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Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8», sayfa 12

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Un nuovo spirito di legislazione, rispettabile perfino ne' suoi errori, sorse nell'Impero insieme colla religione di Costantino393. Le leggi di Mosè furono ricevute come il divino modello della giustizia, ed i Principi cristiani adattarono i loro statuti penali ai gradi di turpitudine morale e religiosa. L'adulterio fu da principio dichiarato un delitto capitale; la fralezza dei sessi fu assimilata al veneficio od all'assassinio, all'ammaliamento od al parricidio; le stesse pene furono applicate alla pederastia attiva e passiva; e tutti i colpevoli, sì di condizione libera che di servile furono o annegati o decapitati o gettati vivi fra le fiamme vendicatrici. La comune simpatia degli uomini risparmiò gli adulteri; ma gli amatori del proprio sesso si videro perseguitati da una generale e pia indegnazione. Gli impuri costumi della Grecia prevalevano tuttavia nelle città dell'Asia, ed ogni vizio era fomentato dal celibato de' monaci e del clero. Giustiniano rallentò il castigo almeno delle donne infedeli; la sposa colpevole non venne più condannata che alla solitudine ed al pentimento, ed in capo a due anni ella poteva esser richiamata tra le braccia di un marito commosso a perdonare. Ma lo stesso Imperatore si mostrò l'implacabil nemico della libidine contra natura, e la crudeltà della sua persecuzione appena può trovare scusa nella purità de' motivi394. Infrangendo ogni principio di giustizia, egli estese ai passati come ai futuri errori l'effetto de' suoi editti, non concedendo che un breve intervallo per confessarsene e riceverne il perdono. Penosamente si facea morire il reo con l'amputazione dello strumento del peccato, o coll'inserimento di pungenti canne ne' pori e ne' tubi più squisitamente sensivi; e Giustiniano difendeva la proprietà del supplizio col dire che a' delinquenti si sarebbero troncate le mani, se fossero stati convinti di sacrilegio. In un sembiante stato di onta e di agonia, due vescovi, Isaia di Rodi, e Alessandro di Diospoli, furono trascinati per le contrade di Costantinopoli, mentre un banditore ad alta voce ammoniva i loro confratelli ad osservare quella terribil lezione, ed a non contaminare la santità del loro carattere. Que' prelati erano forse innocenti. Una sentenza di morte e d'infamia spesso non avea per fondamento che la debole e sospetta testimonianza di un fanciullo o di un servo: i giudici presumevan rei que' della fazion verde, i ricchi, ed i nemici di Teodora, e la pederastia divenne il delitto di coloro a cui non se ne poteva opporre alcun altro. Un filosofo francese395 ha con ardire osservato, che tutto ciò che è secreto sta ravvolto nel dubbio, e che la tirannide può convertire in suo stromento quell'orrore che naturalmente al vizio portiamo. Ma la favorevole persuasione in cui è lo stesso scrittore, che un legislatore possa fidare nel buon gusto e nella ragione degli uomini, ha pur troppo contro di sè tutto quanto sappiamo dell'antichità o dell'estensione del male396.

I liberi cittadini di Atene e di Roma godevano in tutti i casi criminali l'inestimabile privilegio di essere giudicati dalla patria loro397. I. L'amministrazione della giustizia è il più antico uffizio di un Principe: i Re di Roma l'esercitarono, e Tarquinio ne abusò: egli solo, senza legge o consiglio, proferiva la sua arbitraria sentenza. I primi Consoli succederono a questa regale prerogativa: ma il sacro diritto di appello tosto abolì la giurisdizione de' magistrati, e tutte le cause pubbliche furono decise dal supremo tribunale del popolo. Ma una rozza democrazia, che si aderge sopra le forme, troppo spesso disdegna gli essenziali principj della giustizia. L'orgoglio dal dispotismo fu invelenito dall'invidia plebea, e gli eroi di Atene poterono alle volte invidiare la felicità de' Persiani il cui destino non dipendeva che dal capriccio di un solo tiranno. Alcuni salutari freni che il Popolo impose alle proprie passioni, furono ad un tempo stesso la cagione e l'effetto della gravità e della moderazione dei Romani. Ai soli magistrati fu compartito il diritto di accusa. Un voto di trentacinque tribù poteva infliggere una multa; ma l'inquisizione di tutti i delitti capitali con una legge fondamentale fu riserbata all'assemblea delle centurie, ove il peso dell'influenza e della proprietà doveva infallibilmente preponderare. S'interposero manifesti ed aggiornamenti iterati, affinchè la preoccupazione ed il risentimento avessero agio a calmarsi. Un augurio giunto in buon tempo, l'opposizione di un tribuno potevano annullare tutto il processo, e quelle informazioni avanti il popolo erano comunemente meno formidabili all'innocenza che favorevoli al delitto. Ma tale unione del potere giudiziario e del legislativo lasciava in dubbio se l'accusato fosse assolto, o se ricevesse il perdono; e nella difesa di un illustre cliente gli oratori di Roma e di Atene rivolgevano i loro argomenti alla politica ed alla benevolenza, non meno che alla giustizia del loro sovrano. II. La cura di convocare i cittadini pel processo di ogni reo divenne sempre più difficile a misura che i cittadini ed i rei continuamente si moltiplicavano, onde si adottò il pronto spediente di delegare la giurisdizione del popolo ai magistrati ordinarj, ovvero ad inquisitori straordinarj. Nei primi tempi, furono rari ed accidentali questi giudizj. Nel principio del settimo secolo di Roma essi divenner perpetui: ogni anno si assegnava a quattro Pretori il potere di sedere in giudizio e giudicare le gravi offese di tradimento, di estorsione, di peculiato e di corruzione, e Silla aggiunse nuovi Pretori e nuovi esami per que' delitti che più direttamente intaccano la sicurezza degl'individui. Questi inquisitori preparavano e dirigevano il processo, ma essi non potevano che pronunciare le sentenze della pluralità dei giudici, i quali con qualche cecità e maggior pregiudizio furono paragonati ai Giurati inglesi398. Il Pretore formava ogni anno una lista di provetti e rispettabili cittadini che sostenessero queste importanti ma penose funzioni. Dopo molti dibattimenti costituzionali, essi vennero scelti in egual numero dal senato, dall'ordine equestre e dal popolo: se ne assegnavano quattrocentocinquanta per ogni questione, e sì differenti ruoli o decurie di giudici dovevano contenere i nomi di più migliaia di Romani, che rappresentavano la giudiciale autorità dello Stato. In ogni causa particolare, se ne traeva un numero sufficiente dall'urna, un giuramento ne affermava l'integrità; il modo di dire i suffragj ne assicurava l'indipendenza; il sospetto di parzialità era tolto dal reciproco diritto di ricusare che aveano l'accusato e l'accusatore; ed i giudici di Milone, colla rimozione di quindici per parte, furono ridotti a cinquanta ed una voce o tavoletta di assoluzione, di condanna o di presunzione favorevole399. III. Il pretore della città, nella sua giurisdizione civile, era veramente un giudice, e quasi un legislatore; ma tosto ch'egli avea prescritto l'azione della legge, spesso si riferiva a un delegato per la determinazione del fatto. Col crescere dei processi legali, il tribunale de' centumviri, a cui egli presiedeva, crebbe in riputazione ed in autorità. Ma sia ch'egli agisse solo, ovvero col parere del suo consiglio, si potevano affidare i più assoluti poteri ad un magistrato che ogni anno veniva scelto dalle voci del popolo. Le norme o le precauzioni della libertà hanno richiesto qualche spiegazione; l'ordine del dispotismo è semplice e senza vita. Avanti l'età di Giustiniano o forse di Diocleziano, le decurie de' giudici Romani erano scadute in un titolo vano; si poteva accettare o spiegar l'umile avviso degli assessori; ed in ogni tribunale la giurisdizione civile e la criminale erano amministrate da un solo magistrato, il quale era levato in carica o licenziato dal suo posto secondo il piacimento dell'Imperatore.

Un Romano, accusato di qualche delitto capitale, potea prevenire la sentenza della legge coll'esilio volontario o colla morte. Sinchè legalmente fosse provata la sua reità, se ne presumea l'innocenza, e la sua persona era libera: sinchè i voti dell'ultima Centuria fossero noverati e banditi, egli potea placidamente ritirarsi in una delle alleate città dell'Italia, della Grecia o dell'Asia400. Mediante questa morte civile, la sua vita e le sue sostanze erano salve, almeno pe' suoi figliuoli; ed egli poteva ancora viver felice in mezzo a qualunque godimento della ragione o de' sensi, se una mente avvezza all'ambizioso tumulto di Roma, era atta a sopportare l'uniformità ed il silenzio di Rodi o di Atene. Di un più ardito sforzo era d'uopo per sottrarsi alla tirannia de' Cesari; ma familiare erasi fatto questo sforzo per le massime degli Stoici, l'esempio de' più valorosi Romani ed i legali incoraggiamenti del suicidio. I corpi de' rei condannati erano esposti alla pubblica ignominia, ed i loro figliuoli, male più greve ancora, erano ridotti a povertà per la confiscazione de' loro beni. Ma se le vittime di Tiberio e di Nerone anticipavano il decreto del Principe o del Senato, il coraggio e la diligenza loro aveano per ricompensa l'applauso del Pubblico, i decenti onori della sepoltura, e la validità de' lor testamenti401. La raffinata avarizia e crudeltà di Domiziano pare ch'abbia tolto agl'infelici, che immolava, quest'ultima consolazione, ed essa fu negata anche dalla stessa clemenza degli Antonini. Una morte volontaria, che nel caso di un delitto capitale, avvenisse tra l'accusa e la sentenza, era reputata come la confessione della reità, e l'inumano fisco sequestrava le spoglie del trapassato402. Nondimeno i giuristi hanno sempre rispettato il diritto naturale che ha un cittadino di disporre della sua vita; e l'obbrobrio dopo morte, inventato da Tarquinio403 per frenare la disperazione de' suoi sudditi, non fu mai fatto rivivere od imitato da' tiranni che gli vennero dietro. Tutte le potestà di questo mondo hanno perduto il loro dominio sopra di colui ch'è deliberato a morire; nè il suo braccio esser può rattenuto, che dal religioso timore di uno stato avvenire. Virgilio ripone i suicidi tra gli sventurati, anzichè tra i colpevoli404; e le favole poetiche delle tenebre inferne non potevano seriamente influire sulla fede o sulla pratica del genere umano. Ma i precetti del Vangelo o della Chiesa hanno finalmente imposto una pia servitù agli animi de' Cristiani, condannandoli ad aspettare, senza lagnarsi, l'ultimo colpo della malattia o del carnefice.

Gli statuti penali occupano uno spazio assai piccolo ne' sessantadue libri del Codice e delle Pandette, ed in tutti i processi della giustizia, la vita o la morte di un cittadino vien determinata con meno di precauzione e d'indugio che non la più ordinaria questione di un contratto o di un'eredità. Questa singolare distinzione, benchè qualche cosa si voglia concedere all'urgente bisogno di difendere la pace della società, deriva dalla natura della giurisprudenza criminale e civile. I doveri che abbiam collo Stato sono semplici ed uniformi, la legge, per cui il reo vien condannato, è scritta, non sul bronzo o sul marmo, ma sulla coscienza di esso, e dalla testimonianza di un solo fatto, il suo delitto comunemente è provato. Ma infinite e varie sono le relazioni che abbiamo un coll'altro: le ingiurie, i beneficj, le promesse creano, annullano e modificano le nostre obbligazioni, e l'interpretazione dei contratti volontarj e de' testamenti, che dettati sono spesso della frode e dall'ignoranza, porge un lungo e faticoso esercizio alla sagacità del giudice. L'estensione del commercio e quella dello Stato moltiplicano le faccende della vita, e la residenza delle parti nelle distanti province dell'Impero, partorisce dubbj, dilazioni ed inevitabili appelli dal magistrato locale al supremo. Giustiniano, imperator Greco di Costantinopoli e dell'Oriente, era il successore, secondo la legge, del pastore Latino il quale avea piantato una colonia sulle rive del Tevere. In un periodo di tredici secoli, le leggi aveano con ripugnanza seguito le mutazioni del governo e de' costumi; ed il lodevole desiderio di conciliare i nomi antichi colle istituzioni recenti distrasse l'armonia, ed accrebbe la grandezza dell'oscuro ed irregolare sistema. Le leggi che scusano in ogni occasione l'ignoranza de' loro sudditi, confessano la propria loro imperfezione; la giurisprudenza civile, come compendiata fu da Giustiniano, continuò ad essere una scienza misteriosa ed un profittevol traffico, e l'ingenita perplessità dello studio fu avvolta in tenebre dieci volte più dense dalla privata industria dei pratichisti. Le spese del processo sovente sorpassavano il valore della cosa in litigio, e i diritti più manifesti erano lasciati in abbandono per la povertà o prudenza delle parti. Una giustizia sì dispendiosa può tendere ad abbattere l'amore del litigare, ma la disugualità de' vantaggi non serve che ad accrescere l'influenza del ricco, e ad aggravare la miseria del povero. Mercè di questo dilatorio e costoso modo di procedere, il litigante dovizioso ottiene un profitto più certo di quello che sperar potrebbe dall'accidentale corruzione del suo giudice. L'esperienza di un abuso da cui il nostro secolo od il nostro paese non vanno perfettamente esenti, può talvolta provocare un generoso sdegno, e trarre dal cuore il troppo affrettato desiderio di scambiare l'elaborata nostra giurisprudenza co' semplici e sommarj decreti di un Cadì Turco. Ma una riflessione più tranquilla ci conduce a vedere che tali forme e dilazioni son necessarie a difendere la persona e la proprietà de' cittadini; che l'autorità discretiva del giudice è il primo stromento della tirannide, e che le leggi di un popolo libero debbono prevedere e determinare ogni questione, la quale possa probabilmente sorgere nell'esercizio del potere e nelle transazioni dell'industria. Ma il governo di Giustiniano congiungeva i mali della libertà e del servaggio, ed i Romani erano oppressi ad un tempo dalla moltiplicità delle leggi, e dall'arbitraria volontà del loro signore.

CAPITOLO XLV

Regno di Giustino il Giovane. Ambasceria degli Avari. Si stabiliscono sul Danubio. Conquista dell'Italia fatta da' Lombardi. Adozione e Regno di Tiberio. Regno di Maurizio. Stato dell'Italia sotto i Lombardi e gli Esarchi di Ravenna. Calamità di Roma. Carattere e Pontificato di Gregorio I.

Negli ultimi anni di Giustiniano, l'inferma sua mente era dedicata alle contemplazioni celesti, ed egli trascurava gli affari di questo mondo quaggiù. I suoi sudditi erano stanchi di comportare più a lungo la sua vita e il suo regno: non pertanto tutti gli uomini atti a riflettere, paventavano il momento della sua morte, come quello che dovea involgere la capitale nel tumulto, e l'Impero nella guerra civile. Questo monarca senza prole avea sette nipoti405, figli o nipoti di suo fratello e di sua sorella, tutti educati nello splendore di una condizione reale. Il mondo gli avea veduti negli alti comandi delle province e degli eserciti; conosciuta era l'indole di ciascun di loro, zelanti n'erano gli aderenti, e siccome la gelosia del vecchio Sire sempre differiva a dichiarare il successore qual fosse, ognun d'essi con eguale speranza poteva ambire l'eredità dello zio. Egli spirò nel suo palazzo, dopo un regno di trent'anni; e la decisiva opportunità del momento venne colta dagli amici di Giustino, figlio di Vigilanzia406. All'ora di mezzanotte, i suoi domestici furono svegliati da una importuna folla che tuonava alla sua porta, e che ottenne di esser ammessa in casa col significare ch'erano i membri principali del Senato. Questi fausti deputati svelarono il recente ed importante secreto della morte dell'Imperatore: riferirono o forse inventarono la scelta che egli avea fatto morendo del più diletto e più meritevole fra i suoi nipoti, e scongiurarono Giustino ad antivenire i disordini a cui poteva darsi la moltitudine, se col ritorno della luce ella vedesse ch'era rimasta senza signore. Giustino poi ch'ebbe composto il suo aspetto alla sorpresa, al dolore, e ad una decente modestia, secondando l'avviso di sua moglie, Sofia, si sottopose alla autorità del Senato. Speditamente ed in silenzio egli fu condotto al palazzo; le guardie salutarono il nuovo loro Sovrano, e si compirono, senza frappor dimora i marziali e religiosi riti della sua coronazione. Dalle mani de' suoi propri ufficiali gli si vestirono gl'Imperiali arredi, i borzacchini rossi, la tunica bianca e la veste di porpora. Un soldato felice, ch'egli incontanente promosse al grado di Tribuno, gli cinse al collo la militare collana; quattro robusti giovani lo innalzarono sopra uno scudo; fermo e ritto ivi egli stette a ricevere l'adorazione de' suoi sudditi; e la benedizione del Patriarca che impose il diadema sul capo di un Principe ortodosso santificò la loro elezione. Già pieno era l'Ippodromo d'innumerevol gente, e non sì tosto l'Imperatore si mostrò sul suo trono, che le voci della fazione azzurra e della verde si confusero per applaudirlo egualmente. Ne' discorsi che Giustino fece al Senato ed al Popolo, egli promise di corregger gli abusi che avean disonorato la vecchiaia del suo predecessore, professò le massime di un governo giusto e benefico, e dichiarò che alle vicine calende di Gennaio407, egli farebbe rivivere nella sua persona il nome e la liberalità di un Console romano. L'immediato soddisfacimento dei debiti del suo zio esibì un solido pegno della sua fede e del suo generoso procedere: una schiera di portatori, carichi di sacchetti d'oro, si avanzò nel mezzo dell'Ippodromo, ed i creditori di Giustiniano, caduti d'ogni speranza, accettarono come spontaneo dono, questo pagamento richiesto dall'equità. Prima che passassero tre anni, l'esempio di Giustino fu imitato e superato dall'imperatrice Sofia, che liberò molti indigenti dai debiti e dall'usura: atto di benevolenza che sopra ogni altro merita la gratitudine, come quello che solleva l'individuo dal più intollerabile de' mali, ma nell'esercizio del quale la bontà di un Principe va soggettissima ad esser tratta nell'inganno dai richiami della prodigalità e da' frodolenti artifizj408.

Giustino, nel settimo giorno del suo regno, diede udienza agli ambasciatori degli Avari, e decorata fu la scena in modo da imprimere ne' Barbari i sensi della maraviglia, della venerazione e del terrore. Principiando dalla porta del palazzo, gli spaziosi cortili ed i lunghi portici offrivano in doppio e continua fila, la vista de' superbi cimieri e degli aurei scudi delle guardie, che presentavano le lance e le azze loro con più securtà che non avrebbero fatto sul campo della battaglia. Gli ufficiali, che esercitavano il potere od accompagnavano la persona del Principe, erano coperti delle più ricche lor vesti, e disposti secondo l'ordine militare e civile della gerarchia. Come il velo del santuario fu tratto, gli ambasciatori mirarono l'Imperatore dell'Oriente assiso in trono, sotto un baldacchino sostenuto da quattro colonne, e coronato da una figura alata della Vittoria. Essi ne' primi moti della sorpresa, si sottomisero all'adorazione servile della corte Bizantina; ma appena alzati da terra, Targezio, Capo dell'ambasceria, spiegò la libertà e l'orgoglio di un Barbaro. Egli esaltò, mediante la lingua di un interprete, la grandezza del Cacano, la cui clemenza permetteva di sussistere ai regni del Mezzogiorno, ed i vittoriosi cui sudditi aveano valicato i fiumi agghiacciati della Scizia, ed allor coprivano le rive del Danubio d'innumerevoli tende. L'ultimo Imperatore avea coltivato, con annui e magnifici doni, l'amicizia di un riconoscente monarca, ed i nemici di Roma aveano rispettato gli alleati degli Avari. La stessa prudenza dovea consigliare i nipoti di Giustiniano ad imitare la liberalità del loro zio, ed a procacciarsi il benefizio della pace con un popolo invincibile, che si dilettava degli esercizj della guerra ne' quali era eccellente. La risposta dell'Imperatore fu conforme a siffatto stile di superba disfida, ed egli trasse la sua confidenza dal Dio de' Cristiani, dall'antica gloria di Roma, e da' recenti trionfi di Giustiniano. «L'Impero» ci soggiunse «abbonda d'uomini e di cavalli e di armi bastevoli a difendere le nostre frontiere, ed a punire li Barbari. Voi offerite aiuto, voi minacciate offese; noi abbiamo in non cale la vostra inimicizia ed il vostro soccorso. I conquistatori degli Avari richieggono la nostra alleanza; dovremo noi aver temenza de' fuggiaschi e degli esuli loro409? Mio zio si mostrò largo verso la vostra miseria, piegandosi alle vostre umili preci. Noi vi faremo più importante servigio, quello di farvi conoscere la vostra debiltà. Ritiratevi dal nostro cospetto; le vite degli ambasciatori sono sicure; e se ritornerete ad implorare il nostro perdono, forse assaggerete i frutti della nostra bontà410». Porgendo fede al racconto de' suoi ambasciatori, il Cacano fu sbigottito dall'apparente fermezza di un Imperatore romano, di cui ignorava l'indole e le facoltà. In cambio di mandare ad effetto le sue minacce contro l'Impero orientale, egli portò le armi nelle povere ed incolte contrade della Germania, ch'erano soggette al dominio de' Franchi. Dopo due dubbiose battaglie, egli consentì a ritirarsi, ed il Re di Austrasia sovvenne alla carestia del campo degli Avari mediante un'immediata provigione di grano e di bestiame411. Simiglianti ripetute traversie aveano come spento l'ardire degli Avari, e dileguata sarebbesi la potenza loro in mezzo a' deserti della Sarmazia, se l'alleanza di Alboino, re de' Lombardi, non avesse dato un nuovo scopo alle lor armi, ed un solido stabilimento alle disastrate loro fortune.

Alboino, nel tempo che militava sotto le bandiere del padre, incontrò in battaglia, e trapassò colla lancia da parte a parte il Principe de' Gepidi, suo competitore. I Lombardi, plaudendo a tale prodezza, chiesero con unanimi acclamazioni al genitore che l'eroico garzone, il quale avea avuto a comune i pericoli della battaglia, fosse ammesso alla festa della vittoria. «Vi sovvenga» replicò l'inflessibile Audoino, «delle sagge costumanze de' nostri maggiori. Qualunque sia il merito di un Principe, egli non può sedere a mensa col prode, sinchè non abbia ricevuto le sue armi da una mano straniera e regale». Alboino piegò la fronte con riverenza alle istituzioni della sua patria; scelse quaranta compagni, ed animosamente portossi alla Corte di Turisondo re dei Gepidi, il quale abbracciò ed accolse, secondo le leggi dell'ospitalità, l'uccisore del proprio suo figlio. Durante il banchetto, mentre Alboino occupava il seggio del giovane ch'egli avea spento, una tenera rimembranza sorse nell'animo di Turisondo. «Come caro è quel posto! – come odioso è chi il tiene! – » Tali furono le parole che sfuggirono, accompagnate d'un sospiro, dal labbro del padre addolorato. Il suo cordoglio inasprì il risentimento nazionale de' Gepidi; e Cunimondo, figlio che gli restava, fu provocato dal vino, o dal fraterno amore, al desiderio della vendetta. «I Lombardi,» disse il rozzo Barbaro, «rassomigliano, nell'aspetto e nell'odore, alle giumente delle nostre pianure sarmatiche». E quest'insulto era una grossolana allusione alle bianche bende di cui i Lombardi portavano avviluppate le gambe. «Aggiungi un'altra rassomiglianza,» replicò un baldanzoso Lombardo; «che tu sai come tirano calci. Visita la pianura di Asfeld, ed ivi cerca le ossa di tuo fratello; esse vi sono miste con quelle degli animali più vili». I Gepidi, nazione di guerrieri, balzarono da' loro scanni, e l'intrepido Alboino, co' suoi quaranta compagni, pose mano alla spada. Pacificata fu la rissa dalla venerabile interposizione di Turisondo. Egli salvò il proprio onore e la vita del suo ospite; e poscia ch'ebbe compito i solenni riti dell'investitura, licenziò lo straniero, cinto delle insanguinate armi del figlio, dono di un genitor lacrimoso. Tornossene Alboino in trionfo, ed i Lombardi nel celebrare l'incomparabile sua intrepidezza, furono costretti a lodare le virtù di un nemico412. È probabile che in quella straordinaria visita egli vedesse la figlia di Cunimondo, il quale ben tosto salì sul trono de' Gepidi. Rosamonda o Rosmunda ella chiamavasi, nome ben atto ad esprimere femminile bellezza, e consacrato dall'istoria e dal romanzo alle novelle di amore. Il re de' Lombardi, chè il padre di Alboino più non viveva, era promesso sposo alla figlia di Clodoveo; ma i legami della fede e della politica immantinente cederono alla speranza di possedere la bella Rosmunda, e d'insultare la famiglia e la nazione di lei. Si sperimentarono vanamente le arti della persuasione; e l'impaziente amatore, con la forza e lo stratagemma, conseguì l'intento de' suoi desiderj. La guerra era la conseguenza ch'ei prevedeva e cercava; ma i Lombardi non potevano per gran pezza reggere al furibondo assalto de' Gepidi, spalleggiati da un esercito Romano. E siccome l'offerta del matrimonio con disprezzo fu rigettata, Alboino si vide astretto ad abbandonar la sua preda, ed a partecipare del disonore che impresso egli avea sulla casa di Cunimondo413.

Ogni volta che da private ingiurie attossicata viene una contesa pubblica, un colpo che mortale o decisivo non sia, altro non produce che una breve tregua, la quale permette a' combattenti di affilare le armi per azzuffarsi di nuovo. La forza di Alboino non era sufficiente ad appagare la sua sete di amore, di ambizione e di vendetta; egli piegossi ad implorare il formidabile aiuto del Cacano; e gli argomenti, da lui usati, ci chiariscono la politica e l'arte de' Barbari. Nell'attaccare i Gepidi, egli era stato mosso, dicea, dal giusto desiderio di estirpare un popolo, la cui alleanza col Romano Impero lo avea fatto il comune inimico delle nazioni, ed il nemico personale del Cacano. Se le forze degli Avari e de' Lombardi si collegavano in questa gloriosa contesa, sicura diveniva la vittoria, ed inestimabile il premio: il Danubio, l'Ebro, l'Italia e Costantinopoli sarebbero senza ostacolo, esposte alle armi loro invincibili. Ma se esitavano od indugiavan essi a prevenire la tristizia de' Romani, lo stesso spirito che avea oltraggiato gli Avari, gli avrebbe perseguitati sino all'estremità della terra. Il Cacano ascoltò con freddezza e disdegno queste ragioni speciose: egli ritenne gli ambasciatori Lombardi nel suo campo, trasse in lungo le pratiche, ed alternamente venne allegando la sua mancanza di volontà, o la sua mancanza di attitudine ad assumere la rilevante impresa. In fine egli dichiarò che l'ultimo prezzo della sua alleanza era, che i Lombardi dovessero immantinente fargli dono della decima dei loro armenti; che le spoglie ed i prigionieri si avessero da dividere a parti eguali; ma che le terre dei Gepidi diverrebbero unicamente il patrimonio degli Avari. Le passioni di Alboino gli fecero premurosamente accettare tali ardui patti; e siccome i Romani erano malcontenti della ingratitudine e perfidia de' Gepidi, Giustino abbandonò quell'incorreggibile popolo al proprio destino, e rimase tranquillo spettatore del disuguale conflitto. Cunimondo, spinto a disperazione, divenne più infaticabile e più fiero. Egli sapea che gli Avari erano entrati sul suo territorio; ma tenendo per fermo che, rotti i Lombardi, que' stranieri invasori verrebbero facilmente respinti, mosse rapidamente ad affrontare l'implacabil nemico del suo nome e della sua stirpe. Ma il coraggio de' Gepidi non fruttò ad essi che una morte onorata. I più valorosi della nazione caddero sul campo di battaglia; il re de' Lombardi contemplò con diletto la testa di Cunimondo, ed il cranio di questo Re fu convertito in una coppa per saziare l'odio del conquistatore, o, forse, per conformarsi ai selvaggi usi della sua patria414. Dopo questa vittoria, nessuno ulteriore inciampo potè frenare i progressi de' collegati, e fedelmente essi tennero i patti del loro accordo415. Le belle contrade della Valachia, della Moldavia, della Transilvania e le parti dell'Ungheria di là dal Danubio, furono occupate senza resistenza da una nuova colonia di Sciti, e l'impero Dace del Cacano fiorì con lustro per più di dugento e trent'anni. Disciolta venne la nazione dei Gepidi; ma nella distribuzione de' prigionieri, gli schiavi degli Avari furono men fortunati che i compagni de' Lombardi, la cui generosità adottò un valoroso nemico, e la cui libertà non poteva accordarsi colla fredda e deliberata tirannide. Una metà delle spoglie introdusse nel campo di Alboino più dovizie di quanto un Barbaro potesse computare co' rozzi e lenti suoi calcoli. La bella Rosmunda fu persuasa e costretta a riconoscere i diritti del vittorioso suo amante, e la figlia di Cunimondo parve mettere in dimenticanza que' delitti che imputar si potevano alle irresistibili sue attrattive.

La distruzione di un potente regno stabilì la fama di Alboino. Ne' giorni di Carlomagno, i Bavari, i Sassoni e le altre tribù di favella Teutonica ripetevano ancora i canti in cui si esaltavano le eroiche virtù, il valore, la liberalità e la fortuna del re de' Lombardi416. Ma la sua ambizione non era soddisfatta per anco: ed il conquistatore de' Gepidi dal Danubio rivolse gli occhi alle più ricche rive del Po e del Tevere. Quindici anni non erano corsi ancora, dacchè i suoi sudditi, confederati di Narsete, avevano visitato il dolce clima d'Italia; i monti, i fiumi, le strade maestre n'erano familiari alla memoria loro; la narrazione delle loro vittorie, e forse l'aspetto del loro bottino, avea acceso nella generazione sorgente la fiamma dell'emulazione e dell'intrapresa. Lo spirito e l'eloquenza di Alboino ne rinvigorì le speranze, e si racconta ch'egli ragionasse a' loro sensi, col far imbandire sulla mensa reale le più belle e più squisite frutta che spontaneamente vengono nel giardino del mondo. Non sì tosto ebbe egli spiegato all'aure i vessilli, che la natia forza dei Lombardi fu moltiplicata dalla gioventù, vaga di avventure, della Germania e della Scizia. I robusti contadini della Pannonia avevano ripigliato i costumi de' Barbari; ed i nomi dei Gepidi, dei Bulgari, dei Sarmati e dei Bavari distintamente si possono rintracciare ancora nelle province d'Italia417. Della nazione dei Sassoni, antichi alleati de' Lombardi, ventimila guerrieri, con le mogli ed i figli accettarono l'invito di Alboino. Il loro valore contribuì al buon successo delle sue armi; ma tale era il numero del suo esercito, che la presenza o l'assenza loro appena scorgevasi in esso. Ogni modo di religione liberamente veniva praticato dai suoi rispettivi seguaci. Il re de' Lombardi era stato educato nell'eresia Arriana, ma si concedeva a' Cattolici di pregare pubblicamente nelle chiese loro per la conversione di essi; mentre i più ostinati Barbari sagrificavano una capra, o forse un prigioniero, agli Dei de' loro antenati418. I Lombardi ed i loro confederati, erano uniti dal comune amore che portavano ad un Capo, il quale tutte in sè accoglieva le virtù ed i vizi di un eroe selvaggio. La vigilanza di lui provvide un ampio magazzino di armi offensive e difensive per l'uso della spedizione. La ricchezza portatile de' Lombardi seguiva le mosse del loro campo. Allegramente essi abbandonarono agli Avari i loro terreni mediante la solenne promessa fatta ed accettata senza sorriderne, che non riuscendo nella conquista dell'Italia, que' volontarj esuli sarebbero tornati al possesso degli antichi lor beni.

393.Veggansi le leggi di Costantino e de' suoi successori contro l'adulterio, la sodomia, ec., nel Codice Teodosiano (l. IX tit. 7 leg. 7; l. XI tit. 36 leg. 1, 4) ed il Codice Giustinianeo (l. IX tit. 9 leg. 30, 31). Questi Principi parlano tanto col linguaggio della passione, quanto con quello della giustizia, ed hanno la cattiva fede d'attribuire la propria loro severità ai primi Cesari.
394.Giustiniano, Novelle 77, 134, 141; Procopio, Aneddoti, c. 1-16, colle annotazioni d'Alemanno; Teofane, p. 151; Cedreno, p. 368; Zonaro, l. XIV, p. 64.
395.Montesquieu, Spirito delle leggi, l. XII c. 5. Questo filosofo cotanto pel suo genio commendevole, concilia i diritti della libertà e della natura che non dovrebbero giammai trovarsi in opposizione fra loro.
396.Vedi venti secoli prima dell'Era Cristiana, intorno alla corruzione della Palestina, la Storia e le leggi di Mosè. Diodoro Siculo (t. 1 l. V p. 356) agli antichi Galli fa un rimprovero di questo vizio; i viaggiatori mussulmani e cristiani l'imputano alla China (Antic. Relaz. dell'India e della China, p. 34, tradotte dal Padre Rinaldetto e dal Padre Premaro, aspro suo critico, nelle Lettere edificanti, t. XIX p, 433) Gli storici spagnuoli, ne accusano gli indigeni dell'America. (Garcilasso della Vega, l. III c. 13; e Dizionario di Bayle, t. III p. 88). Voglio sperare ed amo credere che questa peste non siasi peranco sparsa fra i Negri dell'Affrica.
397.Carlo Sigonio (l. III, De judiciis in Opp. t. III p. 679-864) spiega molto eruditamente e con classico stile l'importante materia delle liti e dei giudizj che si tenevano pubblicamente in Roma, e se ne trova un compendio molto bene scritto nella Repubblica Romana di Belforte (t. II l. V p. 1-121). Chi desiderasse maggiori schiarimenti e più precise particolarità, può studiare Noodt (De iurisdictione et imperio, libri duo, t. 1 p. 93-134), Eineccio (ad Pandect., l. I c. 11; ad Instit. l. IV tit. 17; Element. ad Antiquit.) e Gravina (Opp. 230-251).
398.Le funzioni dei giudici di Roma, come quelle dei giurati d'Inghilterra, non potevano essere risguardate che come un dovere passeggiero, e non mai come una magistratura, od una professione, ma le leggi della Gran Brettagna esigono particolarmente l'unanimità dei voti: esse espongono i giurati ad una sorta di tortura da cui hanno liberato i rei.
399.Siamo debitori di questo fatto interessante ad un frammento d'Asconio Pediano che vivea mentre regnava Tiberio. La perdita che si è fatta de' suoi Comentarii sulle Orazioni di Cicerone, ci ha tolto un fondo prezioso di cognizioni storiche o relative alle leggi.
400.Polibio, lib. VI p. 633. L'estensione dell'Imperio, non che dei luoghi compresi nella città di Roma, forzava l'esiliato a procurarsi un ritiro che fosse ad una gran distanza.
401.Qui de se statuebant, humabantur corpora, manebant testamenta; pretium festinandi. Tacito, Annali VI, 25, colle Annotazioni di Giusto Lipsio.
402.Giulio Paolo, Sentent. recept. l. V tit. 12 p. 476; le Pandette, l. XLVIII tit. 21; il Codice, l. IX tit. 50; Bynkershoek, t. 1 p. 59; Observat. J. G. R. IV, 4, e Montesquieu (Esprit. des Lois, l. 29 c. 9) notano le civili restrizioni della libertà, ed i privilegi del suicida. Le pene che gli vennero inflitte, furono inventate in un tempo posteriore e meno illuminato.
403.Plinio, Hist. Nat. XXXVI, 24. Quando Tarquinio per edificare il Campidoglio tormentò talmente i suoi sudditi che ridusse alla disperazione parecchi fra gli operai, onde si diedero la morte, fece inchiodare i cadaveri di quegli sgraziati su d'una croce.
404.I rapporti che s'incontrano fra una morte violenta, ed una morte immatura, determinarono Virgilio (Eneide, VI, 434-439) a confondere insieme il suicidio e la morte dei neonati, quelli che muoiono per amore e le persone ingiustamente condannate a morte. Il migliore fra i suoi editori, Heyne, non sa come spiegare le idee, ossia il sistema di giurisprudenza del romano poeta in intorno questo soggetto.
405.Vedi nelle Familiae byzantinae di Ducange (p. 89-101), quanto si riferisce alla famiglia di Giustino e di Giustiniano. Ludewig (in vit. Justinian. p. 131) ed Eineccio (Hist. iuris rom. p. 374), giureconsulti devoti, hanno spiegata la genealogia del favorito lor principe.
406.Per raccontare come è salito al trono Giustino, ho tradotto in semplice e concisa prosa gli ottocento versi dei due primi libri di Corippo, De laudibus Justini (Appendix Hist. bizant. p. 401-416, Roma, 1777).
407.Fa meraviglia che Pagi (Critica in Annal. Baron. t. II p. 639) sulla fede di qualche cronaca siasi tratto a contraddire il chiaro e decisivo testo di Corippo (Vicina donal. II, 354; Vicina dies, l. IV), ed a posporre il consolato di Giustino, sino all'A. D. 567.
408.Teofane, Chronograph. p. 205. È inutile di allegare la testimonianza di Cedreno e di Zonara, mentre essi non sono che semplici compilatori.
409.Corippo, l. III, 390. Si tratta incontestabilmente dei Turchi vincitori degli Avari; ma la parola scultor sembra non aver senso; e l'unico manoscritto esistente di Corippo, sul quale fu pubblicata la prima edizione di questo scrittore (1581, apud Plantin), non si trova più. L'ultimo editore, Foggini di Roma, congetturò che tal parola dovesse esser corretta in quella di Soldano; ma le ragioni allegate dal Ducange (Joinville, Dissertat. 16 p. 238-240) per provare che questo titolo fu assai di buon'ora adoperato dai Turchi e dai Persiani, sono deboli od equivoche; ed io mi trovo più disposto in favore di Herbelot (Bibl. orient. p. 825) che attribuisce a quel vocabolo un'origine araba o caldea, e lo fa incominciare nell'undecimo secolo, in cui il califfo di Bagdad l'accordò a Mahmud, principe di Gazna e vincitore dell'India.
410.Su questi caratteristici discorsi si paragonino i versi di Corippo (l. III, 251-401) colla prosa di Menandro (Excerpt. legat. p. 102, 103). La loro diversità prova che non furono copiati l'uno dall'altro, e la loro rassomiglianza che furono attinti alla stessa fonte.
411.Sulle guerre degli Avari contro gli Austrasiani, vedasi Menandro (Excerpt. legat. p. 110), San Gregorio di Tours (Hist. Franc. l. IV c. 29), e Paolo Diacono (De gest. Langob. l. II c. 10).
412.Paolo Warnefrido, Diacono del Friuli (De gest. Langob. l. I c. 23, 24). I suoi quadri de' nazionali costumi, quantunque grossolanamente abbozzati, sono più animati ed esatti di quelli di Beda o di San Gregorio di Tours.
413.Questa istoria è raccontata da un impostore (Teofilatto Simocat. l. VI c. 10); il quale però ebbe l'accortezza di stabilire le sue finzioni su fatti pubblici e notorj
414.Dopo le osservazioni di Strabone, di Plinio e d'Ammiano Marcellino, sembra che questo fosse un uso comune fra le tribù degli Sciti (Muratori, Script. rer. italicar. t. I p. 424). Le chiome dell'America settentrionale sono esse pure trofei di valore; i Lombardi conservarono per più di due secoli il cranio di Cunimondo; e lo stesso Paolo intervenne al banchetto, in cui il duca Radechisio fece portar fuori questa coppa destinata alle grandi solennità.
415.Paolo, l. 1 c. 27; Menandro, in Excerpt. legat. p. 110, 111.
416.Ut hactenus etiam jam apud Bajoariorum gentem quam et Saxonum sed et alios ejusdem linguae homines… in eorum carminibus celebretur (Paolo, l. 1 c. 27). Esso morì, A. D. 799 (Muratori, in Praefat. t. 1 p. 397). Queste canzoni de' Germani, alcune delle quali potevano risalire ai tempi di Tacito (De morib. Germ. c. 2), furono compilate e trascritte per ordine di Carlo Magno. Barbara et antiquissima carmina, quibus veterum regum actus et bella canebantur scripsit memoriaeque mandavit (Eginardo, in vit. Car. Magn. c. 29 p. 130, 131). I poemi di cui fa elogio Goldast (Animad. ad Eginard. p. 207) sembrano essere romanzi moderni e spregevoli.
417.Paolo (l. II c. 6-26) parla delle altre nazioni. Muratori (Antich. Ital. t. I, Dissert. 1 p. 4) ha scoperto il villaggio de' Bavari alla distanza di tre miglia da Modena.
418.Gregorio il Romano (Dialog. l. III c. 27, 28, apud Baron. Annal. eccles. A. D. 579 n. 10) suppone che essi adorassero una capra. Io non conosco che una religione in cui la Divinità sia ad un tempo stesso la vittima.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
470 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain