belloque vocatum (probabilmente vocatos)
In scelus in socios fraternaque vulnera patres,
Tormentis jecisse viros immania saxa;
Perfodisse domus trabibus, fecisse ruinas
Ignibus; incensas turres, obstructaque fumo
Lumina vicino, quo sit spoliata supellex.
Nec te parva manet servatis fama ruinis
Quanta quod integrae fuit olim gloria Romae
Reliquiae testantur adhuc; quas longior aetas
Frangere non valuit, non vis aut ira cruenti
Hostis, ab egregiis franguntur civibus heu! heu!
Quod ille nequivit (Hannibal)
Perficit hic aries.