Kitabı oku: «Alla conquista di un impero», sayfa 22
Era un vero mare di fuoco, che aveva una fronte di cinque o sei miglia e che tutto divorava sul suo passaggio.
Enormi colonne di fumo nerissimo e getti immensi di scintille, ondeggiavano su quell’immane braciere, avvolgendo già la foresta che si estendeva dietro la jungla. Perfino la vecchia pagoda di Benar era crollata, e non era rimasto in piedi che qualche pezzo di muraglia.
Sandokan ed i suoi compagni volgendo gli sguardi verso levante, non tardarono a scoprire un piccolo villaggio, formato da una minuscola pagoda e da qualche centinaio di capanne.
Si trovava molto lontano dall’incendio e fuori da qualsiasi pericolo, perché vaste risaie, coi canali pieni d’acqua, lo circondavano.
– Non può essere che quello, – disse Sandokan additandolo ai compagni. – Non ne vedo altri in nessuna direzione.
– E nemmeno io, – rispose Tremal-Naik. – Quanto credi che disti da noi?
– Cinque miglia.
– Una semplice corsa.
– Sì, se gli assamesi ci lasceranno tranquilli.
– Li vedi?
– Sono sempre nascosti fra i kalam.
– Che ci spiino?
– Ne sono certo. Ci proveremo a ingannarli scendendo l’altro versante della collina. —
Si lasciarono scivolare lungo la parete rocciosa, che aveva già una notevole pendenza e raggiunsero i loro compagni, che si erano accampati fra le piante.
– Tutto va bene, almeno per ora – disse Sandokan a Surama. – Io spero di poter raggiungere il villaggio in un paio d’ore, tenuto conto delle difficoltà che incontreremo nella foresta.
Se troveremo gli elefanti, faremo correre i seikki, se vorranno darci la caccia.
– E Yanez? – chiese la giovane con angoscia.
– Come ben puoi comprendere, pel momento, nulla possiamo fare per lui. La sua liberazione richiederà un certo tempo. D’altronde non inquietarti: egli non corre alcun pericolo, perché il rajah, convinto che sia un inglese, non oserà torcergli un capello.
Tutt’al più lo farà tradurre alla frontiera bengalese.
– E come potremo ritrovarlo poi?
– Oh! Sarà lui che muoverà incontro a noi, quando gli giungerà la buona notizia che le Tigri di Mompracem ed i tuoi montanari hanno preso d’assalto la capitale del tuo futuro regno.
Ah! mi dimenticavo di chiederti una preziosa notizia. Il Brahmaputra attraversa le tue montagne?
– Sì.
– Ha delle barche quella gente?
– Bangle e anche dei grossi gonga.
– Non speravo tanto, – disse Sandokan.
Si sdraiò poi sotto un banano selvatico, accese la sua pipa e si mise a fumare con studiata lentezza, tenendo gli sguardi fissi sui kalam, in mezzo ai quali dovevano trovarsi ancora gli assamesi, non potendo allontanarsi in causa dell’incendio, che sbarrava a loro la ritirata verso il fiume. Gli altri lo avevano già imitato, chi fumando e chi masticando noci d’areca.
Era trascorsa un’ora e fors’anche di più, quando Sandokan vide delle ombre umane scivolare fra i kalam e radunarsi presso una doppia fila di cespugli, che s’allungavano quasi ininterrottamente verso la base dell’altura.
– In piedi amici, – comandò. – È il momento di sloggiare.
– Che cosa succede ancora? – chiese Surama.
– I tuoi futuri sudditi si preparano a snidarci, – rispose Sandokan, – ed io non ho alcun desiderio di aspettarli quassù.
Preparate le vostre gambe, perché si tratta di fare una vera corsa. Tenetevi sempre fra le piante, finché avremo raggiunto il versante opposto. —
Strisciando fra i sarmenti ed i cespugli e tenendosi al riparo dalle larghe foglie dei banani, la piccola colonna girò intorno alla roccia e raggiunse, inosservata, il pendio settentrionale, che si presentava ingombro di superbe mangifere, che formavano dei gruppi giganteschi di manghi e di areca dai tronchi contorti, legati strettamente fra di loro da un numero infinito di piante parassite, che avevano raggiunto delle lunghezze straordinarie.
L’avanguardia fu costretta a riprendere il suo faticoso lavoro, per praticare un passaggio attraverso a quella muraglia di verzura, che non presentava alcuna apertura.
Sandokan, sempre prudente, aveva rinforzata la sua retroguardia, non potendo venire il pericolo che dal versante opposto.
Forse in quel momento gli assamesi avevano già attraversata la distanza che li separava dalla collina e stavano salendo, sicuri di sorprendere i fuggiaschi ancora accampati.
Se loro salivano in fretta, anche i malesi ed i dayachi, scendevano non meno rapidamente, sfondando rabbiosamente quel caos di piante. Gli uomini dell’avanguardia, si cambiavano di cinque in cinque minuti, onde vi fossero sempre alla testa lavoratori freschi.
La fortuna proteggeva certamente la colonna, poiché questa poté finalmente raggiungere la foresta, che Sandokan e Tremal-Naik avevano scorta dall’alto della roccia, e senza che fosse stato sparato un colpo di fucile, né da una parte, né dall’altra.
Contrariamente a quanto avevano dapprima creduto, quella foresta era poco folta, essendo composta di piante di tek e di nagassi, ossia di alberi del ferro, vegetali che conservano una certa distanza e che non permettono, ai cespugli che nascono sotto le loro foglie, di svilupparsi troppo. La marcia poteva quindi ridiventare rapidissima come nell’ultimo tratto della jungla.
Era bensì vero che anche gli assamesi, se avevano scoperta la pista, ciò che non era difficile col sentiero aperto dalle scimitarre, potevano a loro volta spingere l’inseguimento; ma già a Sandokan ormai poco importava, essendo sicuro che Bindar avrebbe già preparato gli elefanti.
Già non distavano dal villaggio che un mezzo miglio, quando Sandokan e Tremal-Naik, udirono a echeggiare alle loro spalle alcuni spari, seguìti subito da una nutrita scarica di carabine.
– Ci sono già addosso! – esclamò il primo arrestandosi.
– La retroguardia ha risposto con un fuoco di fila – aggiunse il secondo.
– Dieci uomini con me: gli altri con Kammamuri continuino la via. Vi raccomando di far preparare subito gli elefanti. —
Dieci malesi si staccarono dalla colonna e seguirono a passo di corsa i due capi, che già rifacevano la via percorsa, armando le carabine.
Dopo trecento passi s’incontrarono colla retroguardia, che era condotta da Sambigliong.
– Siete stati attaccati? – chiese Sandokan.
– Sì, da un piccolo gruppo di esploratori, che è fuggito a rompicollo alla nostra prima scarica.
– Abbiamo dei feriti?
– Nessuno, Tigre della Malesia.
– Come mai quegli uomini ci hanno raggiunti così presto?
– Correvano come gazzelle.
– Sei ben sicuro che si siano dispersi?
– Li abbiamo inseguiti per due o trecento metri.
– Affrettatevi: il villaggio non è che a due passi e forse troveremo gli elefanti pronti. —
Radunò i due piccoli drappelli e tornò indietro sempre di corsa, temendo che il grosso degli assalitori, si trovasse a poca distanza.
Quando raggiunse la colonna, questa si trovava già intorno a cinque colossali elefanti, montati ognuno da un cornac e forniti della cassa destinata a contenere gli uomini.
Bindar era con loro.
– Ah, sahib! – esclamò il bravo ragazzo. – Quante inquietudini ho provato per te, vedendo l’incendio divorare la jungla e udendo tante scariche! Temevo che tu fossi stato sopraffatto ed i tuoi guerrieri distrutti.
– Siamo gente diversa dagli indiani noi, – si limitò di rispondere Sandokan. – Vi sono altri elefanti nel villaggio?
– Due soli ancora.
– Basteranno questi a trasportare tutta la mia gente?
– Sì, sahib. —
Fece salire Surama sul primo elefante, poi diede ordine ai suoi uomini di occupare gli altri e di tenersi pronti a salutare con una buona scarica gli assalitori, nel caso che si mostrassero sul margine della foresta.
Bindar s’arrampicò anche lui, coll’agilità d’una scimmia, sul primo elefante, che era montato, oltre che dalla futura regina, da Sandokan, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da tre malesi, che si erano accomodati dietro la cassa sull’enorme dorso del bestione.
– Avanti, cornac e spingete la corsa. Venti rupie di regalo, se li farete galoppare come cavalli spronati a sangue, – gridò Sandokan.
Non ci voleva di più per incoraggiare i conduttori, che forse non guadagnavano tanto in un anno di servizio.
Mandarono un lungo fischio stridulo impugnando, nel medesimo tempo, i corti arpioni e tosto i cinque colossali pachidermi si misero in marcia con passo rapidissimo, con quello strano dondolamento che dà l’impressione, a chi li monta, di trovarsi su un battello scosso ora dal rollio ed ora dal beccheggio.
Bindar, che come abbiamo detto, si trovava sull’elefante montato da Sandokan, aveva dato ordine ai cornac di risalire verso il sud-est, seguendo la lunga e stretta frontiera bengalese, che si frappone come un cuscinetto fra il Boutam e l’Assam, avvolgendo quest’ultimo stato a settentrione ed a levante, in modo da separarlo dai montanari dell’Himalaya e dai montanari della vicina Birmania.
Makum, l’antica capitale del piccolo principato, retto dal padre di Surama, ultima cittadella della frontiera assamese, doveva essere la meta della loro corsa.
Appena oltrepassate le risaie, che si estendevano tutte intorno al villaggio per uno spazio considerevole, i cinque elefanti si trovarono in mezzo alle eterne jungle, che seguono, per centinaia e centinaia di miglia, la riva destra del Brahmaputra, spingendosi quasi ininterrottamente fino ai primi scaglioni della catena del Dapha Bum e dell’Harungi.
La foresta che stavano per attraversare, non era così fitta come quella di Benar, tuttavia aveva anche questa immense distese di bambù di dimensioni straordinarie, ottime per servire d’agguato a uomini ed a belve, infinite distese di kalam e di cespugli; però non mancavano le piante d’alto fusto, come tara, pipal, palas e palmizi splendidi, che allargavano smisuratamente le loro foglie dentellate o frangiate.
Sandokan che s’aspettava da un momento all’altro qualche brutta sorpresa da parte degli assamesi, i quali potevano essersi accorti della nuova direzione presa dai fuggiaschi, raccomandò ai suoi uomini di non deporre le carabine e di sorvegliare attentamente le macchie.
Era sicuro di non passarla liscia, quantunque gli elefanti s’avanzassero colla velocità di cavalli spinti a buon galoppo.
Più innanzi le cose si sarebbero certamente cambiate, poiché i nemici per quanto lesti corridori, non avrebbero potuto resistere a lungo alla corsa indiavolata degli elefanti, ma pel momento era da aspettarsi qualche brutto giuoco.
– Tu temi qualche altra sorpresa, è vero? – gli chiese Tremal-Naik, senza cessare di osservare attentamente le folte macchie dei bambù, che gli elefanti costeggiavano, aprendosi un passaggio a gran colpi di proboscide, quando se le trovavano dinanzi.
– Dubito sempre, e poi mi sembra impossibile che quegli uomini abbiano interrotto così bruscamente l’inseguimento. Devono averci scorti e mi aspetto, fra queste macchie, qualche colpo di testa. —
In quel momento, con sorpresa di tutti, gli elefanti, che fino allora avevano continuato ad accelerare la corsa, la rallentarono bruscamente.
– Ehi, cornac, che cos’ha il tuo elefante-pilota? – chiese Tremal-Naik, che si era subito accorto. – Sente la vicinanza di qualche tigre forse? Noi siamo uomini da ammazzarne anche una dozzina.
– Pessimo terreno, signore – rispose il conduttore crollando il capo.
– Vuoi dire?
– Che le ultime piogge hanno reso il terreno eccessivamente fangoso e che le zampe dei nostri animali affondano fino al ginocchio. Non mi aspettavo una simile sorpresa.
– Non possiamo deviare?
– Altrove il terreno non sarà migliore. Vi è dell’argilla sotto questa jungla e le acque stentano a filtrare. —
Sandokan e Tremal-Naik si alzarono guardando il terreno. Apparentemente sembrava asciutto alla superficie, ma guardando le larghe impronte, lasciate dagli elefanti, si poteva facilmente comprendere come sotto esistesse una riserva d’acqua, poiché quei buchi si erano subito riempiti d’un liquido fangoso ed a quanto sembrava, tenacissimo.
– Ehi, cornac, cerca di spingere più che puoi il tuo elefante, – disse Sandokan.
– Farò il possibile, signore. —
I cinque pachidermi non sembravano troppo contenti di aver incontrato quel terreno, che arrestava il loro slancio. Barrivano sordamente, agitavano la tromba e le grandi orecchie e scuotevano le loro teste massicce, manifestando il loro mal umore.
Nondimeno, quantunque affondassero di quando in quando fino al ginocchio e provassero talvolta qualche difficoltà ad estrarre le loro zampacce da quel fango tenace, come se avessero compreso che dalla loro velocità dipendeva la salvezza degli uomini che li montavano, facevano sforzi prodigiosi, per non rallentare troppo la corsa.
Disgraziatamente, di passo in passo che s’avanzavano, il terreno diventava sempre meno resistente. L’acqua ed il fango sprizzavano da tutte le parti, macchiando le rosse gualdrappe dei pachidermi.
Era soprattutto sotto i bambù che si trovava maggior copia di materia liquida: là gli elefanti non potevano scorgere dove ponevano i piedi; avanzavano a passo quasi d’uomo e non cessavano di barrire, segnalando così la loro presenza, mentre Sandokan avrebbe desiderato il più scrupoloso silenzio.
Una buona mezz’ora era trascorsa, da che avevano lasciato il villaggio, quando Bindar, che si teneva dietro al cornac del primo elefante, con una mano stretta sull’orlo della cassa, avendo nell’altra la carabina, si lasciò sfuggire una esclamazione. Quasi nell’istesso momento l’elefante si fermava, alzando rapidamente la tromba e fiutando l’aria a diverse altezze.
– Che cos’hai, Bindar? – chiese subito Sandokan, alzandosi precipitosamente.
– Ho veduto dei bambù ad agitarsi, – rispose l’indiano.
– Dove?
– Sulla nostra sinistra.
– Che vi sia qualche tigre? Mi pare che l’elefante sia inquieto.
– Una bâgh non spaventerebbe questi cinque colossi, che marciano uno addosso all’altro. Deve aver fiutato qualche cosa d’altro.
– Fermo, cornac!
– L’elefante non avanza più, – rispose il conduttore.
– Preparate le armi! – continuò Sandokan, alzando la voce.
Malesi e dayachi si erano alzati come un solo uomo, armando le carabine.
Anche gli altri elefanti, che si erano stretti contro il primo, manifestavano una certa inquietudine.
Trascorsero alcuni minuti senza che alcun che di straordinario accadesse. I bambù non si erano più mossi, eppure i pachidermi non si erano ancora interamente tranquillizzati.
Sandokan, che era impaziente di guadagnare via, stava per ordinare ai cornac di riprendere la marcia, quando alcune detonazioni scoppiarono entro un macchione di bambù, che si estendeva a circa duecento metri dai pachidermi.
– Gli assamesi! – esclamò Sandokan. – Fuoco là in mezzo! —
I malesi dapprima, poi i dayachi con un intervallo di pochi secondi, fecero una scarica poderosa, mentre l’elefante-pilota mandava un barrito spaventevole, rovesciandosi addosso ai compagni.
Qualche palla doveva averlo colpito, poiché gli altri si mantennero impassibili, come brave bestie, abituate al fuoco.
Gli assamesi non risposero più. A giudicare dai movimenti disordinati dei bambù, dovevano aver battuto precipitosamente in ritirata, per paura forse di dover subire una carica furiosa da parte dei pachidermi.
– Quindici uomini vadano a esplorare quella macchia! – gridò Sandokan. – Se il nemico resiste, ripiegatevi verso di noi facendo fuoco. —
Le scale furono gettate ed un drappello composto di dayachi e di malesi, sotto la guida del vecchio Sambigliong, si slanciò attraverso il pantano, balzando fra i bambù e le erbe, le cui radici opponevano una certa resistenza.
Sandokan e gli altri, dall’alto delle casse, sorvegliavano intanto la macchia, pronti a sostenere i loro compagni.
L’elefante-pilota continuava a lanciare barriti formidabili e ad indietreggiare, non ostante le buone parole che gli diceva il suo conduttore.
– Ha ricevuto certamente una palla nel corpo, – disse Tremal-Naik a Sandokan.
– Mi spiacerebbe che fosse stato ferito gravemente, – rispose la Tigre della Malesia. – È bensì vero che ce ne rimangono altri quattro.
– Cornac, va’ a un po’ a vedere dove è stato toccato.
– Sì, signore – rispose il conduttore raggiungendo rapidamente la scala di corda e lasciandosi scivolare sul pantano.
Girò intorno al pachiderma osservandolo attentamente lungo i fianchi e si arrestò presso la gamba sinistra posteriore.
– Dunque? – chiese Tremal-Naik.
– Sanguina qui, signore – rispose il cornac. – Ha ricevuto una palla presso l’articolazione.
– Ti sembra grave la ferita? —
Il conduttore scosse il capo a più riprese, poi disse:
– Durerà finché potrà. Questi colossi posseggono una forza prodigiosa, eppure sono d’una sensibilità estrema e guariscono difficilmente.
– Puoi fare una fasciatura?
– Mi proverò, signore, tanto per arrestare il sangue. Estrarre il proiettile, che si è cacciato sotto la pelle, sarebbe impossibile.
– Fa’ presto. —
In quel momento Kammamuri ed il suo drappello ritornavano.
– Fuggiti? – chiese Sandokan.
– Scomparsi ancora – rispose il maharatto.
– Canaglie! Non hanno il coraggio d’affrontarci in campo aperto.
– Li ritroveremo più innanzi, se gli elefanti non trovano un terreno migliore. Subiremo delle imboscate finché non potremo galoppare furiosamente.
– Continua il fango?
– Sempre.
– Montate e tenete sempre pronte le carabine. —
Malesi e dayachi s’inerpicarono come tanti scoiattoli su per le scale di corda, seguiti poco dopo dal cornac dell’elefante-pilota, che era riuscito ad arrestare l’emorragia.
– Avanti! – comandò Sandokan. – Vedremo che cosa sapranno fare quei dannati assamesi. —
27. La carica degli jungli-kudgia
Qualche minuto dopo la piccola colonna riprendeva l’interminabile ritirata attraverso le jungle, ritirata che rassomigliava, in certo qual modo, a quella famosa compiuta attravero il Bundelkund da Tantia Topi, il celebre generalissimo degli insorti indiani del 1857, che per un anno intero, insieme alla bellissima rhani di Jhansie, tenne in iscacco ben tre corpi d’inglesi.
Gli elefanti s’avanzavano sempre prudentemente, tastando prima il fango per assicurarsi della solidità del sottosuolo e aspirando l’acqua, che trapelava dalle buche aperte dalle loro zampacce.
L’elefante-pilota, che si era di già calmato, teneva sempre la testa alta e indicava ai compagni, con dei sordi barriti, la via da tenersi.
L’istinto di quell’animale, il più grosso dei cinque, era assolutamente meraviglioso, poiché sapeva scegliere, anche di primo acchito, il posto dove poteva procedere più speditamente.
Degli assamesi non si scorgeva alcuna traccia, tuttavia Sandokan e Tremal-Naik erano più che certi che non avrebbero rinunciato all’inseguimento.
La marcia continuava, sempre lentissima, mettendo a dura prova i muscoli dei pachidermi.
Le macchie di bambù, ora altissimi ed ora invece bassi, grossi e assai spinosi, si susseguivano quasi senza interruzione, ma i banchi di fango non accennavano a terminare tanto presto. Pareva che quella jungla fosse stata un giorno il fondo di qualche immensa palude.
Corvi, bozzagri e cicogne, s’alzavano in grandi stormi all’appressarsi degli elefanti. Altre volte erano bande di superbi pavoni, volatili ritenuti sacri dagli indiani perché rappresentano, secondo le loro strane leggende, la dea Sarasvati, che protegge le nascite ed i matrimoni; oppure coppie di sâras, meglio conosciute sotto il nome di gru antigone, le più belle della famiglia, avendo le penne setacee di una splendida tinta grigio perla, e la testa che è piccola, adorna di piume rosse del più bell’effetto. Sono anche le più grosse perché raggiungono sovente l’altezza di un metro e mezzo ed al pari dei pavoni sono venerate, rappresentando l’emblema della fedeltà coniugale, e forse non a torto, perché vanno sempre appaiate.
Si scorgevano pure cani selvaggi dal pelame corto e bruno fulvo, a scappare attraverso le macchie, e qualche tcita, graziosa e piccola pantera dell’India, che si addomestica con molta facilità e che viene adoperata per la caccia degli antilopi.
Per due ore i pachidermi continuarono a lottare in mezzo ai pantani, facendo subire alle persone che li montavano delle brusche scosse; poi avendo trovato un pezzo di terreno sodo, che formava come una striscia di qualche centinaio di passi su tre o quattro metri d’altezza, tutto coperto di erbe palustri, grosse come lame di sciabole, di cui sono ghiotti tutti i pachidermi, di comune accordo, si arrestarono.
– Sono stanchi, – disse il cornac dell’elefante-pilota, volgendosi verso Sandokan. – E poi qui hanno trovato il loro pasto.
– Avrei amato meglio che continuassero fino a trovare il terreno duro.
– Non deve essere lontano, signore. Vedo all’orizzonte una linea oscura. Laggiù vi devono essere delle foreste di palas e quelle piante non si sviluppano nei terreni acquitrinosi.
D’altronde le nostre bestie non chiederanno che qualche ora di riposo.
– Approfitteremo per fare colazione, se avremo ancora viveri bastanti.
– Faremo presto a provvederci di buoni arrosti, – disse Tremal-Naik. – I volatili sono numerosi e abbiamo due buoni fucili da caccia.
– Accettato, – rispose Sandokan. – Così faremo una piccola punta verso il settentrione, per vedere se gli assamesi continuano a seguirci. —
Scesero tutti improvvisando un accampamento in mezzo alle typha elephantina, come chiamano i botanici quelle piante; ma i viveri non erano sufficienti per tante bocche. Non v’era che un mezzo sacco di biscotti e una mezza dozzina di scatole di carne conservata.
Fu quindi decisa subito una partita di caccia, anche per mettere in serbo un po’ di cibo, non essendo le jungle sempre popolate di volatili grossi come i pavoni ed i sâras.
Sandokan e Tremal-Naik si armarono di fucili a doppia canna, di fabbrica inglese, carichi di pallettoni e balzarono risolutamente in mezzo al pantano, seguìti da quattro malesi muniti di carabine e di scimitarre per scortarli.
Attraversato una specie di canale fangoso, trovarono un altro strato di terreno solido, tutto ingombro di bambù, che pareva avesse una estensione maggiore di quello dove si erano arrestati gli elefanti.
In mezzo a quelle canne giganti, dalle foglie verdi pallide, i volatili abbondavano straordinariamente. Gru, pavoni, oche, pappagalli, volteggiavano in tutti i sensi, insieme a grossi stormi di anitre bramine, senza manifestare troppa paura per la presenza di quei cacciatori.
Sandokan e Tremal-Naik non tardarono ad aprire il fuoco e siccome erano entrambi valentissimi cacciatori, in pochi minuti un buon numero di volatili furono raccolti dai quattro malesi di scorta.
Continuando a trovare terreno resistente, s’avanzarono ancora, impegnandosi in mezzo ad una pianura molto vasta, che era coperta di folti cespugli ed anche da qualche piccolo gruppo di palmizi.
– Ecco un posto che servirà magnificamente ai nostri elefanti, – disse Sandokan al bengalese. – Li faremo deviare su questo terreno, così potranno galoppare a loro agio.
– È anche un luogo propizio per fare delle grosse cacce,– aggiunse il bengalese che si era bruscamente arrestato.
– Che cos’hai veduto?
– Della selvaggina, bensì pericolosa, ma molto grossa.
– Non vedo che dei sâras volare dinanzi a noi.
– Guarda presso quella macchia, che si stende a duecento passi da noi. È ben uno jungli-kudgia quello.
– Un bufalo selvaggio, vuoi dire?
– Sì, Sandokan.
– Fra mezz’ora ti saprò dire se le sue bistecche sono veramente squisite, come ho udito affermare più volte.
– Fa’ nascondere i tuoi uomini e cambiamo le armi. Quelle bestie sono a prova di spingarda. —
Presero due carabine colle relative munizioni, diedero ordine alla scorta di cacciarsi in mezzo ad un cespuglio e si allontanarono, tenendosi curvi, onde non farsi scoprire prima di giungere a buon tiro.
Si trattava veramente d’uno di quei giganteschi bufali che, in fatto di statura, nulla hanno da perdere, nel confronto, coi bisonti dell’America settentrionale, colla testa corta, colla fronte alta e larga, armata di due corna ovali, e fortemente appiattite, curvantesi dapprima indietro per rialzarsi poi in avanti, il collo grosso e breve, il dorso gibboso ed il pelame rossiccio.
Dopo le tigri sono le bestie più pericolose che s’incontrano nelle jungle, potendo gareggiare coi formidabili rinoceronti, quantunque per mole siano inferiori a questi.
Raggiungono tuttavia sovente i tre metri, dal muso all’origine della coda, e un’altezza di un metro e ottanta centimetri, e hanno la pelle così spessa, che si adopera per fare degli scudi resistentissimi, a prova di sciabola.
Sono inoltre irascibili, coraggiosi fino alla pazzia e una volta in corsa, non s’arrestano nemmeno dinanzi ad un esercito di cacciatori. Non temono, d’altronde, né le tigri, né le pantere e non esitano ad impegnare, con quei terribili predoni, dei furiosi combattimenti.
Lo jungli-kudgia scoperto da Tremal-Naik pascolava tranquillamente lungo il margine della macchia, senza manifestare alcuna apprensione, quantunque quegli animali abbiano un udito finissimo, che li compensa largamente della loro pessima vista.
Fu appunto quella tranquillità che non fece buon effetto sul bengalese, che conosceva profondamente le abitudini di quegli animali, avendoli già cacciati per molti anni nelle Sunderbunds del Gange.
– Quella calma non mi rassicura affatto, – disse a mezza voce a Sandokan, che strisciava a qualche passo di distanza. – Non deve essere solo. Già di solito marciano a branchi e piuttosto numerosi.
– Ammazziamo quello li intanto, – disse Sandokan che non voleva rinunciare a quella grossa preda. – Dietro di noi abbiamo i malesi imboscati. A me il primo colpo. —
Lo jungli-kudgia si presentava magnificamente per un buon colpo, poiché in quel momento offriva al tiratore il suo largo petto, lasciando così indifeso il cuore.
Una detonazione secca rimbombò, facendo scappare le gru ed i pavoni, che stavano nascosti in mezzo ai bambù.
Il bisonte indiano, colpito un po’ sotto la spalla sinistra, mandò un lungo muggito, abbassò rapidamente la testa e si avventò verso il luogo ove vedeva ancora ondeggiare la nuvola di fumo.
Quella corsa furibonda non durò più di due secondi, poiché stramazzò pesantemente a meno di venti passi dal cacciatore, agitando pazzamente le zampe.
Era appena caduto, quando i cespugli s’aprirono impetuosamente, sotto un urto irresistibile e quindici o venti bufali, di statura gigantesca, irruppero attraverso la jungla, lanciati ad una carica spaventosa.
– Gambe, Sandokan! – urlò Tremal-Naik, facendo fuoco a casaccio, quantunque fosse sicuro di non arrestare quei furibondi colossi.
I due cacciatori che avevano le ali ai piedi, in pochi istanti raggiunsero i malesi, traendo i bufali nella loro corsa sfrenata; poi balzarono in mezzo al pantano, salvandosi a tempo in mezzo agli elefanti.
Alle loro grida d’allarme, tutti gli accampati, credendo a un nuovo attacco degli assamesi, erano balzati in piedi, afferrando le carabine, mentre i cornac facevano rialzare precipitosamente i pachidermi, che si erano coricati per meglio brucare le alte e durissime typha.
I bisonti, dopo essersi arrestati un momento presso i cespugli, dove poco prima si erano tenuti nascosti i malesi, sperando forse che i cacciatori si fossero imboscati là in mezzo, avevano ripresa la loro carica indiavolata, tutto abbattendo sul loro passaggio.
Parevano tanti enormi proiettili scagliati da qualche colossale pezzo di marina, tanto era il loro impeto.
I bambù, che come si sa, sono resistentissimi, cadevano falciati dai robusti zoccoli di quei demoni, come se fossero semplici giunchi.
Giunti dinanzi allo strato fangoso, s’arrestarono di colpo, piegandosi fino a terra e accavallandosi gli uni sopra gli altri.
– Per Siva! – esclamò Kammamuri, raggiungendo rapidamente i suoi padroni, che si erano messi in salvo sul loro elefante. – Altro che assamesi! Questi sono ben più pericolosi di quei poltroni!…
– Avanti, cornac! – gridò Tremal-Naik. – Se passano lo strato fangoso, assaliranno gli elefanti.
– E voialtri aprite il fuoco! – comandò Sandokan, vedendo che anche tutti i suoi uomini erano già montati.
Otto o dieci colpi di carabina rimbombarono, ma non ottennero altro effetto, che quello di rendere maggiormente furiosi gli jungli-kudgia.
Gli elefanti, aizzati dai cornac, si erano già lanciati coraggiosamente nella fanghiglia, avanzandosi frettolosamente, temendo di dover provare la robustezza e l’acutezza di quelle terribili corna.
I bisonti, vedendoli allontanarsi, anziché calmarsi si misero a muggire spaventosamente ed a spiccare salti; poi si provarono a gettarsi a loro volta nel pantano, ma accorgendosi che le loro gambe, che non avevano lo spessore di quelle degli elefanti, sprofondavano interamente, rimontarono lo strato duro, seguendo su quello i fuggiaschi.
– Che non vogliano lasciarci? – chiese Sandokan che cominciava ad inquietarsi. – Avrei desiderato meglio incontrare gli assamesi.
– Quegli animali sono testardi ed eccessivamente vendicativi – rispose Tremal-Naik. – Aspetteranno che i nostri elefanti trovino un terreno solido per darci battaglia.
– Spero che prima di allora saranno ben decimati.
– Non ci rimane altro da fare, amico.
– Non sono che a trecento metri, e le nostre carabine hanno una portata più che doppia.
– Gli è che il dondolìo degli elefanti renderà il nostro tiro molto difficile. —
Sandokan prese la carabina, si piantò per bene sulle gambe, appoggiando il petto contro l’orlo superiore della cassa, e puntò l’arma, aspettando che l’elefante pilota trovasse qualche punto su cui poggiare con minor violenza, le sue zampacce.
Trascorse qualche minuto, poi Sandokan lasciò partire il colpo, approfittando d’un istante di sosta del pachiderma.
La palla, quantunque ben diretta, andò a spezzare una delle corna del bisonte, che guidava la truppa e che era il più colossale di tutti.
L’animale si fermò un momento, sorpreso, senza dubbio, di vedersi cadere dinanzi una delle sue principali difese; poi riprese tranquillamente la marcia, come se nulla fosse avvenuto.
– Saccaroa! – esclamò Sandokan, deponendo l’arma ancora fumante, per prenderne un’altra che gli porgeva Kammamuri. – Quegli animali valgono i rinoceronti.
– Te l’ho detto, – disse Tremal-Naik.
Sandokan tornò a puntare l’arma, mirando ancora il capo-fila, essendosi promesso di abbatterlo a qualunque costo.
Due minuti dopo un altro sparo rimbombava e la palla passava oltre senza aver colpito nessuno del branco.
– Tu sprechi il piombo, – disse il bengalese.