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Kitabı oku: «Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 9», sayfa 6

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L'Imperatore Eraclio avea punito un tiranno, si era impadronito del trono, e il suo regno era divenuto memorabile pel conquisto momentaneo, e per la perdita irreparabile delle province d'Oriente. Morta Eudossia, sua prima moglie, non volle obbedire al Patriarca, sposando sua nipote Martina; violò le leggi, e la superstizion dei Greci credè vedere un giudizio del cielo nelle malattie del padre e nella deformità dei figli; ma potendo la fama d'una nascita illegittima impedir l'elezione, o infievolire la docilità del popolo, ne avvenne, che la materna tenerezza, e forse anche la gelosia d'una suocera animassero vie più l'operosa ambizion di Martina, mentre a suo marito di già innoltrato negli anni, non bastava l'animo a resistere alle seduzioni, ed alle carezze d'una sposa. Costantino, suo figlio maggiore, ottenne in età matura il titolo d'Augusto; ma col suo meschino temperamento avea mestieri d'un collega, e d'un tutore, e però acconsentì, non senza una secreta ripugnanza, a dividere con altri l'Impero. Fu radunato in Corte il senato per ratificare, o attestare la successione di Eracleone, figlio di Martina: si consacrò l'imposizion del diadema con le preghiere e la benedizione del Patriarca; i senatori e i patrizi adorarono la maestà dell'Imperatore, e quella de' suoi colleghi, e come furono aperte le porte, la voce tumultuosa, ma importante, de' soldati acclamò i tre principi. Dopo uno spazio di cinque mesi si celebrarono nella cattedrale, o nell'Ippodromo cerimonie, che sole formavano, per quanto pareva, la costituzion dello Stato per dimostrare la buona concordia de' due fratelli, comparve il più giovine appoggiato al braccio del maggiore, e le grida d'una popolazione venduta, o sedotta dal timore, congiunsero il nome di Martina a quelli di Costantino e d'Eracleone. Non sopravvisse Eraclio più di due anni a questa associazione: col suo testamento nominò i suoi due figli eredi dell'Impero d'Oriente con un potere uguale, e ordinò, che onorassero Martina come la lor madre e sovrana.

A. D. 641

Non così tosto si mostrò Martina per la prima volta sul trono, col titolo e co' privilegi di regnante, che trovò una forte, benchè rispettosa opposizione; e dai pregiudizi superstiziosi si videro risplendere le ultime faville della libertà. «Noi veneriamo la madre de' nostri principi, esclamò un cittadino; ma questi principi sono i soli, cui dobbiamo obbedire, e Costantino, il primogenito de' nostri due Imperatori è in un'età da sostenere il peso della corona. La natura ha escluso il tuo sesso dalle cure del governo. Se i Barbari s'accostassero alla città reale, sia in figura di nemici, sia con intenzioni pacifiche, potresti tu combatterli, sapresti tu rispondere? I Persiani stessi, che pur sono schiavi, non potrebbero sofferire il governo d'una donna. Preservi il cielo per sempre la Repubblica romana da un avvenimento che sarebbe il disdoro della nazione»! Martina, tutta sdegnata, discese dal trono, e si ritirò nell'appartamento della Corte, abitato dalle donne. Centotre giorni durò il regno di Costantino III. Finì nell'età di trent'anni una vita che non era stata che una malattia continua; la sua morte prematura fu per altro attribuita alla suocera, la quale, fu voce, impiegasse il veleno. Di fatto ella raccolse i frutti di questa morte, e insignorissi del governo in nome d'Eraclio; il popolo, che sospettava di costei rivolse le sue sollecitudini alla conservazione dei due orfani, lasciati da Costantino. Invano il figlio di Martina, nell'età di quindici soli anni, ammaestrato dalla madre dichiarò, che sarebbe il tutore de' suoi nipoti, uno de' quali era stato da lui tenuto al Sacro Fonte; in vano giurò sulla vera Croce, che difesi li avrebbe da tutti i nemici. Poche ore prima di morire avea l'ultimo Imperatore spedito un servo fedele ad armare gli eserciti e le province dell'Oriente, in favor degli orfani, ch'egli lasciava in mani sospette; l'eloquenza e la liberalità di Valentino gli aveano promesso buon esito, e dal suo campo di Calcedonia osò questi richiedere, che fossero puniti gli assassini, e rimesso in trono l'erede legittimo. Dalla licenza dei soldati, che saccheggiarono le viti, e ingollavano il vino dei demanii asiatici, appartenenti agli abitatori di Costantinopoli, furono questi ultimi mossi a vendetta contro gli autori delle lor disgrazie, e s'intese risuonare la chiesa di Santa Sofia, non già di cantici e di orazioni, ma delle grida e delle imprecazioni d'una plebe furiosa. Eracleone, chiamato da voci imperiose, comparve in pulpito col primogenito dei due orfanelli; Costanzo solo fu acclamato Imperator dei Romani, e colla benedizione solenne del Patriarca, gli fu posta in capo una corona d'oro, tolta dalla tomba d'Eraclio. Ma fra i tumulti della gioia e dell'ira, la chiesa fu messa a ruba; i Giudei e i Barbari profanarono il santuario, e Pirro settario dell'eresia dei Monoteliti, e creatura dell'Imperatrice, per sottrarsi alla violenza de' cattolici, pigliò saviamente il partito di fuggirsene, dopo aver lasciato la sua protesta sull'altare. Il senato, che avea momentaneamente ricuperata qualche autorità dall'assenso de' soldati e del popolo, doveva adempiere uffici più seri e più sanguinari. Caldo del fuoco della libertà romana, rinnovò l'antico grandioso spettacolo d'un tiranno giudicato dal popolo; Martina, e suo figlio furon deposti, e condannati come autori della morte di Costantino; ma la severa giustizia dei Padri Coscritti fu contaminata da una crudeltà che confuse l'innocente col reo. Martina ed Eracleone furono condannati ad avere l'una la lingua tagliata, e l'altro il naso; e dopo questa barbara esecuzione chiusero entrambi il rimanente de' loro giorni nell'esilio e nell'obblivione; e quei Greci, ch'erano capaci di qualche riflessione dovettero in certo modo consolarsi della servitù, osservando sin dove può trascorrere l'abuso del potere, posto per un istante nelle mani dell'aristocrazia.

Quando si legge il discorso pronunciato da Costanzo II in età di dodici anni davanti il Senato bizantino, pare che siamo tornati indietro cinque secoli ai tempi degli Antonini. Dopo avergli renduto grazie della pena giustamente data agli assassini, che rapite aveano alla nazione le belle speranze del regno di suo padre, soggiunse il giovine principe: «La divina provvidenza, e il vostro saggio decreto hanno balzata dal soglio Martina, e la sua incestuosa progenie. La vostra maestà, la vostra sapienza hanno impedito che l'Impero romano degeneri in una tirannide, che non conosca più leggi. Io vi domando istantemente, e vi esorto di consacrare al ben pubblico i consigli, e la prudenza vostra». Questo linguaggio officioso, accompagnato da grandi liberalità soddisfece molto i Senatori; ma non eran degni i venali Greci d'una libertà, che non sapeano apprezzare abbastanza, e i pregiudizi del tempo, l'abitudine al dispotismo cancellaron ben presto dalla memoria del nuovo Imperatore una lezione, che l'aveva occupato per pochi momenti. Non gli rimase che un timore, un'inquietudine, che mai qualche giorno il senato o il popolo invadesse il diritto di primogenitura, e collocasse il fratello Teodosio sul trono con autorità uguale alla sua. Il nipote d'Eraclio, promosso agli Ordini sacri, divenne inabile per la porpora; ma questa cerimonia, che profanava i Sacramenti della Chiesa, non bastò ad acquetare i sospetti del tiranno; e solamente la morte del diacono Teodosio valse ad espiare il delitto della sua regia estrazione. Dalle imprecazioni del popolo fu vendicato questo assassinio, e l'uccisore, che pur godeva tutta la pienezza del potere, fu obbligato a condannarsi da sè ad un esilio perpetuo. Costanzo s'imbarcò per la Grecia; e quasi volesse rendere alla patria quei sentimenti d'abbominazione, ch'egli meritava da lei, è fama, che dalla sua galea imperiale sputasse contro le mura di Costantinopoli. Dopo avere svernato in Atene, si trasferì a Taranto in Italia, visitò Roma, ed in Siracusa, ove fermò la residenza, finì questo vergognoso viaggio marcato in tutto il suo corso da rapine sacrileghe; ma se potè involarsi agli sguardi del suo popolo, non poteva fuggire sè stesso: i rimorsi della sua coscienza gli crearono un fantasma che lo perseguitò per terra e per mare, notte e giorno. Credea sempre vedersi in faccia la figura di Teodosio, che presentandogli una coppa piena di sangue, e appressandogliela alle labbra, dicevagli, o parea che gli dicesse: «Bevi fratello, bevi»; allusione alla circostanza che aggravava il suo delitto, poichè avea ricevuto dalle mani del Diacono la coppa misteriosa del Sangue di Cristo. In odio a sè stesso, in odio al genere umano, morì nella capitale della Sicilia per un tradimento domestico, e forse per una cospirazione de' Vescovi. Un servo che l'assisteva al bagno, dopo avergli versato acqua calda sul capo, lo colpì violentemente col vaso che teneva in mano; cadde il principe sbalordito dal colpo, e soffocato dal calore dell'acqua; il suo corteggio non vedendolo ricomparire, corse colà, e riconobbe, senza commoversi, ch'egli era morto. Le soldatesche della Sicilia vestirono della porpora un giovinetto oscuro, ma d'una bellezza inimitabile, che non poteva, come è facile a credersi, essere ritratta dai pittori, nè dagli scultori d'allora.

A. D. 668

Costanzo avea lasciato tre figli nel palazzo di Bizanzio; il primogenito avea ricevuto la porpora sin dall'infanzia. Quando ordinò che venissero a trovarlo in Sicilia, i Greci che voleano custodire quelli ostaggi preziosi, risposero, che quelli erano figli dello Stato, e che non doveano partire. Giunse la nuova della sua morte da Siracusa a Costantinopoli con una rapidità straordinaria, e Costantino, il primogenito de' suoi figli, fu l'erede del suo trono, senza ereditare l'odio del Pubblico. Con grande zelo ed ardenza concorsero i sudditi a punire quella provincia, che aveva usurpato i diritti del Senato e del Popolo: il giovane Imperatore salpò dall'Ellesponto con una squadra numerosa, e raccolse sotto le sue insegne, nel porto di Siracusa, le legioni di Roma e di Cartagine. Agevole cosa era lo sconfiggere l'Imperatore acclamato dai Siciliani, e giusta ne era la morte; la sua bella testa fu esposta nell'Ippodromo; ma non posso applaudire alla clemenza d'un Principe che nel gran numero delle sue vittime comprese il figlio d'un patrizio, che non avea altra colpa che d'aver amaramente deplorato il supplizio d'un padre virtuoso. Questo giovine, chiamato Germano, fu condannato ad una mutilazione ignominiosa: ma sopravvisse a questa crudele operazione, ed elevato poscia alla dignità di Patriarca e di Santo, ha conservata la memoria dell'indecente atrocità dell'Imperatore. Dopo avere offerti all'ombra del padre sagrifici così sanguinosi, ritornò Costantino alla sua capitale, ed essendogli spuntata la barba nel suo viaggio di Sicilia, questa circostanza fu divulgata all'Universo col soprannome datogli di Pogonate. Il suo regno, come quello del suo predecessore, fu deturpato dalla discordia fraterna. Aveva egli conferito il titolo d'Augusto ad Eraclio e a Tiberio, suoi fratelli; ma non era per essi che un vano titolo, avvegnacchè continuavano a languire nella solitudine del palazzo senza poteri e senza occupazioni. Segretamente istigate da loro le soldatesche del Tema o sia della provincia d'Anatolia, s'appressarono dalla parte dell'Asia a Costantinopoli; chiedendo a favor dei due fratelli di Costantino la divisione o l'esercizio della sovranità, e sostenendo con un argomento teologico questa sediziosa domanda. Gridavano i soldati, essere Cristiani, e Cattolici, e sinceri adoratori della santa ed individua Trinità; e però se regnavano tre persone uguali nel Cielo, era ben ragionevole, che tre persone uguali fossero sulla Terra. L'Imperatore invitò quei bravi dottori ad un'amichevole conferenza, in cui proporre potevano al Senato le loro ragioni: quelli vi andarono; e ben presto lo spettacolo de' loro corpi impesi alle forche nel sobborgo di Galata bastò a riconciliare i lor compagni coll'unità del Regno di Costantino. Il quale perdonò ai fratelli, e lasciò che fossero, come prima, onorati nelle pubbliche acclamazioni; ma divenuti nuovamente colpevoli, o avendone dato nuovamente sospetto, perdettero il titolo d'Augusto, e fu tagliato loro il naso al cospetto de' Vescovi cattolici, che in Costantinopoli componevano il sesto Concilio generale. Pogonate, sul termine della vita, si mostrò sollecito di statuire il diritto di primogenitura. Le capellature de' suoi due figli Giustiniano ed Eraclio furono offerte sopra il deposito di S. Pietro, come Simbolo della spirituale adozione, che ne facea il Papa; ma solamente al primogenito fu conferito il grado d'Augusto, e assicurata la corona.

A. D. 685

Giustiniano II, morto il padre, eredò l'Impero, e il nome d'un legislatore trionfante fu infamato dai vizi d'un giovinastro, che non imitò il riformator delle leggi in altro, fuorchè nel lusso degli edifici. Violente n'erano le passioni, ma debole l'intelletto; esaltava coll'ebbrezza d'uno sciocco orgoglio il diritto di nascita che gli sottometteva milioni d'uomini, quando la più picciola Comunità non l'avrebbe eletto per suo magistrato speciale. Erano i suoi ministri favoriti un eunuco ed un frate, cioè due Esseri, che per la loro condizione erano i meno capaci d'umani affetti: all'uno lasciava in cura il palazzo; all'altro l'erario; il primo castigava a frustate la madre dell'Imperatore; il secondo faceva impendere i debitori insolvibili colla testa abbasso sopra un fuoco lento, che esalava una nube di fumo. Dai giorni di Commodo o di Caracalla in poi il timore era stato il movente ordinario della crudeltà nei sovrani di Roma; ma Giustiniano, che aveva qualche vigor di carattere si compiaceva a veder tormentati i sudditi, e affrontò la loro vendetta per dieci anni in circa sino al punto che fu colma la misura de' suoi delitti, e quella della loro pazienza. Leonzio, Generale di grido, avea per più di tre anni languito in un carcere con vari patrizi delle più nobili e degne famiglie; ad un tratto il sovrano lo liberò per dargli il governo della Grecia: questa grazia, conceduta ad un uomo offeso, annunziava disprezzo più che fiducia; mentre i suoi amici l'accompagnavano al porto, ove doveva imbarcarsi, disse loro sospirando, che si ornava la vittima pel sagrifizio, che sarebbe presto seguito dalla morte: ebbero quelli coraggio a rispondergli che forse la gloria e l'Impero sarebbero il guiderdone d'un tentativo generoso; che tutte le classi dello Stato abborrivano il regno d'un mostro, che dugentomila patriotti non aspettavan altro che la voce d'un Capitano. Prescelsero la notte per adempiere la loro liberazione; e ne' primi sforzi de' cospiratori, fu svenato il prefetto della capitale, e forzate le prigioni; per tutte le strade gridavano gli emissari di Leonzio: «Cristiani, a Santa Sofia». Il testo eletto dal Patriarca «ecco il giorno del Signore» fu l'annunzio d'una predica, che fini d'infiammare gli spiriti; il perchè uscendo dalla Chiesa indicò al popolo un'altra adunanza da tenersi nell'Ippodromo. Giustiniano, pel quale non s'era sguainata una sola spada, fu trascinato davanti a quei Giudici furibondi, i quali domandarono, che fosse subitamente punito di morte. Leonzio, già vestito della porpora, vide con occhio di compassione il figlio del suo benefattore, il rampollo di tanti Imperatori, boccone innanzi a sè. Perdonò la vita a Giustiniano; ma gli fu tagliato, benchè imperfettamente, il naso, e forse la lingua. La flessibilità dell'idioma greco gli diede immediatamente il nome di Rhinotmeta: così mutilato il tiranno fu confinato a Cherson, borgo solitario della Tartaria-Crimea, la quale traeva da' paesi vicini vino, biade ed olio, come merci di lusso.

A. D. 695-705

Esule sulla frontiera dei deserti della Scizia, chiudeva sempre in cuore Giustiniano, coll'orgoglio dei natali, la speranza di risalire sul trono. Dopo tre anni d'esilio, ebbe la gioia d'intendere, ch'era stato vendicato da una seconda rivoluzione, e che Leonzio era stato deposto, e mutilato anch'esso dal ribelle Apsimaro, che avea preso il nome più rispettabile di Tiberio. Ma le pretensioni della linea diretta dovean esser temute da un usurpatore, uscito della classe del volgo; e cresceano le sue inquietudini dalle lagnanze di accuse degli abitanti di Cherson, che trovavano i vizi del tiranno nelle azioni del principe sbandito. Giustiniano, seguìto da una masnada di gente, a lui attaccata per la stessa speranza, o per la stessa disperazione, abbandonò quella terra inospitale, e si rifuggì presso i Cozari che accampavano al Tanai e al Boristene. Il Khan, mosso a compassione, trattò con molto riguardo un supplichevole di tal fatta: lo collocò in Fanagoria, città un tempo opulenta, situata sulla riva della palude Meotide, dalla parte dell'Asia. Posti allora in non cale tutti i pregiudizi romani, sposò Giustiniano una sorella del Barbaro, la quale per altro col nome di Teodora dà luogo a credere che fosse battezzata; ma il perfido Khan fu subornato ben presto dall'oro di Costantinopoli, e se non era l'amor di sua moglie, che gli svelò i disegni tramati a suo danno, Giustiniano periva sotto il ferro degli assassini, od era dato in balìa de' suoi nemici. Dopo avere strangolato colle sue mani i due satelliti del Khan, rimandò Teodora a suo fratello, ed egli s'imbarcò su l'Eusino in traccia di più fedeli alleati. Una furiosa tempesta assalì il suo vascello, ed un uomo del suo seguito lo consigliò d'impetrare la misericordia del cielo facendo voto di dare un perdono generale, se mai ricuperasse l'Impero. «Perdonare? esclamò l'intrepido tiranno; piuttosto morire in questo momento! l'Onnipotente mi faccia inghiottire dal mare, s'io consento a risparmiare la testa d'un solo de' miei nemici!» Egli sopravvisse a quest'empia minaccia, entrò nella foce del Danubio, osò arrischiare i passi nel villaggio abitato dal Re de' Bulgari, Terbelis, principe bellicoso e pagano, da cui ottenne soccorsi, promettendo di dargli sua figlia, e di partir seco i tesori dell'Impero. Estendevasi il regno dei Bulgari sino ai confini della Tracia, e i due principi con quindicimila cavalieri si spinsero sotto le mura di Costantinopoli. Fu sbigottito Apsimaro da questa improvvisa comparsa del suo rivale, quando glien'era stata promessa la testa dal Cozaro, e ne ignorava la fuga. Dieci anni d'assenza avean quasi abolita la ricordanza dei delitti di Giustiniano; i suoi natali e le sue disgrazie moveano a pietà la moltitudine sempre malcontenta dei principi che la governano, e quindi per lo zelo, e l'attività de' suoi partigiani fu introdotto nella città e nel palazzo di Costantinopoli.

Nel premiare i suoi alleati, nel richiamare la moglie al suo fianco, dimostrò Giustiniano non essere al tutto scemo dei sentimenti d'onore e di gratitudine. Terbelis si ritirò con un mucchio d'oro, che fu misurato dalla lunghezza della sua frusta. Ma non fu mai adempiuto sì religiosamente un voto, quanto il giuramento di vendetta, pronunciato in mezzo alla procella dell'Eusino. I due usurpatori (così dee dirsi, poichè il nome di tiranno va riservato al vincitore) furono condotti nell'Ippodromo, l'uno dalla sua prigione, l'altro dal palazzo. Leonzio ed Apsimaro, prima che fossero consegnati ai carnefici, incatenati siccome erano, furon distesi sotto il trono dell'Imperatore, e Giustiniano, ponendo un piede sul collo di ciascheduno, guardò per più d'un'ora la corsa dei carri, mentre il popolo, sempre volubile, ripetea quel versetto del Salmista: «Camminerai sull'aspide e sul basilisco, e conculcherai il leone ed il drago.»186 La diserzione universale da lui già provata, potè fargli desiderare, come a Caligola, che il popolo romano non fosse che una testa sola. Osserverò per altro, che questa brama non si addiceva ad un tiranno sagace, imperocchè in vece de' vari tormenti, con cui straziava le vittime della sua collera, avrebbe un colpo solo terminati i piaceri della sua vendetta e crudeltà. E di questi piaceri fu in fatti insaziabile; nè virtù private, nè pubblici servigi valsero ad espiare il delitto d'una obbedienza attiva od anche passiva ad un governo costituito; e ne' sei anni del suo novello regno, la mannaia, la corda, la tortura gli parvero i soli istromenti propri del regno. Ma singolarmente contro gli abitanti di Cherson che l'aveano insultato nell'esilio, e spregiati i doveri dell'ospitalità, diresse egli tutti gli sforzi del suo odio implacabile. Poichè per la rimota lor situazione rimaneva loro qualche via per la difesa o per la fuga, impose a Costantinopoli una tassa, che dovea pagar le spese d'una squadra e d'un esercito da spedire contro essi: «Tutti sono colpevoli, e tutti han da perire;» tale fu l'ordine di Giustiniano, e ad eseguire questo sanguinario decreto elesse Stefano, suo favorito, che gli era caro pel soprannome di Selvaggio. Ma il selvaggio Stefano adempiè imperfettamente alle intenzioni del suo sovrano. La lentezza delle sue mosse diede agio alla maggior parte degli abitanti di ritrarsi nell'interno del paese, ed il ministro delle vendette imperiali si contentò di ridurre in servitù i giovani dei due sessi, di ardere vivi sette dei primarii cittadini, di gettarne venti in mare, e di serbarne quarantadue a ricever la condanna dalla bocca di Giustiniano. Nel ritorno di Stefano la sua squadra si arenò agli scogli delle coste dell'Anatolia; e Giustiniano applaudì alla cortesia dell'Eusino, che aveva in un medesimo naufragio ravvolte tante migliaia dei suoi sudditi e dei suoi nemici; ma pure, sitibondo di sangue, comandò il tiranno una seconda spedizione, che annientasse gli avanzi della colonia da lui proscritta. In quel breve intervallo, erano ritornati i Chersoniti in città, e s'apparecchiavano a perire coll'armi in mano; il Khan dei Cozari aveva abbandonata la causa del suo detestabile cognato; i fuorusciti di tutte le province si raccolsero in Tauride, e Bardane, sotto nome di Filippico, ebbe la porpora. Le milizie imperiali non volendo, nè potendo mandare ad effetto i disegni vendicativi di Giustiniano si sottrassero al suo furore, rinunciando all'obbedienza; l'armata condotta da Filippico approdò felicemente ai porti di Sinopo e di Costantinopoli; tutte le bocche gridarono, morte al tiranno; e tutte le braccia si mossero per darla. Privo d'amici fu abbandonato dai Barbari che lo guardavano, e il colpo che troncò la sua vita, fu celebrato come un atto di patriottismo, e impresa degna di romana virtù. Suo figlio Tiberio s'era ricoverato in una chiesa; ne difendeva la porta sua avola, molto avanzata in età; quell'innocente giovinetto si pose al collo le reliquie più venerate, s'appoggiò con una mano all'altare, coll'altra sulla Croce; ma la furia popolare, quando osa metter sotto i piedi la superstizione, è sorda alle grida dell'umanità; e la stirpe d'Eraclio s'estinse, dopo aver portata la corona per un secolo.

A. D. 711

Fra la caduta della razza degli Eraclidi e l'avvenimento della dinastia Isaurica passa un intervallo di sei soli anni, diviso in tre regni. Bardane o Filippico fu accolto in Costantinopoli come un eroe, che avea liberato dal tiranno la patria, e i primi trasporti d'un giubbilo sincero ed universale gli fecero gustare qualche ora di felicità. Giustiniano avea lasciato un tesoro, frutto delle sue crudeltà e rapine; ma non tardò il successore a dissiparlo in vane prodigalità. Nel giorno anniversario della sua nascita, Filippico diede al popolo i giuochi dell'Ippodromo; girò quindi per tutte le strade preceduto da mille bandiere e da mille trombe. Andò a rinfrescarsi nei bagni di Zeusippo e ritornato in palazzo trattò a sontuoso convito la Nobiltà. Nel dopo pranzo si ritirò nel suo appartamento ebbro d'orgoglio e di vino, senza pensare che le sue fortune aveano fatti ambiziosi tutti i suoi sudditi, e che ogni ambizioso secretamente gli era nemico. In mezzo al rumor della festa, alcuni arditi cospiratori penetrarono nelle sue stanze, sorpresero nel sonno il monarca, lo legarono, gli cavarono gli occhi, e gli tolsero la corona prima ch'egli si accorgesse della grandezza del suo pericolo; ma i traditori non approfittarono del lor delitto; dalla scelta del senato e del popolo fu conferita la porpora ad Artemio, che presso l'Imperatore deposto avea l'impiego di segretario. Il quale prese il nome d'Anastasio II, e nel breve suo regno, pieno di turbolenze, dimostrò tanto in pace che in guerra le virtù che convengono ad un sovrano. Ma coll'estinzione della linea imperiale s'era già rotto il freno dell'obbedienza, ed in ogni esaltazione al trono pullulavano i semi d'un nuovo sconvolgimento politico. In una sollevazione dell'armata navale, un abbietto ufficiale del fisco fu vestito della porpora a suo malgrado. Dopo alcuni mesi di guerra marittima, Anastasio abdicò la corona, e Teodosio III, suo vincitore, si sottomise ancor esso alla prevalenza di Leone, Generale degli eserciti d'Oriente. Fu permesso ad Anastasio e a Teodosio l'abbracciare lo stato ecclesiastico; l'ardente veemenza del primo lo condusse ad avventurare ed a perder la vita in una cospirazione; onorati e tranquilli furon gli ultimi giorni del secondo. Sulla sua tomba non fu scolpita che questa parola «Salute», iscrizione d'una sublime semplicità, che esprime la fiducia della filosofia, o della religione, e il popolo d'Efeso conservò lungo tempo la memoria de' suoi miracoli. Gli esempi offerti dalla Chiesa poterono dare qualche volta utili lezioni di clemenza ai Principi; ma non è poi certo, che scemando i pericoli d'un'ambizione sfortunata, siasi operato per l'interesse del pubblico.

A. D. 718

Dopo essermi fermato sul precipizio d'un tiranno, indicherò in poche parole il fondatore d'una nuova dinastia, noto alla posterità per l'invettive de' suoi avversari, e la cui vita pubblica e privata van congiunte all'istoria degli Iconoclasti. Ad onta dei clamori della superstizione, l'oscurità della nascita e la durata del regno di Leone l'Isaurico inspirano una idea favorevole dell'indole di questo principe. In un secolo maschio l'esca della dignità imperiale avrebbe potuto avvivare tutta l'energia dello spirito umano, e suscitare una folla di competitori tanto degni del trono, quanto animosi ad occuparlo. Anche in mezzo della corruttela e della debolezza dei Greci in quel tempo, la fortuna d'un plebeo, che si sollevò dall'ultimo al primo grado della società, suppone prerogative in lui, superiori all'altezza delle volgari. Vi è ragion di pensare, che questo plebeo non conoscesse, e non curasse le scienze, e che nella sua carriera ambiziosa si dispensasse dai doveri della benevolenza e della giustizia; ma si può credere, che possedesse le virtù più utili, come la prudenza e la forza, e che avesse la cognizione degli uomini, e dell'arte importante di cattivarsi la fiducia, e di dirigere le passioni loro. È opinion generale che Leone fosse nato nell'Isauria, e che portasse da prima il nome di Conone. Certi scrittori, la cui satira inconsiderata può tenergli luogo d'elogio, lo rappresentano come un pezzente, che corresse a piedi da una fiera all'altra d'un paese, menandosi dietro un asino carico di qualche merce di poco prezzo. Narrano in un modo ridicolo, che s'abbattesse per via in alcuni Ebrei, che davano la buona ventura, i quali gli promisero l'Impero romano, purchè abolisse il culto degl'idoli187. Stando ad una versione più probabile, suo padre abbandonò l'Asia Minore per domiciliarsi nella Tracia, ove esercitò l'utile mestiere di mercante di bestiami, nel quale avea certamente fatto gran guadagno se è vero, che, colla somministrazione di cinquecento agnelli, ottenesse che il figlio entrasse al servigio dell'Imperatore. A prima giunta fu collocato Leone nelle guardie di Giustiniano, e non andò guari, che si attirò gli sguardi, poscia i sospetti del tiranno. Si segnalò in valore e in destrezza nella guerra della Colchide. Anastasio gli conferì il comando delle legioni dell'Anatolia, e quando i soldati gli posero in dosso la porpora, fece plauso l'Impero romano a quella elezione. Leone III portato a quella dignità pericolosa, vi si tenne fermo a dispetto dell'invidia de' suoi uguali, del malumore di una fazion terribile, e degli assalti dei nemici domestici e forestieri. Anche i cattolici, benchè esclamino contro le sue novità in materia di religione, son costretti a convenire, che le incominciò con moderazione, e le condusse a termine con fermezza, e nel loro silenzio hanno rispettata la savia sua amministrazione, e i suoi puri costumi. Dopo un regno di ventiquattr'anni se ne morì tranquillo nel suo palazzo di Costantinopoli, e i suoi discendenti redarono sino alla terza generazione quella porpora, che egli s'era acquistata.

A. D. 741

Il regno di Costantino quinto per soprannome Copronimo, figlio e successor di Leone, durò trenta quattr'anni: questi con minor moderazione perseguitò il culto delle Immagini. L'odio religioso vomitò tutto il suo fiele nella dipintura, che i partigiani delle Immagini ci fecero della persona e del regno di questo principe, di questa pantera macchiata, di questo anticristo, di questo drago volante, di questo germe del serpente, che sedusse la prima donna. Al loro dire costui superò nei vizi Elagabalo e Nerone; il suo regno fu un perpetuo macello dei personaggi più nobili, più santi, o più innocenti dell'Impero; assisteva al supplizio delle sue vittime, considerava le convulsioni della loro agonia, ne ascoltava con piacere i gemiti, nè mai potea saziarsi del sangue, che godea di versare: spesse volte battea colle verghe, o mutilava i familiari della sua Casa reale: il soprannome di Copronimo ricordava ch'egli avea lordato di escrementi il Fonte battesimale; veramente l'età potea farne le scuse; ma i solazzi della sua virilità lo fecero inferiore ai bruti; confuse nelle sue dissolutezze tutti i sessi e tutte le spezie, e parve che si compiacesse pur delle cose più ributtanti pei sensi. Quest'Iconoclasta fu eretico, ebreo, maomettano, pagano, ateo; e solamente le sue cerimonie magiche, le vittime umane che immolava, i sagrifizi notturni a Venere e ai demonii dell'antichità, son le prove che abbiamo della sua credenza in Dio. La sua vita fu lorda dei vizi i più contraddittorii, e finalmente le ulceri che copersero il suo corpo gli anticiparono i tormenti dell'inferno. Si confuta da sè medesima l'assurdità d'una parte di queste accuse, che ho avuto la pazienza di copiare; e in ordine ai fatti privati della vita de' principi è troppo facile la menzogna, troppo difficile il ribatterla. Io non mi attengo alla perniciosa massima di credere, che chi è incolpato di molte cose sia necessariamente colpevole di qualcheduna; posso però travedere chiaramente, che Costantino V fosse dissoluto e crudele. È proprietà della calunnia l'esagerare piuttosto, che l'inventare, e il suo linguaggio temerario è in parte frenato dalla notorietà fondata nel secolo e nel paese, da cui trae testimonianza. È indicato il numero de' Vescovi, de' Monaci e de' Generali dalla sua atrocità sagrificati. Erano illustri i lor nomi, pubblica ne fu l'esecuzione, e la mutilazione fu visibile e permanente. Detestavano i cattolici la persona e il governo di Copronimo; ma la loro stessa avversione è un indizio dell'oppressione che soffrivano. Tacciono le colpe cogli insulti che poterono per avventura scusarne o giustificarne il rigore; ma per questi insulti dovette a poco a poco moversi a collera, e indurarsi all'uso ed all'abuso del despotismo; tuttavolta non era Costantino V spoglio di meriti, nè il suo governo fu sempre degno dell'esecrazione o del disprezzo de' Greci. Confessano i suoi nemici, che restaurò un vecchio acquedotto, che riscattò duemila e cinquecento prigionieri, che godettero i popoli sotto il suo regno una insolita abbondanza, che con nuove colonie ripopolò Costantinopoli e le città della Tracia; e a malincuore son costretti a lodarne l'attività ed il coraggio. In battaglia era sempre a cavallo alla fronte delle sue legioni, e quantunque non sieno state sempre fortunate le sue armi, trionfò per terra e per mare, su l'Eufrate e sul Danubio, nella guerra civile come nella barbarica; conviene inoltre, per fare contrappeso alle invettive degli ortodossi, mettere ancora nella bilancia le lodi dategli dagli eretici. Gl'Iconoclasti onorarono le sue virtù, lo considerarono per Santo, e quarant'anni dopo la sua morte oravano sulla sua tomba. Il fanatismo e la soperchieria divolgarono una visione miracolosa: si disse che l'eroe cristiano era comparso sopra un cavallo bianco, colla lancia imbrandita, contro i Pagani della Bulgaria: «Favola assurda, dice uno scrittore cattolico, perchè Copronimo è incatenato coi demonii negli abissi dell'inferno».

186.L'Autore poteva ommettere di riferire una sì cattiva applicazione del Salmo, fatta dal popolo ignorante diretto dai monaci, siccome poteva tacere più sopra quella simile fatta dal Patriarca di Costantinopoli, che doveva tenersi al suo ministero, e non mescolarsi nella cose civili, e politiche. (Nota di N. N.)
187.Vedi la Nota di N. N. alla pag. 248.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
410 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
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