Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 5», sayfa 5
Un istorico di quel tempo celebra lo splendore e la grandezza di questa guerra Gotica148; ma l'evento di essa appena merita l'attenzione della posterità, qualora non voglia risguardarsi come un passo preliminare dell'imminente decadenza e rovina dell'Impero. In cambio di condurre le nazioni della Germania e della Scizia alle rive del Danubio, o anche alle porte di Costantinopoli, il vecchio Monarca dei Goti rassegnò al bravo Atanarico il pericolo e la gloria d'una guerra difensiva contro un nemico che maneggiava con debole destra le forze d'un grande stato. Fu eretto un ponte di barche sopra il Danubio; la presenza di Valente animava le sue truppe; e la sua ignoranza nell'arte della guerra veniva compensata in esso dalla personal bravura, e da una savia deferenza ai consigli di Vittore e d'Arinteo, suoi Generali di cavalleria e d'infanteria. Le operazioni della campagna regolate furono dalla loro abilità ed esperienza; ma fu loro impossibile di trarre i Visigoti dai forti posti delle montagne; e la devastazione delle pianure obbligò i Romani medesimi a ripassare il Danubio all'approssimarsi dell'inverno. Le continue piogge che fecer gonfiare le acque del fiume, produssero una tacita sospension di armi, e confinarono l'Imperator Valente in tutta la seguente state nel suo campo di Marcianopoli. Il terzo anno della guerra fu più favorevole pe' Romani, e dannoso pe' Goti. L'interrompimento del commercio privò i Barbari degli oggetti di lusso, che essi già confondevano con le necessità della vita, e la desolazione d'un molto esteso tratto di paese gli minacciava degli orrori della carestia. Atanarico fu provocato o costretto ad arrischiare una battaglia, che ei perdè, nella pianura; e la crudel precauzione dei vittoriosi Generali, che avevano promesso un grosso premio per la testa di ogni Goto, che portata fosse nel campo Imperiale, rendè più sanguinosa la caccia dei vinti. La sommissione dei Barbari quietò lo sdegno di Valente e del suo consiglio; l'Imperatore diede orecchio con piacere all'adulatrice ed eloquente rimostranza del Senato di Costantinopoli, che per la prima volta ebbe parte nelle pubbliche deliberazioni; ed i medesimi Generali Vittore ed Arinteo, che avean felicemente diretta la condotta della guerra, ebbero la facoltà di regolare le condizioni della pace. La libertà del commercio, che i Goti avevano fin allora goduta, fu ristretta a due sole città sul Danubio; fu severamente punita la temerità dei lor Capi con la soppressione delle pensioni e dei sussidi che ricevevano; e l'eccezione che fu stipulata in favore del solo Atanarico, fu più vantaggiosa che onorevole al Giudice dei Visigoti. Atanarico, il quale sembra che in quest'occasione consultasse il suo privato interesse senza aspettar gli ordini del Sovrano, sostenne la propria dignità e quella della sua tribù nel personal congresso, che fu proposto dai Ministri di Valente. Ei persistè nella dichiarazione, che era impossibile per lui senza incorrere nella colpa di spergiuro, il porre mai piede sul territorio dell'Impero; ed è più che probabile che il riguardo, che aveva per la santità del giuramento, fosse confermato dai recenti e fatali esempi della Romana perfidia. Fu scelto il Danubio che separava i dominj delle due indipendenti nazioni, per luogo della conferenza. L'Imperator d'Oriente ed il Giudice dei Visigoti, accompagnati da un ugual numero di loro seguaci armati, s'avanzarono nei respettivi loro battelli fino alla metà del fiume. Dopo la ratifica del trattato e la consegna degli ostaggi, Valente tornò in trionfo a Costantinopoli, ed i Goti rimaser tranquilli circa sei anni, finchè a forza non furono spinti contro l'Impero Romano da un'innumerabile armata di Sciti, che sboccarono dalle gelate regioni del Norte149.
L'Imperator d'Occidente, che aveva lasciato al fratello il comando del basso Danubio, riservò immediatamente a se stesso la difesa delle Province Retiche e Illiriche, che per tante centinaia di miglia estendevansi lungo il maggior fiume dell'Europa. L'attiva politica di Valentiniano era continuamente occupata in aggiunger nuove fortificazioni alla sicurezza della frontiera; ma l'abuso di tal politica provocò il giusto risentimento dei Barbari. I Quadi si dolsero che era stato preso dal lor territorio il suolo per una fortezza che si meditava di fare; e sostennero con tanta ragione e moderatezza le loro querele, che Equizio, Generale dell'Illirico, acconsentì a sospendere il proseguimento dell'opera, finattanto che fosse più chiaramente informato del volere del suo Sovrano. Questa bella occasione di far ingiuria a un rivale, e di avanzare la fortuna del proprio figlio, fu ardentemente abbracciata dal crudele Massimino, Prefetto o piuttosto tiranno della Gallia. Le passioni di Valentiniano non soffrivan opposizioni; ed egli prestò con credulità orecchio alle assicurazioni del suo favorito, che se fosse affidato allo zelo di Marcellino, suo figlio, il governo di Valeria e la direzione dell'opera, l'Imperatore non sarebbe stato più importunato dalle audaci rimostranze dei Barbari. I sudditi di Roma ed i nativi della Germania furono insultati dall'arroganza d'un giovane e indegno Ministro, che risguardava la rapida sua elevazione come la prova ed il premio del sublime suo merito. Egli affettò, per altro, d'ammettere la modesta istanza di Gabino, Re de' Quadi, con attenzione e riguardo: ma quest'artificiosa cortesia celava un oscuro e sanguinario disegno, ed il credulo Principe s'indusse ad accettare il premuroso invito di Marcellino. Io non so come variare la narrazione di delitti fra loro simili, o come riferire che nel corso d'un medesimo anno, ma in diverse lontane parti dell'Impero, l'inospita mensa di due Comandanti Imperiali fosse macchiata dal regio sangue di due ospiti ed alleati, crudelmente uccisi per ordine ed in presenza di essi. L'istesso fu il destino di Gabinio e quello di Para; ma in maniera molto diversa la crudel morte del Sovrano si risentì dalla servil indole degli Armeni e dal libero ed audace spirito dei Germani. I Quadi erano essi, in vero, assai scaduti da quel formidabil potere, che al tempo di Marco Antonino aveva sparso il terrore fino alle porte di Roma. Essi però avevano sempre armi e coraggio; questo fu animato dalla disperazione, ed ottennero il solito rinforzo di cavalleria dai Sarmati, loro alleati. Il perfido Marcellino fu tanto imprudente che scelse il momento, nel quale i veterani più bravi erano stati mandati a sopprimere la ribellione di Firmo; e tutta la Provincia era esposta con una debol difesa al furore dei Barbari esacerbati. Essi invasero la Pannonia nel tempo della raccolta; senza compassione distrussero tutto ciò che facilmente non potevano trasportare; e disprezzarono o demolirono le vuote fortificazioni. Alla Principessa Costanza, figlia dell'Imperator Costanzo, e nipote del gran Costantino, assai difficilmente riuscì di fuggire. La regia fanciulla che innocentemente avea sostenuta la ribellione di Procopio, era in quel tempo destinata per moglie all'Erede dell'Impero Occidentale. Traversava essa con uno splendido e non armato corteggio quella Provincia creduta pacifica. E la persona di lei fu salvata dal pericolo, ugualmente che la Repubblica dal disonore, mediante l'attivo zelo di Messala, Governatore di quelle Province. Appena egli seppe che il villaggio, dove ella s'era fermata per desinare, era quasi circondato dai Barbari, la pose in fretta sul proprio cocchio, e corse velocemente finchè giunse alle porte di Sirmio, che era distante ventisei miglia. Neppur questa città sarebbe stata sicura, se i Quadi ed i Sarmati si fossero speditamente avanzati, mentre i Magistrati del popolo erano in una generale costernazione. Il loro indugio concesse a Probo, Prefetto del Pretorio, tempo abbastanza di riprendere animo egli stesso, e di ravvivare il coraggio dei cittadini. Egli abilmente diresse i loro valorosi sforzi per riparare e fortificare le cadenti muraglie; e procurò l'opportuna ed efficace assistenza d'una compagnia di arcieri, per proteggere la capitale delle Province Illiriche. Sconcertati nei tentativi, che fecero contro le mura di Sirmio, gli irritati Barbari voltaron le armi contro il Generale della frontiera, al quale ingiustamente attribuivano la morte del loro Re. Non poteva Equizio mettere in campo che due legioni; ma contenevano esse il veterano vigore delle truppe Mesie e Pannonie. La ostinazione con cui disputaron fra loro i vani onori della precedenza e del grado, fu causa della lor distruzione; e mentre agivano con forze separate e con differenti disegni, sorprese furono e trucidate dall'operoso vigore della Sarmata cavalleria. Il buon successo di quest'invasione provocò l'emulazione delle confinanti tribù; e si sarebbe infallibilmente perduta la Provincia della Mesia, se il giovane Teodosio, Duce o militar Comandante della frontiera, non avesse, nella disfatta del pubblico nemico, segnalato un intrepido genio, degno dell'illustre suo padre e della sua futura grandezza150.
Lo spirito di Valentiniano, che allora risedeva in Treveri, fu profondamente commosso dalle calamità dell'Illirico; ma la stagione avanzata sospese l'esecuzione de' suoi disegni fino alla primavera seguente. Mosse egli in persona, con una parte considerabile delle truppe della Gallia, dalle rive della Mosella; ed ai supplichevoli Ambasciatori dei Sarmati, che l'incontraron per viaggio, rispose dubbiosamente, che quando fosse giunto al luogo dell'azione, avrebbe esaminato e deciso. Arrivato a Sirmio, diede udienza ai Deputati delle Province Illiriche, i quali altamente gloriaronsi della loro felicità sotto il prospero governo di Probo, Prefetto del Pretorio151. Valentiniano, ch'era lusingato da tali dimostrazioni di fedeltà e di gratitudine, dimandò imprudentemente al Deputato dell'Epiro, che era un filosofo Cinico d'intrepida sincerità152, s'era egli stato inviato liberamente dai voti della Provincia? «Io son mandato (replicò Ificle) con lacrime e con lamenti da un popolo contro sua voglia». L'Imperatore s'arrestò: ma l'impunità de' suoi ministri fece stabilire la perniciosa massima che essi potevano opprimere i sudditi, senza offendere il servizio di lui. Una rigorosa ricerca sopra la loro condotta avrebbe medicato il pubblico disgusto. La severa condanna dell'uccisor di Gabinio era il solo mezzo che restituir potesse la confidenza dei Germani, e vendicar l'onore del nome Romano. Ma il superbo Monarca era incapace della magnanimità, che osa riconoscere una mancanza. Dimenticò egli la causa, solo si rammentò dell'ingiuria, e s'avanzò nel paese dei Quadi con un'insaziabile sete di vendetta e di sangue. Si giustificò agli occhi dell'Imperatore, e forse a quelli del Mondo l'estrema devastazione ed il promiscuo macello d'una barbara guerra dalla crudele equità delle rappresaglie153, e tale fu la disciplina dei Romani e la costernazione del nemico, che Valentiniano ripassò il Danubio senza la perdita d'un solo uomo. Siccome aveva egli risoluto di totalmente distruggere i Quadi in una seconda campagna, stabilì i suoi quartieri d'inverno a Bregezio sul Danubio, vicino alla città di Presburgo nell'Ungheria. Mentre il rigore della stagione teneva sospese le operazioni di guerra, i Quadi fecero un umile tentativo di mitigare il furor del vincitore; ed i loro Ambasciatori, alla premurosa persuasione d'Equizio, furono introdotti nel consiglio Imperiale. Accostaronsi al trono inchinati ed in aria dimessa; e senza neppure osar di dolersi della morte del loro Re, affermarono con solenni giuramenti, che l'ultima invasione era solo imputabile ad alcuni sregolati ladroni, dal consiglio pubblico della nazione condannati ed abborriti. La risposta dell'Imperatore lasciò ad essi ben poca speranza di clemenza o di pietà. Egli rinfacciò loro, col più intemperante linguaggio, la lor viltà, ingratitudine ed insolenza. Gli occhi, la voce, il colore, i gesti esprimevano la violenza dello sfrenato furore di lui. Mentre tutto il suo aspetto era agitato da una passion convulsiva, un grosso vaso sanguigno ad un tratto gli si ruppe nel petto; e Valentiniano cadde senza parola nelle braccia dei suoi famigliari. Essi ebbero immediatamente la cura di nasconder la sua situazione alla moltitudine: ma in pochi minuti l'Imperator d'Occidente spirò in un'agonia dolorosa, ritenendo fino all'ultimo i suoi sentimenti, e cercando inutilmente di esprimere le sue intenzioni ai Generali e Ministri che circondavano il reale suo letto. Valentiniano aveva circa cinquantaquattro anni; e non mancavano che cento giorni a compire i dodici anni del suo regno154.
Un istorico Ecclesiastico attesta seriamente la poligamia di Valentiniano155. «L'Imperatrice Severa (io riferisco la favola) ammise alla sua famigliar conversazione la bella Giustina, figlia d'un Governatore Italiano; ed espresse con sì grandi ed inconsiderate lodi la sua ammirazione di quelle nude bellezze, che aveva spesso vedute nel bagno, che l'Imperatore fu tentato d'introdurre una seconda moglie nel proprio letto; e con pubblico editto estese a tutti i sudditi dell'Impero l'istesso domestico privilegio, che aveva preso per se medesimo». Ma noi siamo assicurati dalla testimonianza della ragione e dell'Istoria, che i due matrimoni di Valentiniano con Severa e con Giustina furon contratti l'un dopo l'altro; e che ei si servì dell'antica permission del divorzio, che era sempre accordata dalle leggi, quantunque condannata dalla Chiesa. Severa fu madre di Graziano, il quale sembrò che riunisse in sè ogni diritto all'indubitata successione dell'Impero Occidentale. Egli era il figlio maggiore d'un Monarca, il glorioso regno del quale avea confermato la libera ed onorevol scelta dei suoi compagni soldati. Prima di giungere all'età di nove anni il regio fanciullo avea ricevuto dalle mani dell'indulgente suo padre la porpora ed il diadema col titolo d'Augusto; n'era stata solennemente confermata la scelta dal consenso ed applauso degli eserciti della Gallia156; ed erasi aggiunto il nome di Graziano a quelli di Valentiniano e di Valente in tutti gli atti legali del Governo Romano. Mercè del suo maritaggio con la nipote di Costantino, il figlio di Valentiniano acquistò tutti gli ereditari diritti della Famiglia Flavia, che in una serie di tre Imperiali generazioni s'erano confermati dal tempo, dalla religione, e dalla riverenza del popolo. Alla morte del padre il giovane reale aveva l'età di diciassette anni; e già le sue virtù giustificavano la favorevole opinione del popolo e dell'esercito. Ma Graziano si trovava senza timore nella reggia di Treveri, allorchè alla distanza di molte centinaia di miglia Valentiniano subitamente morì nel campo di Bregezio. Le passioni che sì lungo tempo erano state soppresse dalla presenza d'un dominante, immediatamente si ravvivarono nel consiglio Imperiale; e l'ambizioso disegno di regnare in nome di un fanciullo fu posto artificiosamente in effetto da Mellobaude e da Equizio, che avevano per sè l'amore delle truppe Illiriche ed Italiane. Immaginarono essi i più onorevoli pretesti per rimuovere i Capi del popolo e le truppe della Gallia, che avrebber potuto sostenere i diritti del legittimo successore; e suggerirono con un ardito e decisivo passo la necessità di estinguere le speranze dei nemici sì domestici che stranieri. L'Imperatrice Giustina, che era restata in un palazzo circa cento miglia lontano da Bregezio, fu rispettosamente invitata a venire nel campo col figlio del morto Imperatore. Il sesto giorno dopo la morte di Valentiniano, il Principe fanciullo dell'istesso nome, che non aveva più di quattr'anni, fu mostrato nelle braccia della propria madre alle legioni, e coll'acclamazion militare solennemente investito dei titoli e delle insegne del potere supremo. La savia e moderata condotta dell'Imperator Graziano impedì a tempo gli imminenti pericoli d'una guerra civile. Accettò volentieri la scelta dell'esercito; dichiarò che avrebbe sempre risguardato il figlio di Giustina come fratello, non come rivale; e consigliò l'Imperatrice a stabilire col figlio di Valentiniano la sua residenza a Milano nella bella e pacifica provincia dell'Italia, mentre egli assumeva il più difficil comando delle regioni oltre le alpi. Graziano dissimulò il suo sdegno finattanto che potesse con sicurezza punire, o svergognare gli autori della cospirazione: e sebbene si diportasse con uniforme tenerezza e riguardo verso il suo infante collega, tuttavia nell'amministrazione dell'Impero occidentale confuse appoco appoco l'uffizio di tutore coll'autorità di Sovrano. Si esercitava il governo del Mondo Romano unitamente in nome di Valente e dei suoi due nipoti: ma il debole Imperator Orientale, che in questa dignità successe al suo fratello maggiore, non ebbe mai peso od ascendente veruno nei consigli dell'Occidente157.
RIFLESSIONI
D'IGNOTO AUTORE
SOPRA I CAPITOLI
XVII, XVIII, XIX, XX, XXI,XXII, XXIII, XXIV E XXV
DELLA STORIA DELLA DECADENZA
E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO
DI
EDOARDO GIBBON
DIVISE IN TRE LETTERE
DIRETTE
AI SIGG. FOOTHEAD E KIRK
INGLESI CATTOLICI
LETTERA I
So per lunga esperienza, che l'amore del vero, e lo zelo per la Santa Religione Cattolica, che vi siete obbligati con giuramento solenne di propagare nella Inghilterra, dove nasceste, prevalgon di molto in cuore vostro allo spirito di patriottismo: e però non temo di confessarvi, che quanto più mi vado inoltrando nella lettura della Storia Romana del vostro Gibbon, tanto meno mi sembra meritevole di quelle lodi, che io sull'altrui relazione in presenza vostra incautamente gli tributai. A me par di vedere nel Sig. Gibbon uno scrittore per verità elegante ed erudito; ma che ora vergognosamente si contraddice, ora dà per indubitati dei fatti di Storia Ecclesiastica; i quali se non sono falsissimi, sono almeno dubbi, e non bene decisi; e per l'opposto nega ed oscura i meglio autenticati e i più certi, e ciò sempre a danno ed avvilimento del partito Cattolico; mostrando sempre un indicibil dispregio dei Santi Padri, depositari fedeli e sostenitori indefessi di quei venerabili dogmi, che egli malamente conosce, e sfigura. Non è già intenzione mia di tener dietro al Sig. Gibbon in tutti i suoi traviamenti: se io lo facessi, vi stancherebbero le mie riflessioni per la moltitudine e la lunghezza, e vi priverei di quel piacere che si gusta nel rilevare da se medesimo gli sbagli degli uomini, che menan rumore nella Repubblica letteraria. Ne farò adunque quante possan bastare a porre in chiaro l'asserzion mia: e per quel che riguarda la prima parte di essa mi ristringo a S. Atanasio, a Giuliano l'Apostata, ed al carattere generale dei Cristiani dei loro tempi.
Ecco adunque come il Sig. Gibbon parla del primo. L'immortal nome di Atanasio non potrà mai separarsi dalla Dottrina Cattolica della Trinità. Quindi è, che essendo la causa di lui quella della verità, e della giustizia quella, io dico, della verità religiosa, il regno dell'Imperadore Costanzo restò infamato dalla ingiusta persecuzione del grande Arcivescovo intrepido campion della Fede Nicena, ed ospite venerando di Costantino il figlio, il quale colla decenza del suo contegno si conciliò l'affezione del Clero non men che del popolo: e rei pur furono di solenne ingiustizia quelli Ecclesiastici Giudici, che lo condannarono in Tiro.
Or se io dicessi, che noi possiam diffidare delle proteste di rispetto, che quell'istesso Atanasio faceva all'Imperatore Costanzo; che egli in quel modesto equipaggio, solito ad affettarsi dalla politica e dall'orgoglio, faceva le visite Episcopali; che Arsenio era un'immaginaria sua vittima e suo segreto amico; che egli sì abbondante di difese rispetto ad Arsenio medesimo ed al calice, lasciò la grave accusa di aver fatto battere, ed imprigionare sei Vescovi senza risposta; se io mettessi in forse, che la ragione fosse veramente dalla parte di Atanasio: se finalmente decidessi, che la differenza tra homoousion, ed homoiusion essendo quasi invisibile all'occhio Teologico più delicato, Atanasio mostrossi avido di fama ed attaccato dal contagio del fanatismo; neghereste voi mai, che io fossi oppostissimo di sentimento al Sig. Gibbon in riguardo a quel celebre Primate di Egitto? E come negarlo? Asserisce l'Autore, che il Clero deposto sotto Costanzo era Ortodosso, che la dottrina di Atanasio era Cattolica, che i Giudici di lui furono ingiusti; io per lo contrario direi, che buona parte di quella disputa fu più grammaticale che teologica, e che Atanasio fu ben fanatico a sacrificarsi se non per un dittongo, almeno per un vocabolo proibito dal Concilio d'Antiochia. Il Sig. Gibbon afferma, che il contegno di quel Santo era decente, ed attissimo a conciliarsi l'affetto universale: ed io in quel modesto equipaggio ravviserei l'orgoglio, la politica, e l'avidità della fama. Il Sig. Gibbon ripete sovente, che la giustizia e la verità, e per conseguenza la ragione assistevano la causa di Atanasio: io dubiterei se la ragione fosse veramente dalla sua parte: il Sig. Gibbon profonde per Atanasio luminosi titoli di grande, d'immortale, di venerando, io gli darei quelli di finto, di adulatore o di subdolo. Non valuto però molto quell'ultimo, perchè essendo lo stesso, che Venerabile, questo l'Autore lo trova benissimo conciliabile in S. Gregorio Nazianzeno con l'altro di stolto e di calunniatore158. Nell'esporvi la mia ipotesi non ho fatto altra cosa, che trascrivervi letteralmente le parole del Sig. Gibbon, che voi potete riscontrare nel libro. Vi sarà dunque facile il conchiudere, che il Sig. Gibbon è in opposizione con se medesimo.
Dovremo noi credere a questo A. nel primo caso o sibben nel secondo? Io per me voglio credergli assolutamente nel primo; perocchè il carattere, che ivi fa di Atanasio è conforme a quello, che fanno di lui il Tillemont ed i Monaci Benedettini: ed egli stesso m'insegna, che la diligenza del Tillemont e degli Editori Benedettini ha raccolto tutti i fatti ed esaminata ogni difficoltà concernente la vita del grande Atanasio: e mi maraviglio che dimenticatosi di una regola così giusta, tratti Gioviano d'adulatore, empio e stravagante per aver detto celestiali le virtù del S. Arcivescovo, ed averlo chiamato figura della Divinità159, e con una nuova opposizione con se medesimo non ammetta la delicatezza del Baronio, del Valesio, e precisamente del Tillemont nel rigettare l'aneddoto del rifugio di Atanasio in casa della bella vedova Alessandrina, indegno certamente della gravità della Storia Ecclesiastica, ingiurioso alla memoria di un Santo sì illustre, e forse inventato dal livor degli Arriani. Ma che volete aspettarvi di coerente da un Autore, il quale ad onta degli originali ed autentici monumenti, onde confessa esser giustificate le apologie e le lettere ai Monaci di Atanasio ha la stravaganza di dichiararsi di prestarvi minor fede: perchè egli troppo vi apparisce, innocente e troppo assurdi gli avversari di lui? Intanto con questo suo modo di pensare e di scrivere ci fa toccar con mano, come non vi ha assurdo delirio, di cui non sia capace un uomo preoccupato dallo spirito di religioso partito, o di una tolleranza sfrenata. Osservatelo più distintamente in Giuliano l'Apostata.
Già v'immaginerete, che egli debba esser l'Eroe del Sig. Gibbon, ed in sostanza è così. Erano inimitabili, dice egli, le virtù di Giuliano, ed il suo trono era la sede della ragione, della virtù, e forse della vanità, vanità, che il medesimo nostro Critico non si risovvenendo del forse chiama eccessiva. Io non istarò a discutere quale alleanza possa darsi tra la vera virtù e la vanità: Teologia sarebbe questa troppo sublime per uno che applaude ai Protestanti della Francia, della Germania, e dell'Inghilterra per aver sostenuta con l'armi la civile e religiosa lor libertà contro la teoria e la pratica costante dei primi Cristiani, e che giudica lo stesso Giuliano tollerabil Teologo sebben sostenga che Cristo è uomo puro, e che la Trinità non è dottrina nè di Paolo, nè di Gesù, nè di Mosè. Chiederò solo al Sig. Gibbon primieramente, se Giuliano costantemente, o spesso almeno si rammentava di quella fondamental massima di Aristotele, che la vera virtù si trova in ugual distanza fra gli opposti vizi? Ora ei mi risponde, che l'indole di Giuliano era di rammentarsene rare volte. Dunque il trono di lui non era la sede della ragione e della virtù, ed il Sig. Gibbon si contraddice160. Domando a voi in secondo luogo, se l'ingiustizia, l'ingratitudine, la mala fede, la leggerezza di naturale siano ragionevoli e virtuose? Una simile domanda ecciterà forse le vostre risa, e forse il vostro sdegno. Incolpatene il Sig. Gibbon: egli è che mi obbliga a farvela. Imperciocchè se la giustizia medesima parve che piangesse il fato di Ursulo tesorier dell'Impero, ed il suo sangue accusò l'ingratitudine di Giuliano, di cui si erano opportunamente sollevate le angustie dall'intrepida liberalità di quell'onesto Ministro; se l'Imperatore stesso restò profondamente colpito dai propri rimorsi per un attentato, che Ammiano (L. XX.) chiama impurgabile, o conviene ammettere un'ingiustizia ed una ingratitudine ragionevole e virtuosa, o d'uopo è confessare, che il trono di Giuliano non fu la sede della ragione e della virtù. Si obbligò ancora Giuliano con una promessa, che avrebbe dovuto esser sempre inviolabile, che se gli Egizi, i quali altamente richiedevano i doni fatti o illegittimamente o per imprudenza, fosser comparsi in Calcedonia, avrebbe ascoltato in persona, e decise le lor querele; ma intanto dal trono, che era la sede della ragione e della virtù, partì un ordine assoluto, che vietando di trasportare a Costantinopoli Egizio veruno, esausta la loro pazienza e il denaro, furono costretti a tornare con isdegnosi lamenti al nativo loro paese. Ma vi è di più. L'Imperatore, che occupava quel trono, sede della ragione e della virtù, sostenne l'ingiustizia di escludere i Cristiani da tutti gli uffizi di fedeltà e di profitto, maliziosamente rammentando loro, che non era lecito ad un Cristiano di usar la spada o della giustizia o della guerra, e dissimulando più che potè l'ingiustizia, che esercitavasi in nome di lui dai Ministri, (per quanta tara si debba fare all'espressioni degli Storici Ecclesiastici) esprimeva il suo real sentimento intorno alla loro condotta con dolci riprensioni e con reali premi e per finirla, quell'Imperatore medesimo leggiero di naturale ordinò senza prove, che fosse immediatamente eseguita la vendetta contro i Cristiani, ai quali un leggierissimo rumore imputava l'incendio del Tempio di Dafne. Con tutto ciò affinchè sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione della intera figura, bisogna guardare con minuta e forse malevola attenzione il ritratto di Giuliano, poichè ei cercò sempre di unire l'autorità con il merito, e la felicità colla virtù.
Siccome questo giudizio intorno a Giuliano è espresso da Gibbon in un paragrafo a parte, il quale ha per titolo (il suo carattere), però mi azzardai di asserire, che questo Imperatore è il suo Eroe. Non lo è per altro del Mosheim dottissimo Protestante ancor esso. Fate di grazia il confronto di questi giudizi: «Per collocare (dice questo Scrittore, Storia Eccl. Sec. I. part. n. 13.) Giuliano tra i più grandi uomini, conviene essere od acciecato all'eccesso dai propri pregiudizi, o non aver letto giammai con attenzione le opere di lui, o non aver finalmente alcuna giusta idea della vera grandezza. Il carattere di Giuliano presenta pochi di quei tratti, che contraddistinguono un uomo grande… Egli era superstizioso all'eccesso; prova ben chiara di un intelletto limitato e di uno spirito basso e superficiale… Aggiungete a ciò l'ignoranza la più perfetta della vera filosofia, e giudicate se Giuliano quand'anche fosse superiore in alcuna cosa ai figli di Costantino, non è però al di sotto di Costantino medesimo ad onta delle ingiurie con cui l'opprime, e del disprezzo che ne mostra in qualsivoglia occasione». Voi forse potrete dirmi, letta che avrete la storia del Sig. Gibbon, che ancora egli confessa essere stato Giuliano credulo all'arte divinatoria quant'altri mai, dissimulatore solenne in fatto di Religione, per una strana contraddizione avere sdegnato il giogo salutare del Vangelo, mentre fece una volontaria offerta di sua ragione sugli altari di Giove e di Apollo e preferì gli Ancili alla Croce, essersi per fine avvilito con le visioni e coi sogni e con una superstizione che pose in pericolo la sorte dell'Impero Romano. Che se è così, perchè dunque per una più strana contraddizione asserire che inimitabili furono le virtù di Giuliano, e che bisogna riguardare con minuta, e forse con malevola attenzione il ritratto di lui, affinchè sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione dell'intera figura? O fidatevi del Sig. Gibbon, quando si tratta di formare i caratteri! Finisco con fare una osservazione di quello, che ei fece in generale delle Sette Cristiane, cioè di quegli ostili Settari, che prendevano i nomi di Ortodossi e di Eretici; ai quali la nostra tranquilla ragione, a suo dire, imputerà un uguale, o almeno «non molto diversa dose di bene e di male … poichè sì dall'una che dall'altra parte poteva esser lo sbaglio innocente, la fede sincera, la pratica meritoria o corrotta». Qui sicuramente si parla degli Atanasiani od Omousiani, e degli Arriani loro avversari. Ma questi servironsi per ripetute confessioni del Sig. Gibbon dell'ambiguità dell'ingegnosa malizia, di una squisita malignità dell'inganno, dei destri maneggi, dell'arte sofistica; questi, che al Concilio di Tiro avevan segretamente determinato di fare apparir delinquente, e di condannare il lor nemico Atanasio, procurarono di mascherare la loro INGIUSTIZIA coll'imitazione della forma giudiciaria. Questi, opponendosi alla causa di Atanasio, opponevansi ancora alla Fede Nicena, di cui egli era il campione, ed alla verità religiosa. Ed in uomini di tal tempra poteva esser lo sbaglio innocente, la fede sincera? E questo non è un contraddirsi, ed un abusarsi della pazienza d'un onorato lettore?