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Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 9», sayfa 13

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A. D. 728

Le prime ostilità di Leone contro le Immagini di Costantinopoli aveano avuto a testimonio una folla di stranieri, venuti dall'Italia e da vari paesi dell'Occidente; vi raccontarono essi con isdegno e dolore il sacrilegio del monarca; ma al ricevere l'editto che proscrivea quel culto, tremarono pei loro Dei penati; si tolsero da tutte le Chiese dell'Italia le Immagini di Gesù Cristo, della Vergine, dei Martiri e dei Santi, e si propose al Pontefice di Roma questa scelta; il favore imperiale per premio della sua condiscendenza, la degradazione e l'esilio per gastigo della sua disobbedienza. Lo zelo religioso e la politica non gli permetteano d'esitare, e l'alterigia con cui trattò l'Imperatore, annunciava una gran fiducia nella verità della sua dottrina, o nelle forze di resistenza. Senza far conto delle preghiere o dei miracoli, armossi contro il nimico pubblico, e le sue lettere pastorali avvertirono gl'Italiani dei loro pericoli, e doveri235. A questo segnale, Ravenna, Venezia, e le città dell'Esarcato e della Pentapoli, aderirono alla causa della religione; erano quasi tutti indigeni i soldati di terra e di mare; e infusero ai mercenarii stranieri lo spirito di patriottismo e di zelo, da cui essi stessi erano animati. Giurarono gli Italiani di vivere o morire per la difesa del Papa e delle sante Immagini; era il popolo romano consegrato al suo padre spirituale, ed anche i Lombardi bramavano di dividere il merito e i vantaggi di quella sacrosanta battaglia. La distruzione delle statue di Leone fu l'atto di ribellione il più apparente, il più audace e quello che veniva in capo più naturalmente: il più efficace e il più vantaggioso fu di ritenere il tributo che pagava l'Italia a Costantinopoli, e di spogliare in tal guisa il principe d'un potere, del quale poco prima aveva abusato coll'esigere una nuova capitazione236. Si elessero magistrati e governatori, e si conservò così una forma di governo; tant'era la pubblica indignazione, che i Romani si disponeano a creare un Imperatore ortodosso, e a condurlo con una squadra navale ed un esercito nel palazzo di Costantinopoli. Furono nel tempo istesso Gregorio II e Gregorio III dichiarati dal monarca autori della ribellione, e condannati per tali: si fece il potere per impadronirsi della loro persona colla frode o colla violenza, o per toglier loro la vita. S'introdussero in Roma, o vennero più volte ad assalirla, capitani, guardie, duchi e vescovi, investiti d'una dignità pubblica, o deputati con una secreta commissione; approdarono con bande straniere; trovarono nel paese qualche soccorso, e dee la città superstiziosa di Napoli arrossire, che i suoi antenati difendessero allora la causa dell'eresia: il valore però e la vigilanza dei Romani rispinsero quegli assalti palesi o clandestini; i Greci furono sconfitti e trucidati, morti i Capi d'una morte ignominiosa, e per quanto fossero i Papi inclinati alla clemenza, ricusarono d'intercedere in favore di quelle colpevoli vittime. Risse sanguinose, prodotte da un odio ereditario, divideano da lungo tempo i diversi rioni della città di Ravenna237; trovarono quelle fazioni un nuovo alimento nella controversia religiosa che sorgeva allora; ma aveano i partigiani delle Immagini la superiorità del numero o del valore, e l'Esarca, che volle arrestar il torrente, perdè la vita in una sedizion popolare. Per punire quel misfatto, e ristabilire il suo dominio in Italia, mandò l'Imperatore una squadra ed un esercito nel golfo Adriatico. Ritardati lunga pezza dai venti e dall'onde, che loro cagionarono gran danno, sbarcarono i Greci alla fine nei dintorni di Ravenna; minacciarono di spopolare quella rea città, e d'imitare, forse di superare, Giustiniano II, il quale dovendo, già un tempo, punire una ribellione, avea consegnato al carnefice cinquanta dei primarii abitanti. Vestiti del sacco e coperti di cenere, pregavano le donne e il clero; gli uomini erano armati alla difesa della patria; aveva il comun pericolo riunite le fazioni, e vollero piuttosto avventurare una battaglia ch'esporsi alle lunghe miserie d'un assedio. Si combattè di fatto con accanimento. I due eserciti indietreggiarono e si avanzarono a vicenda; videsi un fantasma, s'udì una voce, e la certezza della vittoria rendè Ravenna vittoriosa. I soldati dell'Imperatore si ritirarono sopra i vascelli; ma la spiaggia del mare assai popolata mandò contro il nimico una gran quantità di schifi; si mescolò tanto sangue alle acque del Po, che per sei anni non volle il popolo cibarsi del pesce di quel fiume; l'instituzione d'una festa annuale consecrò il culto delle Immagini, e l'odio del tiranno greco. In mezzo al trionfo delle armi cattoliche, volendo il Pontefice di Roma, condannare l'eresia degl'Iconoclasti, convocò un Concilio di novantatre Vescovi. Coll'approvazione di questi, pronunciò una scomunica generale contro quelli che assalirebbero la tradizion de' Padri, e le Immagini dei Santi sia con parole o con fatti; comprendeva questo decreto tacitamente l'Imperatore238; con tutto ciò sembra che la risoluzione presa di fargli per l'ultima volta un'ammonizione, senza speranza di buon esito, provi che l'anatema non era allora che sospeso sopra il suo reo capo. Sembra di più, che i Papi, dopo avere ben fondato le basi della propria sicurezza, del culto delle Immagini, e della libertà di Roma e dell'Italia, abbiano mitigato il rigore, e risparmiato il rimanente del dominio Bizantino. Differirono con moderati consigli ed impedirono l'elezione d'un nuovo Imperatore; esortarono gl'Italiani a non separarsi dal corpo della Monarchia romana. Si concedette all'Esarca di risedere nelle mura di Ravenna, dove fece la parte piuttosto di schiavo che di padrone; e fino all'incoronazione di Carlomagno, il governo di Roma e dell'Italia fu sempre tenuto in nome dei successori di Costantino239.

La libertà di Roma oppressa dalle armi e dall'arte d'Augusto, dopo settecento cinquant'anni di servitù fu campata dalla tirannia di Leone l'Isaurico. Aveano i Cesari annichilati i trionfi dei Consoli; nella decadenza e ruina dell'Impero romano, erasi il Dio Termine, quel sacro limite, ritirato a poco a poco dalle rive dell'Oceano, del Reno, del Danubio e dell'Eufrate, e Roma era ridotta al suo antico territorio, contando i paesi che da Viterbo si stendono a Terracina, e da Narni all'imboccatura del Tevere240. Espulsi i Re, riposò la Repubblica sopra la solida base fondata dalla loro saggezza e virtù. La loro perpetua giurisdizione si divise a due magistrati, che si eleggeano ogni anno; continuò il senato ad essere investito del potere amministrativo e deliberativo; le assemblee del popolo esercitarono l'autorità legislativa distribuita tra le classi diverse in proporzione delle sostanze, o dei servigi di ciascun individuo. Aveano i primi Romani, ignari delle arti del lusso, perfezionata la scienza del governo e della guerra: erano sacri i diritti personali; il volere della Comunità era assoluto; erano armati cento trentamila cittadini a difendere il loro paese, o ad ampliarlo per via di conquisti; una geldra di ladri e di proscritti era divenuta una nazione, degna di libertà e ardente di gloria241. Allorchè si estinse la sovranità degl'Imperatori greci, Roma spopolata più non era che il tristo scheletro della miseria; era la schiavitù divenuta per lei un'abitudine, e la sua libertà fu un accidente prodotto dalla242 superstizione, ch'essa medesima non potè mirare che con sorpresa e terrore. Non trovavasi nelle instituzioni o nella memoria dei Romani il menomo vestigio della sostanza, od anche delle forme della costituzione; nè aveano abbastanza lumi e virtù a rifabbricare l'edificio d'una Repubblica. Il debole avanzo degli abitanti di Roma, nati tutti da schiavi o da stranieri, era l'oggetto dello scherno dei Barbari trionfanti. Per esprimere il maggior disprezzo che aveano per un nimico, lo chiamavano i Franchi e Lombardi Romano; «e questo nome, dice il Vescovo Luitprando, abbraccia tutto ciò che è vile, infame e perfido; i due estremi dell'avarizia e del lusso, e tutti i vizi infine che possono prostituire la dignità della natura umana243.» La situazione dei Romani li gettò necessariamente in un governo repubblicano grossolanamente concepito. Furono obbligati a scegliere Giudici in tempo di pace, e Capi durante la guerra; si adunavano i Nobili per deliberare, e non poteansi eseguire le loro risoluzioni, senza il consenso della moltitudine. Si videro rinnovarsi le forme antiche del Senato e del Popolo romano244; ma non erano animate dall'istesso spirito, e quella nuova independenza fu disonorata dalla tempestosa lotta della licenza e dell'oppressione. La mancanza di leggi non poteva essere supplita che dal potere della religione, e l'autorità del Vescovo dirigeva l'amministrazione interna, e la politica esterna. Le sue limosine, i suoi discorsi, la sua corrispondenza coi re e prelati dell'Occidente, i servigi, che non guari prima avea renduto alla città, i giuramenti statigli prestati, e la gratitudine che gli si dovea, assuefarono i Romani a risguardarlo come il primo magistrato, o il principe di Roma. Il nome di dominus o di Signore non isgomentò l'umiltà cristiana dei Papi, e se ne scorge la figura e l'iscrizione sulle più antiche monete245. Il loro dominio temporale è oggigiorno assodato da dieci secoli di rispetto, e il loro più bel titolo e la libera scelta di un popolo, ch'essi aveano sottratto dalla schiavitù.

A. D. 730-752

In mezzo alle dispute dell'antica Grecia godeva il popol santo dell'Elide una pace continua sotto la protezione di Giove, e nell'esercizio de' Giuochi Olimpici246. Sarebbe stato una fortuna pei Romani che un simile privilegio difendesse il patrimonio della Chiesa dalle calamità della guerra, e che i cristiani, i quali andavano a vedere la tomba di San Pietro, si credessero tenuti, alla presenza dell'apostolo e del suo successore, di riporre le spade nel fodero; ma questo mistico cerchio non potea essere delineato che dalla verga d'un legislatore e d'un saggio: questo pacifico sistema non s'uniformava collo zelo e coll'ambizione dei Papi; non erano i Romani, come gli abitanti dell'Elide, dediti agl'innocenti e placidi lavori dell'agricoltura, e le instituzioni pubbliche e private dei Barbari dell'Italia, malgrado dell'effetto che aveva il clima prodotto sui loro costumi, erano assai inferiori a quelle degli Stati della Grecia. Luitprando, Re dei Lombardi, diede un esempio memorando di pentimento e di divozione. Ascoltò questo vincitore, in mezzo alle armi, alla porta del Vaticano, la voce di Gregorio II247, ritirò le schiere, abbandonò i conquisti, si condusse alla Chiesa di S. Pietro, e, dopo avere orato, depose sulla tomba dell'Apostolo la spada e il pugnale, la corazza e il mantello, la croce d'argento e la corona d'oro; ma tale fervor religioso fu un'illusione e forse un artificio del momento; il sentimento dell'interesse è possente e durevole. Era l'amore delle armi e della rapina inerente al carattere dei Lombardi, e i disordini dell'Italia, la debolezza di Roma, e la profession pacifica del suo nuovo Capo, furono per essi e pel loro Re un oggetto di tentazione irresistibile. Alla pubblicazione dei primi editti del monarca si dichiararono difensori delle Immagini. Invase Luitprando la provincia di Romagna, chiamata così fin da quei tempi; i cattolici dell'Esarcato si sottomisero senza ripugnanza al suo potere civile e militare, e per la prima volta venne introdotto un nimico straniero nell'inespugnabile Fortezza di Ravenna. Furono la città e la fortezza ricuperate bentosto dall'attività dei Veneziani valenti e poderosi in mare, e questi fedeli sudditi s'arresero alle esortazioni di Gregorio, che li indusse a separare il fallo personale di Leone dalla causa generale dell'Impero romano248. Dimenticarono i Greci un tale servigio, e i Lombardi si ricordarono di tale ingiuria. Formarono le due nazioni, nimiche per la lor Fede, un'alleanza pericolosa e poco naturale; marciarono il Re e l'Esarca al conquisto di Spoleti e di Roma: si dissipò la tempesta senz'alcun effetto; ma il politico Luitprando continuò a tenere l'Italia agitata da perpetue alternative di tregue e d'ostilità. Astolfo, successore di lui, si dichiarò ad un tempo nimico dell'Imperatore e del Papa. Fu soggiogata Ravenna dalla forza o dal tradimento249, e questa conquista troncò la serie degli Esarchi, i quali, dall'epoca di Giustiniano e dalla ruina del regno dei Goti in poi, aveano esercitato in quel paese una specie di potere dependente. Fu ingiunto a Roma di riconoscere per suo legittimo sovrano il Lombardo vittorioso; si fissò la taglia di ciascun cittadino ad un annuo tributo d'un pezzo d'oro; la spada sospesa sul loro capo era pronta a punire le disobbedienze. Esitarono i Romani; supplicarono, si dolsero, e l'effetto delle minacce dei Barbari fu impedito dalle lagrime e dai negoziati, fino a tanto che il Papa seppe procurarsi al di là delle Alpi un alleato e un vendicatore250.

A. D. 754

Aveva Gregorio I, nelle sue calamità, implorato i soccorsi dell'eroe del suo secolo, di Carlo Martello, che governava la Francia col titolo modesto di Prefetto del Palazzo o di Duca, e che colla sua vittoria segnalata sopra i Saracini avea salvata la patria, e forse l'Europa, dal giogo dei Musulmani. Ricevè Carlo col dovuto rispetto gli ambasciatori del Papa; ma l'importanza delle sue occupazioni e la brevità della sua vita non gli permisero d'immischiarsi negli affari dell'Italia che per via d'una mediazione amichevole ed infruttuosa. Suo figlio Pipino, erede del suo potere e delle sue virtù, si dichiarò difensore della Chiesa romana, e sembra che lo zelo di questo principe fosse eccitato dall'amor della gloria e dalla religione; ma era il pericolo sulle sponde del Tevere, i soccorsi su quelle della Senna, e debole è la nostra compassione per miserie lontane da noi. Mentre abbandonavasi la città di Roma al dolore, Stefano III prese la generosa risoluzione di condursi in persona alla Corte di Lombardia e a quella di Francia, di piegare l'ingiustizia del suo nimico, o di destare la pietà e l'indignazione del suo amico. Mitigata la pubblica disperazione con preghiere e litanie, intraprese quel faticoso viaggio cogli ambasciatori del Monarca francese, e con quelli dell'Imperator greco. Il Re dei Lombardi fu inesorabile; ma non poterono le sue minacce frenare i lamenti, o ritardare la diligenza del Pontefice di Roma, che traversò le Alpi pennine, si riposò nell'abbazia di S. Maurizio, e andò poscia in tutta fretta a stringere quella mano del suo protettore, che mai non alzavasi in vano tra l'armi e per l'amicizia. Fu Stefano accolto come il successore visibile dell'Apostolo. Nella prima assemblea del Campo di Marzo o di Maggio, espose il Re di Francia a una nazione divota e guerriera le varie doglianze del Papa, e il Pontefice ripassò le Alpi non da supplichevole ma da conquistatore, con un esercito di Francesi guidati dal Re medesimo. Dopo una debole resistenza ottennero i Lombardi una pace ignominiosa; giurarono di restituire le possessioni, e di rispettare la santità della Chiesa romana; ma non appena fu liberato dalla presenza delle schiere francesi, dimenticò Astolfo la sua promessa, e non sentì che l'affronto ricevuto. Videsi Roma di nuovo investita dai soldati, e Stefano, temendo di stancare lo zelo degli alleati che si avea procurato al di là delle Alpi, immaginò di fortificare la sua doglianza, e la supplica, con una lettera eloquente scritta da S. Pietro istesso251. L'Apostolo accerta i suoi figli adottivi, il Re, il Clero e i Nobili di Francia, che morto corporalmente vive tuttavia in ispirito; che la voce ch'essi ascoltano e che devono obbedire, è quella del fondatore e del guardiano della Chiesa di Roma; che la Vergine, gli Angeli, i Santi, i Martiri e tutto l'esercito celeste, sollecitano la supplica del Papa, e impongon loro di marciare immediatamente; che in ricompensa della loro pia impresa avranno la fortuna, la vittoria e il paradiso, e che la perdizione eterna sarà la pena della loro negligenza, se lascieranno cadere nelle mani dei perfidi Lombardi la sua tomba, la sua Chiesa, il suo popolo. Non men rapida e felice della prima fu la seconda spedizione di Pipino; ottenne S. Pietro quanto bramava; Roma fu salva per la seconda volta, e sotto la sferza d'un padrone straniero imparò finalmente Astolfo a rispettare la giustizia e la buona fede. Dopo quel doppio gastigo, non fecero i Lombardi che languire, e decadere per lo spazio di circa vent'anni. Non erasi per altro il loro carattere conformato all'avvilimento della loro condizione; e in vece d'aspirare alle pacifiche virtù dei deboli, stancarono i Romani con una quantità di pretensioni, sutterfugii e scorrerie, che cominciarono senza riflessione, e terminarono senza gloria. Era la loro spirante monarchia angustiata, da un lato, dallo zelo e dalla prudenza del Papa Adriano I, dall'altro, dal genio, dalla fortuna e dalla grandezza di Carlomagno, figlio di Pipino: quegli eroi della Chiesa e dello Stato si unirono con un'alleanza e coll'amicizia; e quando calpestarono i deboli, seppero dare al loro procedere i più bei colori dell'equità e della moderazione252. Unica difesa dei Lombardi erano le gole delle Alpi e le mura di Pavia. Sorprese il figlio di Pipino quelle gole, e investì quelle mura, e dopo un assedio di due anni, l'ultimo dei loro principi naturali, Desiderio, consegnò al vincitore lo scettro e la capitale. I Lombardi, sottomessi a un Re straniero, serbando però le loro leggi nazionali, divennero piuttosto concittadini che sudditi dei Franchi, i quali, com'essi traevano l'origine, i costumi e la lingua dalla Germania253.

751, 753-768

Le obbligazioni reciproche dei Papi e della famiglia Carlovingia, formano l'importante anello che unisce l'istoria antica e moderna, la civile ed ecclesiastica. Erano stati i difensori della Chiesa incoraggiati al conquisto dell'Italia da una fausta occasione, da un titolo specioso, dai voti del popolo, dalle preghiere e dai raggiri del clero. La dignità di Re di Francia254 e quella di Patrizio di Roma furono i doni i più preziosi, che ricevè dai Papi la dinastia Carlovingia. I. Sotto la monarchia sacerdotale di S. Pietro, cominciarono le nazioni a ripigliare l'abitudine di cercare sulle sponde del Tevere il loro monarca, le loro leggi e gli oracoli del loro destino. Erano i Franchi imbarazzati tra due sovrani, l'uno di fatto, l'altro di nome; Pipino, semplice Prefetto del Palazzo, esercitava l'assoluto potere d'un Re; non mancava che questo titolo alla sua ambizione. Il suo valore abbatteva gl'inimici; la sua liberalità gli moltiplicava il numero degli amici. Era stato suo padre il salvatore del cristianesimo, e quattro illustri generazioni assodavano, e faceano risaltare i diritti del suo merito personale. L'ultimo discendente di Clodoveo, il debole Childerico, conservava tuttavia il nome e le apparenze della regia dignità, ma il suo diritto disusato non potea servire ad altro che d'istrumento a sediziosi; desiderava la nazione di restaurare la semplicità della sua costituzione, e Pipino, suddito e principe, voleva assicurare il proprio grado e la fortuna della sua famiglia. Legava un giuramento di fedeltà il Prefetto e i Nobili al fantasma reale; era il puro sangue di Clodoveo, sempre sacro ad essi: chiesero i loro ambasciatori al Pontefice romano di dissipare i loro scrupoli, o di assolverli dalle loro promesse. L'interesse determinò prontamente il Papa Zaccaria, successore dei due Gregorii, di pronunciare in loro favore; decise che la nazione aveva il diritto di unire sul medesimo capo il titolo e l'autorità di re; che lo sfortunato Childerico dovea essere immolato alla pubblica sicurezza; ch'era d'uopo deporlo dal trono, raderlo e chiuderlo in un convento pel resto de' suoi giorni. Una risposta sì conforme al desiderio dei Franchi fu ricevuta da essi come l'opinione d'un casuista, la sentenza d'un Giudice, o l'oracolo d'un Profeta255: sparve la razza Merovingia; e fu innalzato Pipino sopra lo scudo da un popolo libero, assuefatto ad obbedire alle sue leggi ed a marciare sotto il suo vessillo. Fu incoronato due volte colla confermazione della Corte di Roma; la prima dal servo fedele dei Papi, S. Bonifazio, apostolo della Germania, e la seconda dalle mani riconoscenti di Stefano III, che nel monastero di S. Dionigi pose il diadema in capo al proprio benefattore. Alle altre cerimonie si aggiunse allora destramente l'unzione dei Re d'Israele256: il successore di S. Pietro assunse il carattere d'un messaggero di Dio; divenne un Capo germanico agli occhi dei popoli, l'unto del Signore, e tanto la vanità che la superstizione257 contribuirono a diffondere questa cerimonia giudaica per tutta l'Europa moderna. Si dispensarono i Franchi dal loro primo giuramento di fedeltà, ma furono minacciati dei più tremendi anatemi, i quali piomberebbero anche sulla loro posterità, se ardivano in avvenire di fare un nuovo uso della libertà d'elezione, o di scegliere un re, che non fosse della santa e degna stirpe dei principi Carlovingi. Godettero questi principi tranquillamente la loro gloria senz'inquietarsi dell'avvenire; afferma il secretario di Carlomagno, che lo scettro di Francia era stato trasferito dall'autorità dei Papi258, e in processo di tempo, nelle loro più ardite imprese, non lasciarono d'insistere con fiducia su quest'atto notabile, e approvato dalla loro giurisdizion temporale.

II. Aveano i costumi e la lingua cangiato a tale, che i patrizi di Roma259 erano ben lontani dal rammentare il Senato di Romolo, e gli officiali del palazzo di Costantino rassomigliavano poco ai Nobili della repubblica, od ai patrizi distinti dal titolo fittizio di padri dell'Imperatore. Allorchè ebbe Giuliano riconquistato l'Italia e l'Affrica, l'importanza di quelle province rimote, e i pericoli ai quali erano esposte, obbligarono a stabilire un magistrato supremo che risedesse colà; chiamavasi indifferentemente Esarca o patrizio, e que' governatori di Ravenna, che stanno registrati nella cronologia dei principi, stendevano la loro giurisdizione sulla città di Roma. Dalla ribellion dell'Italia e dalla perdita dell'Esarcato in poi, aveva la miseria dei Romani, per certi riguardi, dimandato il sacrificio della loro independenza; ma in quest'atto esercitavano ancora il diritto di disporre d'essi medesimi, e i decreti del senato e del popolo investirono successivamente Carlo Martello e la sua posterità degli onori di patrizio di Roma. Avrebbero i Capi d'una potente nazione sdegnati titoli servili, e uffici dependenti; ma il regno degli Imperatori greci era sospeso, e durante la vacanza dell'Impero, ottennero essi dal Papa e dalla repubblica una missione più gloriosa. Presentarono gli ambasciatori romani a questi patrizi le chiavi della Chiesa di S. Pietro in prova e per simbolo di sovranità; ricevettero nel tempo stesso un santo vessillo che poteano e doveano spiegare a difendere la Chiesa e la città260. Ai giorni di Carlo Martello e di Pipino, l'interposizione del regno dei Lombardi minacciava la sicurezza di Roma, ma ne proteggea la libertà, e la parola patriziato rappresentava soltanto il titolo, i servigi e l'alleanza di que' protettori lontani. La potenza e politica di Carlomagno annichilarono i Lombardi, e lo fecero signore di Roma. Quando per la prima volta entrò in quella città, vi fu ricevuto con tutti gli onori, renduti in altri tempi all'Esarca, cioè al rappresentante dell'Imperatore; la gioja e la gratitudine del Papa Adriano I261 aggiunsero maggior lustro a quegli onori. Non così tosto ei seppe l'improvviso avvicinamento del monarca, che gli mandò incontro i magistrati e i Nobili colla bandiera, trenta miglia in circa dalla città. Le Scuole o le Comunità nazionali dei Greci, dei Lombardi, dei Sassoni etc. si affilarono lunghesso i due lati della via flaminia, per lo spazio d'un miglio; era la gioventù di Roma sotto le armi, e fanciullini, con palme e rami d'olivo in mano, cantavano le lodi dell'illustre liberatore. Allorchè vide le croci e i vessilli, discese Carlo da cavallo; condusse al Vaticano la processione di que' Nobili, e nel salire la scala baciò devotamente tutti i gradini, che metteano nel santuario degli Apostoli. Lo stava Adriano aspettando col clero sotto il portico. S'abbracciarono come amici ed uguali; ma andando verso l'altare prese il Re, o patrizio, la diritta del Papa, nè fu pago Carlomagno di queste vane dimostrazioni di rispetto. Durante i ventisei anni, che passarono fra il conquisto della Lombardia e la sua incoronazione in qualità d'Imperatore, governò da padrone la città di Roma che avea liberata colle sue armi. Giurò il popolo fedeltà alla sua persona e alla sua famiglia; si coniarono le monete; si amministrò la giustizia in suo nome; egli esaminò e confermò l'elezione dei Papi. Toltone il diritto di richiamare la sovranità del suo proprio capo, non poteva il titolo d'Imperatore aggiungere alcuna prerogativa a quelle delle quali era il patrizio di Roma già investito262.

Fu la gratitudine dei Carlovingi proporzionata a queste obbligazioni, e i loro nomi sono stati consegrati col titolo di salvatori e benefattori della Chiesa romana. Il suo antico patrimonio consistente in case e poderi affittati, fu trasformato dalla loro munificenza in un dominio temporale di città e province. Primo frutto delle vittorie di Pipino fu la concessione dell'Esarcato263. Abbandonò Astolfo sospirando la sua preda. Si consegnarono le chiavi e gli ostaggi delle primarie città all'ambasciatore di Francia, che li presentò, in nome del suo Re, sulla tomba di S. Pietro. Abbracciava l'Esarcato, secondo il più ampio significato di questo vocabolo264, tutte le province dell'Italia che aveano obbedito all'Imperatore e a' suoi ministri; ma a tutto rigore non comprendea che i territori di Ravenna, di Bologna e di Ferrara; deesi aggiungere la Pentapoli, che estendevasi lunghesso il mare Adriatico, da Rimini fino ad Ancona, e che avanzavasi nell'interno del paese fino alla giogaia dell'Apennino. Si biasimarono molto l'ambizione e l'avarizia dei Papi in quel maneggio. Avrebbe forse dovuto l'umiltà d'un prete cristiano ricusare un regno terrestre, che non potea di leggieri governare senza rinunciare alle virtù del suo stato. Avrebbe forse dovuto un suddito fedele od anche un nimico generoso mostrar meno ardore a dividere le spoglie del principe Barbaro; e se aveva l'Imperatore commesso a Stefano di sollecitare in suo nome la restituzione dell'Esarcato, non assolverei il Papa dal rimprovero di perfidia o di falsità; ma stando esattamente alle leggi, può chiunque accettare senza offesa, ciò che senza ingiustizia gli può dare un benefattore. Aveva l'Imperator greco abbandonato o perduto i diritti all'Esarcato, e la spada d'Astolfo era rotta dalla spada più forte del Carlovingio. Non per difendere la causa dell'Iconoclasta, aveva Pipino esposto la sua persona e l'esercito ai pericoli di due spedizioni al di là della Alpi; possedea legalmente i suoi conquisti, e li potea legalmente alienare: rispose piamente alle importunità dei Greci, che niuna considerazione umana non lo determinerebbe a ripigliare un dono, che avea fatto al Pontefice di Roma per la remission de' suoi peccati e la salute dell'anima. Aveva egli dato l'Esarcato con tutti i diritti di sovranità; e vide il Mondo per la prima volta un Vescovo cristiano investito delle prerogative d'un principe temporale, del diritto di nominare magistrati, di far esercitare la giustizia, di impor tasse, e di disporre delle ricchezza del palazzo di Ravenna. Al disciogliersi del reame Lombardo, cercarono gli abitanti del Ducato di Spoleti265 un rifugio dalla procella; si tagliarono i capelli all'uso dei Romani, si dichiararono servitori e sudditi di S. Pietro, e compierono, con questa volontaria confessione, il circondario odierno dello Stato ecclesiastico. Divenne questo circolo misterioso d'un'ampiezza indefinita mercè la donazione verbale o scritta di Carlomagno266, il quale ne' primi trasporti della sua vittoria spogliò sè stesso e l'Imperatore greco delle città e delle isole dipendenti altre volte dall'Esarcato. Ma riflettendo, lontano dall'Italia, a mente più fredda a quanto avea fatto, guardò con occhio di invidia e di diffidenza la nuova grandezza del suo alleato ecclesiastico. Eluse in guisa rispettosa l'esecuzione nelle sue promesse e di quelle di suo padre; sostenne il Re dei Francesi e dei Lombardi i diritti inalienabili dell'Impero, e finch'ei visse, e nel punto di sua morte, Ravenna267 e Roma furono sempre contate nel numero delle sue città metropolitane. Svanì la sovranità dell'Esarcato tra le mani dei Papi. Trovarono questi nell'Arcivescovo di Ravenna un rivale pericoloso268: sdegnarono i Nobili e il popolo il giogo d'un prete; e in mezzo ai disordini di quei tempi non poterono i Pontefici di Roma ritenere che la memoria d'un'antica pretensione, che in una epoca più favorevole rinnovarono con prospero evento.

La frode è l'arme della debolezza e dell'astuzia, e Barbari possenti, ma ignoranti, caddero ben spesso nei lacci della politica sacerdotale. Erano il Vaticano e il palazzo269 di Laterano un arsenale ed una manifattura, che secondo le occasioni produceano o celavano una copiosa raccolta d'Atti veri o falsi, corrotti o sospetti, favorevoli agl'interessi della Chiesa romana. Prima della fine del secolo ottavo, qualche scriba della Santa Sede, forse il famoso Isidoro, fabbricò le Decretali e la donazione di Costantino, quelle due colonne della monarchia spirituale e temporale dei Papi. Fu mentovata quella memoranda donazione, per la prima volta, in una lettera d'Adriano I, il quale esortava Carlomagno ad imitare la liberalità del Gran Costantino, ed a farne rivivere il nome270. Secondo la leggenda, aveva San Silvestro, Vescovo di Roma, guarito dalla lebbra, e purificato nell'acque battesimali il primo degl'Imperatori cristiani, nè medico alcuno fu mai tanto ricompensato. Erasi il neofito reale allontanato dalla residenza e dal patrimonio di San Pietro: aveva dichiarato la sua risoluzione di fondare una nuova capitale in Oriente, e aveva abbandonata ai Papi l'intiera e perpetua sovranità di Roma, dell'Italia e delle province dell'Occidente.271 Produsse una tale finzione gli effetti i più vantaggiosi. Furono i principi Greci convinti d'usurpazione, e la ribellione di Gregorio272 non fu più considerata che come l'atto, mercè del quale rientrava ne' suoi diritti ad una eredità, che gli apparteneva legittimamente: si sciolsero i Papi dal dovere di gratitudine, poichè l'apparente donazione non era che la giusta restituzione d'una picciola parte dello Stato ecclesiastico. La sovranità di Roma non dipendeva più dalla scelta d'un popolo volubile, e si videro i successori di San Pietro, e di Costantino investiti della porpora e dei diritti dei Cesari. Tanta era l'ignoranza e la credulità di quel secolo, che in Grecia e in Francia si accolse con rispetto la più assurda delle favole, e che trovasi tuttavia fra i decreti della legge canonica273. Nè gl'Imperatori, nè i Romani non furono capaci di discernere una trufferia, che distruggea i diritti degli uni e la libertà degli altri: il solo ostacolo venne da un monastero della Sabinia, che sul principio del duodecimo secolo contrastò l'autenticità e la validità della donazione di Costantino274. Al risorgere delle lettere e della libertà fu quel falso atto trafitto dalla penna di Lorenzo Valla, critico eloquente, e Romano pieno di patriottismo275. Stupirono i suoi contemporanei del suo audace sacrilegio; ma tal'è il tacito ed irresistibile progresso della ragione, che avanti la fine del secolo vegnente, era quella favola rigettata con disprezzo dagli Storici276, dai Poeti277, e dalla censura tacita e moderata dei difensori della Chiesa di Roma278. I Papi sorrisero anch'essi alla pubblica credulità279: ma questo titolo, supposto e disusato, continuò a santificare il loro regno; e per un accidente felice al pari di quello che preservò le decretali e gli oracoli della Sibilla, distrutte le fondamenta, l'edificio non ruinò.

235.Trascriverò qui il passaggio ragguardevole e decisivo del Liber pontificalis. Respiciens ergo pius vir profanam principis jussionem, jam contra imperatorem quasi contra HOSTEM se armavit, renuens haeresim ejus, scribens ubique se cavere christianos eo quod orta fuisset, impietas talis. IGITUR permoti omnes Pentapolenses, atque Venetiarum exercitus contra imperatoris jussionem restituerunt: dicentes se nunquam in ejusdem pontificis condescendere necem, sed pro ejus magis defensione viriliter decertare (p. 156).
236.Un census o capitazione, dice Anastasio (p. 156), tassa crudele e ignota agli stessi Saracini, esclama lo zelante Maimbourg (Histoire des Iconoclastes, l. I), e Teofane (p. 344), che ricorda l'enumerazione dei maschi d'Israele, ordinata da Faraone. Questa forma di gabella era famigliare ai Saracini, e sgraziatamente per Maimbourg, Luigi XIV suo protettore la introdusse in Francia pochi anni dopo.
237.V. il Liber pontificalis d'Agnellus (nei Scriptores rerum italicarum di Muratori, t. II part. I). Scorgesi in questo scrittore un color più carico di barbarismo, d'onde risulta, ch'erano i costumi di Ravenna un pò differenti da quelli di Roma. Gli siamo però debitori di alcuni fatti curiosi e particolari di quella città. Egli ci dà a conoscere i quartieri e le fazioni di Ravenna (p. 154), la vendetta di Giustiniano II (p. 160, 161) e la sconfitta dei Greci (p. 170, 171), etc.
238.È chiaro, che i termini del decreto comprendeano Leone si quis… imaginum sacrarum… destructor… extiterit, sit extorris a corpore D. N. Jesu-Christi, vel totius Ecclesiae unitate. Tocca ai Canonisti a decidere se basti il delitto per avere la scomunica, o se bisogna essere nominato nel decreto. E questa decisione interessa estremamente la sicurezza degli scomunicati, poichè l'oracolo (Gratien, Caus., 23, q. 5, c. 47, apud Spanheim, Hist. immag. p. 112) dice: homicidas non esse qui excommunicatos trucidant.
239.Compescuit tale consilium pontifex, sperans conversionem principis (Anastasio, p. 156). Sed ne desisterent ab amore et fide R. J. admonebat. (p. 157) Danno i Papi a Leone e a Costantino Copronimo i titoli d'imperatores e di domini, accompagnati dallo strano epiteto di piissimi. Un celebre mosaico del palazzo di Laterano (A. D. 798) rappresenta Gesù Cristo che consegna le chiavi di San Pietro e lo stendardo a Costantino V. (Muratori, Annali d'Italia, t. VI; p. 337.)
240.Indicai l'estensione del Ducato di Roma secondo le carte geografiche, e mi servii di queste carte secondo l'eccellente dissertazione del padre Beretti (Chorographia Italiae medii aevi, sect. 20, p. 216-232). Devo per altro notare, essere stato Viterbo fondato dai Lombardi (p. 211), e Terracina presa dai Greci.
241.Si leggeranno con piacere nel Discorso preliminare della République romaine, opera del Signor di Beaufort, (t. I.) le particolarità concernenti all'estensione, alla popolazione etc. del Regno romano: non si accuserà quest'autore di troppa credenza pei primi secoli di Roma.
242.Non è superstizione, come dice sempre l'Autore, il culto delle Immagini bene inteso, e prestato secondo il sentimento della Chiesa. È poi vero che le controversie, le sollevazioni per cotal contrattato culto, produssero un nuovo governo in Roma, e diedero occasione alla sovranità dei Papi. (N. di N. N.)
243.Quos (Romanos) non Langobardi scilicet, Saxones, Franci, Lotharingi, Bajoarii, Suevii, Burgundiones, tanto dedignamur ut inimicos nostros commoti, nihil aliud contumeliarum nisi Romani, dicamus: hoc solo, id est Romanorum nomine, quicquid ignobilitatis, quicquid timiditatis, quicquid avaritiae, quicquid luxuriae, quicquid mendacii, immo quicquid vitiorum est comprehendentes. (Luitprando, in legat. script. Ital., t. II, p. 481). Minosse avrebbe potuto imporre a Catone o a Cicerone, in penitenza dei loro peccati, l'obbligo di leggere ogni giorno questo passaggio d'un Barbaro.
244.Pipino, Regi Francorum, omni senatus, atque universa populi generalitas a Deo servatae romanae urbis. (Codex Carolin. epist. 36, in script. Ital., t. III, part. II, p. 160). I nomi di senatus e di senator non furono mai al tutto annichilati (Dissert. chorograph., p. 216, 217). Ma nell'età media essi non significarono nient'altro che nobiles, optimates, ec. (Ducange, Gloss. latin.)
245.Vedi Muratori, Antiq. Ital. medii aevi, t. II. Dissert. 27, p. 548. Sopra una di quelle monete leggesi Hadrianus Papa (A. D. 772), sul rovescio, Vict. DDNN, colla parola CONOB, che il padre Ioubert (Science des médailles, t. II, p. 42) spiega per CONstantinopoli Officina B, (secunda).
246.Vedi la dissertazione di West sui Giuochi Olimpici (Pindaro, vol. 2, p. 32-36: ediz. in 12), e le giudiziose riflessioni di Polibio (t. I., l. IV, p. 466, ediz. di Gronov.)
247.Sigonio (De regno Ital. l. III, opera, t. II, p. 173) mette in bocca a Gregorio un discorso al Re dei Lombardi, in cui v'ha l'audacia e il coraggio di quelli di Salustio e di Tito Livio.
248.Due storici veneziani, Giovanni Sagorino (Chron. Venet. p. 13) e il doge Andrea Dandolo (Script. rer. Ital., t. XII, p. 135) conservarono quest'Epistola di Gregorio. Paolo Diacono (De gest. Langobard., l. VI, c. 49-54, in script. Ital. t. I, part. I, p. 506-508) fa menzione della perdita e della ripresa di Ravenna; ma non possono i nostri cronologisti Pagi e Muratori ec., accertare nè l'epoca di questo avvenimento, nè le circostanze che l'accompagnarono.
249.Quest'incertezza è fondata sulle varie lezioni del manoscritto d'Anastasio: leggesi nell'una deceperat e nell'altra decerpserat (Scriptor. Ital., tom. III, part. I, p. 167).
250.Il Codex Carolinus è una raccolta di lettere dei Papi a Carlo Martello (ch'essi chiamarono Subregulus), a Pipino e a Carlomagno; giungono fino all'anno 791, epoca in cui l'ultimo di que' principi le unì insieme. Il manoscritto originale e autentico (Bibliothecae Cubicularis) è oggigiorno nella Biblioteca imperiale di Vienna, e fu pubblicato da Lambecio e da Muratori (Script. rer. Ital., t. III, part. II, 75. ec.)
251.Vedi questa lettera straordinaria nel Codex Carolinus, epist. 3, p. 92. I nemici dei Papi accusarono Stefano di superchieria e di bestemmia; era però intenzione di quel Pontefice più di persuadere che d'ingannare. Era questo metodo di far parlare i morti o gl'immortali familiare agli antichi oratori; ma bisogna confessare ch'esso fu impiegato in tale occasione colla rozzezza dell'epoca di cui parliamo.
252.Trascurarono per altro questa precauzione quando si trattò del divorzio della figlia di Desiderio, ripudiata da Carlomagno, sine aliquo crimine. Il Papa Stefano IV erasi opposto con furore al matrimonio d'un nobile Franco, cum perfida, horrida, nec dicenda, faetentissima natione Langobardorum, alla quale attribuisce l'origine della lebbra (Cod. Carol. epist. 45, p. 178, 179). Un'altra ragione contro quel matrimonio era l'esistenza d'una prima moglie. (Muratori, Ann. d'Ital., t. VI, p. 232, 233-236, 237.) Ma Carlomagno si facea lecito la poligamia o il concubinato.
253.Vedi gli Annali d'Italia del Muratori, t. VI, e le tre prime Dissertazioni delle sue Antiquitat. Italiae medii aevi, t. I.
254.Oltre gli storici ordinarii, tre critici francesi, Launoy (Opera, t. V. part. II, l. VII, epist. 9. p. 477-487), Pagi (Critica, A. D. 751; num. 1-6; A. D. 752, num. 1-10) e Natalis Alexander (Hist. Novi Testamenti, Dissertat. 2; p. 96-107) trattarono dottamente, e con accuratezza questo soggetto del discacciamento di Childerico, ma dando un contorno ai fatti per salvare l'independenza della corona. Si trovarono però terribilmente angustiati dai passaggi che traggono da Eginardo, da Teofane e dagli antichi Annali Laureshamenses, Fuldenses, Loisielani.
255.Non è maraviglia che in quei tempi d'ignoranza di tutte le cose, e di confusione di tutte le idee, un vasto campo si sia presentato ad alcuni Papi per estendere grandemente con molti disordini ed abusi il loro potere, e per trasformarlo a danno dei diritti dei re e dei governi, e tacendo le affievolite leggi, e le volontà, sieno in Europa, divenuti gli oracoli in ogni argomento civile, e politico; ma gli abusi non somministrano ragioni di offendere la religione. (Nota di N. N.)
256.Non fu assolutamente allora la prima volta che si usò l'unzione dei re d'Israele; se ne fece uso sopra un teatro meno cospicuo nel sesto e settimo secolo dai Vescovi della Brettagna e della Spagna. L'unzione reale di Costantinopoli fu presa ad imprestito dai Latini nell'ultima epoca dell'Impero. Costantino Manasse parla di quella di Carlomagno come d'una cerimonia straniera, giudaica e incomprensibile. Vedi i Titoli d'onore di Selden nelle sue opere, vol. 3, part. 1. p. 234-249.
257.Quantunque, a dir vero, gli Imperatori romani cristiani e cattolici del quarto, e quinto secolo, non sieno stati unti, non può chiamarsi superstiziosa la cerimonia dell'unzione, che, sebbene in origine ebraica, non fu o condannata, o tolta via dal cristianesimo, che riformando il giudaismo su d'esso essenzialmente si fondò; e poi cotal cerimonia serviva e serve a rendere specialmente per il volgo più rispettabili i sovrani, i quali lo sono grandemente per gli uomini ragionevoli, e fedeli, anche senza la cerimonia anzidetta. (Nota di N. N.)
258.Vedi Eginardo, in vita Caroli Magni, c. 1, p. 9, ec. c. 3, p. 24. Childerico fu deposto, jussu, e la razza Carlovingia ristabilita sul trono, auctoritate pontificis romani. Launoy ed altri scrittori pretendono che quest'energiche parole sono suscettive d'un'interpretazione assai mite; sia pure; ma Eginardo conosceva bene il Mondo, la Corte e la lingua latina.
259.Vedi sul titolo e sui poteri di patrizio di Roma, Ducange (Gloss. lat., t. V, p. 148-151), Pagi (Crit., A. D. 740; num. 6-11), Muratori (Annali d'Italia, tom. VI, 308-329) e Saint-Marc (Abrégé chronologique de l'Italie, t. I, p. 379-382). Di tutti questi scrittori il Francescano Pagi è più disposto a ravvisare nel patrizio un luogotenente della Chiesa, anzi che dell'Impero.
260.Possono i difensori del Papa rattemperare il significato simbolico della bandiera e delle chiavi; ma sembra che le parole ad regnum dimisimus o direximus (Codex Carol. epist. I, t. III, part. II, p. 76) non ammettino nè palliativi nè sutterfugii. Nel manoscritto della Biblioteca di Vienna leggesi rogum, preghiera o supplica, in vece di regnum (Vedi Ducange), e questa rilevante correzione distrugge il titolo regio di Carlo Martello. (Catalani, nelle sue Prefazioni critiche degli Annali d'Italia, t. XVII, p. 95-99.)
261.Leggesi nel Liber pontificalis, che contiene relazioni autentiche intorno a quel ricevimento: Obviam illi ejus sanctitas dirigens venerabiles cruces, id est signa; sicut mos est ad exarchum aut patricium suscipiendum, eum cum ingenti honore suscipi fecit (t. III, part. I., p. 185).
262.Paolo Diacono, che scrisse prima dell'epoca in cui assunse Carlomagno il titolo d'Imperatore, parla di Roma come d'una città suddita di questo principe. Vestrae civitates (ad Pompeium Festum) suis addidit sceptris (De Metensis Ecclesiae episcopis). Alcune medaglie carlovingie coniate a Roma, guidarono Le Blanc in una dissertazione elaborata, ma molto parziale, risguardante l'autorità che aveano i Re di Francia su Roma, in qualità di patrizii e d'Imperatori. (Amsterdam, 1692, in 4.)
263.Mosheim (Instit. Hist. eccl., p. 263) esamina questa donazione con pari saggezza e buona fede. L'Atto originale non è mai stato prodotto; ma il Liber pontificalis descrive questo bel presente (p. 171), e il Codex Carolinus lo suppone. Sono queste due Opere monumenti contemporanei, ed è l'ultimo ancor più autentico, perchè fu conservato nella Biblioteca dell'Imperatore, e non in quella del Papa.
264.Tra le pretensioni esorbitanti e le concessioni assai limitate dell'interesse e del pregiudizio, di cui non è esente lo stesso Muratori (Antiquitat., t. I, p. 65-68), nel determinare i confini dell'Esarcato e della Pentapoli presi a guida la Dissert. chorograph. Italiae medii aevi, t. X, p. 160-180.
265.Spoletini deprecati sunt, ut eos in servitio B. Petri reciperet et more Romanorum tonsurari faceret (Anastasio p. 185); ma si può domandare, se essi diedero sè stessi o il loro paese.
266.Saint-Marc (Abrégé, t. 1, p. 390-408) che ha bene studiato il Codex Carolinus, esamina accuratamente qual fu la politica e quale la donazione di Carlomagno. Credo con lui che quella donazione non fu che verbale. L'Atto il più antico di donazione che si produce è quello dell'Imperatore Luigi il Pio (Sigonio, De regno Italiae, l. IV, Opera, t. II, p. 267-270). Si dubita assai della sua autenticità, o almeno della sua integrità (Pagi, A. D. 817, num. 7, ec; Muratori, Annali, t. VI, p. 432, ec; Dissertat. chorographica, p. 33, 34); ma non trovo negli autori alcuna ragionevole obiezione fondata sul modo con cui disponeano que' principi liberamente di ciò che loro non apparteneva.
267.Domandò Carlomagno i mosaici del palazzo di Ravenna ad Adriano I, cui apparteneano; li ottenne; voleva abbellire con essi Aquisgrana (Codex Carol., epist. 67, p. 223).
268.I Papi si lamentavano spesso delle usurpazioni di Leone di Ravenna (Codex Carol., epist. 51, 52, 53, p. 200-205). Si corpus S. Andreae, fratris Germani S. Petri, hic humasset, nequequam nos romani pontifices sic subjugassent (Agnellus, Liber pontificalis, in Script. rerum ital., t. II, part. I, p. 107).
269.La occultazione, o fabbricazione di documenti si fece per altro per promuovere ed aggrandire la signoria temporale de' Papi, e non nelle cose intrinseche alla religione; e poi anche non consta ch'essi espressamente abbiano dato cotal ordine; ciò avvenne per opera dei loro ministri, zelanti di promuoverne la potestà temporale, e la sovranità. Non può negarsi la falsità della donazione di Costantino: se ne ignora l'autore: tutti gli eruditi anche cattolici lo confessano; (Vedi anche Petrus de Marca Archiep. Paris, De ficta donatione Constantini.) La falsità delle lettere decretali de' primi Papi fino a Siricio comparve verso la metà del secolo nono, fu riconosciuta per ragioni evidenti da tutti i critici ed eruditi non molto dopo il Concilio di Trento: lo stesso Cardinal Baronio (annali an. 865) e lo stesso Cardinal Bellarmino (de Rom. Pontifice l. 2.) non la negano. Quello che la distese fu un certo Vescovo Isidoro Mercatore (Hincmaro Opuu) aiutato da un monaco: vennero di Spagna, e per opera di Riculfo, Vescovo di Magonza, divotissimo de' Papi, furono divulgate ed acquistarono credito. Nicolò I, ed i suoi successori, nel secolo nono e decimo, vennero a capo di farle ricevere da' Vescovi, e da tutti furono presentate a' Sovrani di que' dì, ed inserite nelle Collezioni di Diritto canonico; finalmente anche il monaco Graziano le pose nella sua autorevole, ed amplissima Collezione, e divennero testo in tutte le scuole degli ecclesiastici, ed in tutte le Università nelle cattedre di Diritto. Furono citate in alcuni Concilii, e riputate autentiche. I Vescovi di Francia per altro furono gli ultimi ad accettarle: tandem eo adventum est ut tantis nominibus veterum Pontificum cesserint una cum reliquis episcopis etiam Gallicanae ecclesiae rectores. (De Marca l. 3. c. 5) Accrebbero grandemente l'autorità dei Papi nelle cose ecclesiastiche, civili, e politiche. Di esse dice il dotto Benedettino Padre Coustan nella sua prefazione: Porro hac fraude quam sit perniciose de ecclesia meritus (Isidorus) vix dici potest: hinc debilitati penitus fraetique disciplinae nervi, perturbata episcoporum jura, sublatae judiciorum leges ex probrata catholicis nimia credulitas, fuco fasi ec. Diedero grande motivo a' protestanti di far accuse a' cattolici. (Nota di N. N.)
270.Piissimo Constantino magno, per ejus largitatem S. R. Ecclesia elevata et exaltata est, et potestatem in his Hesperiae partibus largiri dignatus est… Quia ecce novus Constantinus his temporibus ec. (Cod. Carol. epist. 49, in t. III, part. II, p. 195). Pagi (Critica, A. D. 324, num. 16) li attribuisce ad un impostore dell'ottavo secolo, che prese il nome di Sant'Isidoro. Il suo umile titolo di peccator fu cangiato per ignoranza, ma acconciamente, in quello di mercator. Ebbero in fatti quegli scritti supposti uno spaccio felice, e pochi fogli di carta furono pagati con tante ricchezze e tanto potere.
271.Fabricio (Bibl. graec., t. VI, p. 4-7) ha accennato le varie edizioni di quest'Atto in greco e in latino. Sembra che la copia riferita da Lorenzo Valla, e da lui medesimo rigettata, sia stata fatta sugli Atti supposti di San Silvestro, o sul decreto di Graziano, al quale, secondo lui ed altri scrittori, fu aggiunta di soppiatto.
272.Non può chiamarsi ribellione la forte opposizione di Gregorio II in Italia all'Iconoclastia dell'Imperatore Leone; se poi per questa i popoli d'Italia, avvertiti da Gregorio dell'errore, si sollevarono, si ribellarono, ciò fu un effetto di quella, giacchè quei popoli volevano le Immagini, e non una ribellione di Gregorio, che fu invano anche accusato da' malevoli d'aver impedito l'esazione di una gravezza. Gregorio, ch'era allora suddito dell'Imperatore, conosceva i doveri della suddittanza. (Nota di N. N.)
273.Nel 1059, secondo l'opinione del Papa Leone IX e del cardinale Pietro Damiano, (veramente loro opinione?) colloca Muratori (Annali d'Italia, tom. IX, pag. 23, 24) le pretese donazioni di Luigi il Pio, d'Ottone, ec. (De Donatione Constantini. Vedi una Dissertazione di Natalis Alexander, seculum 4, Dissert. 25, p. 335-350).
274.Vedi un racconto circostanziato di questa controversia (A. D. 1105) che si levò in occasione d'un processo nel Chronicon Farsense (Script. rer. ital., t. II, part. II, p. 637, ec.), e un copioso estratto degli archivi di quell'abbazia di Benedettini. Erano altre volte quegli archivi accessibili alla curiosità degli stranieri (Le Blanc e Mabillon), e quello ch'essi contengono avrebbero arricchito il primo volume dell'Historia monastica Italiae di Quirini; ma la timida politica della Corte di Roma li tiene oggigiorno chiusi (Muratori, Script. rerum ital., t. II, part. II, p. 269); e Quirini, che pensava al cappello di Cardinale, cedette alla voce dell'autorità, ed alle insinuazioni dell'ambizione. (Quirini, Comment., part. II, p. 123-136.)
275.Lessi nella raccolta di Scardio (De potestate imperiali ecclesiastica, p. 734-780) questo discorso animato, composto da Valla (A. D. 1440) sei anni dopo la fuga del Papa Eugenio IV. È un'operetta assai veemente, e dettata dallo spirito di parte. L'autore giustifica ed eccita la ribellione dei Romani, e vedesi ch'egli avrebbe approvato l'uso del pugnale contro il loro tiranno sacerdotale. Sì fatta critica dovea aspettarsi la persecuzione del clero; pure Valla si riconciliò e fu sepolto nel Laterano (Bayle, Diction. critique, art. Valla; Vossio, De Histor. latin. p. 580.)
276.Vedi Guicciardini, servo dei Papi, in quella lunga e preziosa digressione, che ripigliò il suo luogo nell'ultima edizione correttissima, fatta sul manoscritto dell'autore, e stampata in quattro volumi in 4, sotto il nome di Friburgo 1775 (Istoria d'Italia, t. I, p. 385-395).
277.Il Paladino Astolfo trovò quell'Atto nella luna fra le cose perdute nel nostro Mondo (Orlando Furioso XXXIV, 80).
Di varii fiori ad un gran monte passa,Ch'ebbe già buono odore, or putia forte.Questo era il dono (se però dir lece)Che Constantino al buon Silvestro fece.  E pure questo poema incomparabile fu approvato da una Bolla del Papa Leone X.
278.Vedi Baronio, A. D. 324 num. 117-123; A. D. 1191, num. 51 etc. Vorrebbe supporre, che Costantino offerì Roma a Silvestro, e che questo Papa la ricusò. Ha un'idea stravagantissima dell'Atto di donazione; la crede opera dei Greci.
279.«Baronius n'en dit guère contre; encore en a t-il trop dit, et l'on voulait sans moi (cardinal du Perron) qui l'empêchai, censurer cette partie de son histoire. J'en devisai un jour avec le pape, et il ne me répondit autre chose: Che volete? i canonici la leggono; il le disait en riant.» (Perroniana p. 77.)
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
410 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain