Kitabı oku: «Alla conquista di un impero», sayfa 4
Narrano poi le leggende indiane, che dopo quel fatto, Visnù sdegnato contro i giganti Canagascien e Aycriben perché avevano rubati i quattro vedam onde il nuovo popolo fondato da Sattiaviraden non avesse più religione, li uccise per restituirli a Brahma.
Il drappello si era fermato, temendo che vi fosse qualche sacerdote in quell’ampia sala, poi, rassicurato dal profondo silenzio che regnava là dentro, mosse risolutamente verso il gigantesco pesce.
– Se il ministro non ci ha ingannati, l’anello deve trovarsi dinanzi a quell’acquatico, – aveva detto Yanez.
– Se non avrà detto il vero lo getteremo nel fiume con una buona pietra al collo, – aveva risposto Sandokan.
Stavano per giungere presso il dio, quando parve loro di udire come il cigolìo d’una porta che s’apriva.
Tutti si erano arrestati, poi i dayachi ed i malesi con una mossa fulminea rinserravano come entro un cerchio Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, puntando le carabine in tutte le direzioni.
Attesero per qualche minuto, senza parlare, anzi quasi senza respirare, poi Yanez ruppe pel primo il silenzio.
– Possiamo esserci ingannati, – disse. – Se qualche sacerdote fosse entrato, a quest’ora avrebbe dato l’allarme. Che cosa dici tu, Bindar?
– Penso che quel rumore sia stato prodotto dallo scricchiolìo di qualche trave.
– Cerchiamo l’anello, – disse Sandokan. – Se verranno a sorprenderci sapremo accoglierli per bene. —
Fecero il giro del mostruoso dado di pietra reggente l’incarnazione di Visnù e trovarono subito un massiccio anello di bronzo su cui si scorgeva un alto rilievo rappresentante una conchiglia: la pietra di Salagraman.
Un’esclamazione di gioia a mala pena soffocata, era sfuggita dalle labbra del portoghese.
– Ecco quella che mi aiuterà a conquistare il trono, – disse. – Purché si trovi realmente sotto i nostri piedi.
– Se non la troveremo, ti accontenterai di quella che è disegnata su questo anello, – disse Sandokan.
– Ah no! voglio la vera conchiglia! – rispose Yanez.
– Non so perché ci tieni tanto. —
Il portoghese, invece di rispondere, disse, volgendosi verso i suoi uomini:
– Alzate. —
Due dayachi, i più robusti del drappello, afferrarono l’anello e con uno sforzo non lieve alzarono la pietra la quale misurava quasi un metro quadrato.
Yanez e Sandokan si curvarono subito sul foro e scorsero una stretta gradinata che scendeva in forma di chiocciola.
– Quel carissimo Kaksa Pharaum è stato d’una esattezza meravigliosa! Che spaventi producono talvolta certe colazioni! Scommetto che non ne farà più una in vita sua e che si accontenterà di sole colazioni. —
Così dicendo Yanez prese ad un dayaco una torcia, armò una pistola e scese coraggiosamente nei sotterranei del tempio.
Tutti gli altri, uno ad uno l’avevano seguìto, preparando le carabine. Nessuno aveva pensato all’imprudenza che stavano per commettere.
Scesi diciotto o venti gradini si trovarono in una spaziosa sala sotterranea che probabilmente, migliaia d’anni prima aveva servito da tempio a giudicarlo dalla rozzezza delle sculture, appena segnate sulle pareti rocciose, rappresentanti le solite incarnazioni del dio conservatore.
Gli occhi di Yanez si erano subito fissati su un dado di pietra sormontato da una piccola statua di terracotta, raffigurante un bramino nano.
– La pietra deve essere nascosta lì sotto, – disse.
Con un calcio atterrò quel mostro, mandandolo in pezzi e subito un grido di gioia gli sfuggì.
In mezzo al masso coperto dal basamento della statua, aveva veduto un cofano di metallo, con altirilievi di squisita fattura.
– Ecco la pietra famosa! – esclamò trionfante. – La corona dell’Assam è ormai di Surama. —
Senza chiedere aiuto a nessuno, tolse il cofano dal suo nascondiglio, e vedendovi dinanzi un bottone al posto dove avrebbe dovuto trovarsi la serratura, lo premette con forza.
Il coperchio s’aprì di colpo e agli sguardi di tutti comparve una conchiglia pietrificata, di colore nerastro.
Era la tanto venerata pietra di Salagraman contenente il famoso capello di Visnù.
5. L’assalto delle tigri
Gli indiani che adorano Visnù, hanno una straordinaria venerazione per le pietre di Salagraman le quali, come abbiamo già accennato, non sono che delle conchiglie pietrificate del genere dei corni d’Ammone, ordinariamente di colore nerastro, perché credono fermamente che esse rappresentino sotto quella forma il loro dio.
Vi sono nove specie di pietre di Salagraman, come si contano, fra le più note, nove incarnazioni di Visnù, e sono tutte tenute in grande conto come il lingam che è venerato dai seguaci di Siva e che rappresenta, sotto una strana forma che non si può descrivere, la creazione umana.
Chi ha la fortuna di possedere tali conchiglie, le porta avvolte sempre in bianchissimi lini e ogni mattina le lava in un vaso di rame indirizzando a esse molte e stravaganti preghiere.
I bramini pure le tengono in molta venerazione e, dopo averle lavate, le pongono su un altare dove le profumano in presenza dei fedeli ai quali poi danno da bere un po’ d’acqua entro cui hanno lavato il Salagraman e ciò affine di renderli puri e mondi d’ogni peccato.
La conchiglia però che rendeva orgogliosi i religiosi dell’Assam, non era una di quelle comuni. Aveva delle dimensioni straordinarie per appartenere al genere dei corni d’Ammone, per di più era d’una splendida tinta nera e poi possedeva nel suo interno un capello del dio, mai veduto forse da nessuno, ma giacché i gurum lo avevano affermato, bisognava ben crederci. L’avevano letto sugli antichissimi libri sacri e basta.
Quale importanza poteva avere quella conchiglia pel portoghese, che non era mai stato un adoratore di Visnù, lo vedremo in seguito. Già nemmeno Sandokan, né il suo amico Tremal-Naik erano riusciti a saperlo, tuttavia conoscendo l’astuzia profonda del terribile consumatore di sigarette si erano accontentati di lasciarlo fare e di aiutarlo con tutte le loro forze.
Quel diavolo d’uomo, che aveva giuocato dei tiri meravigliosi perfino al famoso James Brooke ed a Suyodhana, poteva ben farne uno anche al rajah dell’Assam, per porre sulla bellissima fronte di Surama, la sua fidanzata, la corona del barbaro principe e conservarne una metà per sé.
Yanez, dopo essersi ben assicurato che quella era veramente la tanto celebrata conchiglia che il giorno innanzi i sacerdoti della pagoda avevano condotto a passeggio per le principali vie di Gauhati, con immensa gioia della popolazione, aveva rinchiuso il coperchio, poi aveva afferrato il prezioso cofano, dicendo ai suoi compagni:
– Ed ora in ritirata!
– Vuoi altro? – gli aveva chiesto Sandokan un po’ ironicamente.
– Qui dentro sta la corona della mia fidanzata. Vuoi che pren
da anche la pagoda?
– Se la volessi!…
– Non ne ho bisogno per ora. Prendiamo il volo prima che i sacerdoti si risveglino. Armate le carabine! —
Uno scricchiolìo secco lo avvertì che i malesi e i dayachi non avevano atteso un nuovo ordine.
Si slanciarono tutti sulla stretta scala, salendola frettolosamente quando ad un tratto una bestemmia sfuggì dalle labbra del portoghese, che era alla testa del drappello.
– Che Visnù sia maledetto!…
– Che cosa c’è, fratellino bianco? – chiese Sandokan, che gli stava dietro con Tremal-Naik.
– C’è… c’è… che hanno rimesso a posto la pietra!
– Chi! – chiesero ad una voce la Tigre della Malesia e Tremal-Naik.
– Che ne so io?
– Saccaroa! Siamo stati dei veri stupidi! Ci siamo dimenticati di lasciare almeno un paio d’uomini a guardia dell’uscita! Che sia caduta da sé?
– È impossibile, – rispose Yanez, che era diventato un po’ pallido. – La pietra era stata deposta a quattro o cinque passi dall’apertura.
– È vero, signor Yanez, – dissero i due dayachi, che l’avevano sollevata.
Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si erano guardati l’un l’altro con una certa ansietà.
Per qualche istante fra quei tre uomini, rotti a tutte le avventure e coraggiosi fino alla follia, regnò un profondo silenzio.
Sandokan fu il primo a romperlo.
– I due dayachi più forti con me! Spingiamo! —
Quantunque la scala fosse stretta, i tre uomini appoggiarono le mani sulla pietra, tentando di alzarla, ma quello sforzo supremo fu vano.
Pareva che qualche peso enorme fosse stato collocato su quella lastra onde impedire, ai profanatori della pagoda, ogni via di scampo.
La Tigre della Malesia aveva mandato un vero ruggito. Il formidabile uomo non era abituato a trovare resistenza ai suoi muscoli d’acciaio.
– Siamo stati sorpresi e vinti, – disse a Yanez, coi denti stretti.
Il portoghese non rispose: pareva che pensasse intensamente. Ad un tratto si volse verso Bindar, chiedendogli con voce perfettamente calma:
– Conosci questi sotterranei?
– Sì, sahib, – rispose l’indiano.
– Vi è qualche passaggio?
– Uno solo.
– Dove mette?
– Nel Brahmaputra.
– Sopra o sotto la corrente?
– Sotto, sahib.
– Bah! Siamo tutti abilissimi nuotatori. Non ve ne sono altri?
– Non credo.
– Come lo sai, tu?
– Perché ho lavorato, alcuni mesi or sono, a rifare le volte che minacciavano di crollare.
– Sapresti guidarci?
– Lo spero, se le torce non si spegneranno.
– Ne abbiamo altre due di ricambio.
– Allora tutto andrà bene.
– Si tratta però di far molto presto. Se i gurum avranno il tempo di chiamare le guardie del rajah, allora tutto sarà finito per noi.
– Il palazzo del principe è lontano, sahib.
– Guidaci! —
L’indiano prese una torcia, che un malese gli porgeva e si diresse verso l’estremità della immensa sala, dove s’apriva una galleria molto ampia le cui volte parevano rifatte di recente.
– È questa che sbocca nel Brahmaputra? – chiese Yanez.
– Sì, – rispose Bindar.
– Non odi un rombo lontano, sahib?
– Sì, mi pare. —
L’indiano stava per riprendere la marcia quando Tremal-Naik lo arrestò.
– Che cosa vuoi, sahib? – chiese Bindar, sorpreso.
– Io scorgo laggiù un’altra porta che mette forse in qualche altra galleria, – disse Tremal-Naik.
– Lo so.
– Conduce anche quella al fiume? —
L’indiano ebbe una lunga esitazione e parve ad Yanez ed a Sandokan che dimostrasse dall’aspetto del suo viso un certo terrore.
– Parla, – disse Tremal-Naik.
– Non cacciarti là dentro sahib, – rispose finalmente il seguace di Siva. – Anzi teniamoci ben lontani e fuggiamo al più presto.
– Perché? – chiesero ad una voce Sandokan e Yanez colpiti vivamente dal tono strano della sua voce.
– Là vi è la morte.
– Spiegati meglio, – disse Tremal-Naik con voce imperiosa.
– Quella galleria conduce nella cella sotterranea dove si custodiscono i tesori del rajah e quella cella è guardata da quattro tigri.
– Per Giove! – esclamò Yanez, impallidendo. – E potrebbero quelle bestie venire qui?
– Sì, se i sacerdoti alzano la saracinesca che mette nella galleria.
– Noi e le signore tigri siamo vecchie conoscenze, – disse Sandokan, – tuttavia in questo momento non desidererei trovarmi dinanzi a loro.
Spicciati Bindar e allunga il passo. —
Il drappello si cacciò sotto la galleria a passo di corsa, volgendo di quando in quando la testa indietro, per paura di vedersi piombare addosso le quattro formidabili belve che vegliavano sul tesoro del principe.
Di passo in passo che si avanzavano, un rombo che pareva prodotto dal frangersi di qualche enorme massa d’acqua, si ripercuoteva sotto le volte, propagandosi sempre più distintamente.
Era il Brahmaputra, che rumoreggiava all’estremità della galleria.
Quella ritirata precipitosa durava da alcuni minuti, quando i fuggiaschi si trovarono improvvisamente in una seconda sala, molto meno ampia della prima, scavata nella viva roccia e assolutamente nuda.
Il fracasso prodotto dal fiume era diventato intensissimo. Si sarebbe detto che quelle massicce pareti tremavano sotto gli urti poderosi dell’enorme affluente del sacro Gange.
– Ci siamo? – chiese Yanez a Bindar, alzando la voce.
– Il fiume non è che a pochi passi, – rispose l’indiano.
– Sarà lungo il tratto che dovremo percorrere sott’acqua?
– Cinquanta o sessanta metri, sahib. Tuffati senza pericolo entro il pozzo e finirai nel fiume.
Io rispondo di tutto. —
Yanez sciolse rapidamente la fascia di lana rossa che portava stretta attorno ai fianchi e la passò intorno all’anello di metallo del prezioso cofano che racchiudeva la pietra di Salagraman, legandosi il prezioso talismano alle spalle.
– Al pozzo, ora, – disse poi all’indiano.
Bindar stava per cacciarsi nell’ultimo tratto della galleria, quando s’arrestò bruscamente facendo un gesto di terrore.
– Vengono!
– Chi? – domandarono Yanez e Sandokan.
– Le tigri.
– Io non ho udito nulla, – disse il portoghese.
– Guardate sotto la galleria che abbiamo attraversata. —
Tutti si erano voltati puntando le carabine.
Otto punti luminosi, che avevano dei riflessi verdastri, che ora si socchiudevano ed ora si aprivano, brillavano sinistramente fra le tenebre.
– Per Giove! – esclamò Yanez, che dinanzi al pericolo aveva ricuperato prontamente il suo meraviglioso sangue freddo. – Sono ben occhi di tigri, quelli che scintillano laggiù.
I gurum le hanno scatenate ma non hanno pensato che le nostre costole sono indigeste anche alle signore della jungla.
– In ginocchio tutti! – comandò Sandokan, snudando la scimitarra e traendo una pistola a doppia canna.
– Puoi tener fronte all’attacco? – chiese Yanez.
– Sì, fratello.
– Andiamo a vedere il pozzo, Bindar. Assicuriamoci innanzi a tutto la ritirata.
– Fa’ presto, fratello, – disse Sandokan.
– Non domando che un solo minuto. —
Si slanciò nella galleria coll’indiano che portava una torcia. Il fragore, prodotto dal fiume scorrente sopra i sotterranei della pagoda, era diventato assordante.
Bindar, che tremava come se avesse la febbre, percorsi venti passi e fors’anche meno, si era fermato dinanzi ad una vasta apertura circolare, che non era difesa da alcun parapetto, in fondo alla quale si udivano a gorgogliare cupamente le acque del Brahmaputra.
– È per di qui che dovremo scendere, – disse. – Vedi, sahib, che vi è anche una gradinata. —
Yanez non aveva potuto trattenere una smorfia di malcontento.
– Per Giove! – esclamò. – Questa discesa non sarà molto allegra; sei ben sicuro che noi non lasceremo la nostra pelle entro questa voragine?
– Alcune settimane or sono per di qui è fuggita una ragazza che i gurum avevano rapita per farne una bajadera.
– Ed è riuscita a salvarsi?
– Te lo giuro su Siva, sahib.
– Perché hanno aperto questo pozzo i sacerdoti?
– Per lavarvi, senza essere veduti da alcun occhio profano, la pietra di Salagraman.
– Tu sarai il primo a saltare in acqua. Voglio essere ben certo io del mio conto.
– Preferisco uscire da questa parte che affrontare le tigri, – disse Bindar.
– E se… —
Due colpi di carabina che rintronarono sotto le tenebrose volte come due colpi di spingarda lo interruppero.
– Ah! Le signore della jungla, – disse. – Andiamo a vedere se sono molto affamate.
Quando ci saremo sbarazzati di quelle andremo a far conoscenza colle acque del Brahmaputra.
È strano! Quest’avventura, salvo in certi particolari, mi fa pensare a quella affrontata nelle caverne di Raimangal. —
Tornò rapidamente indietro, seguìto dall’indiano, e giunse nella sala sotterranea nel momento in cui rintronarono altri tre colpi di carabina.
– Si sono decise ad assalirci dunque? – chiese il portoghese, levandosi le pistole. – Ci sono anch’io nella partita e le mie armi sono di buon calibro.
Fabbrica anglo-indiana e delle più famose.
– Temo che abbiamo sprecato inutilmente delle cariche, – disse Sandokan, che stava in piedi dietro ai malesi ed ai dayachi inginocchiati, assieme a Tremal-Naik. – Quelle bestie sono di una prudenza estrema e pare che non abbiano fretta di assaporare le nostre carni.
– Puzzano troppo di selvatico quelle dei nostri uomini, – disse il portoghese, che non perdeva mai il suo buon umore.
– Dove sono?
– Sono dinanzi a noi, ma socchiudono troppo di frequente gli occhi e così non si lasciano scorgere, – rispose Sandokan.
– Eppure dobbiamo far presto. L’alba non è lontana e poi vi è il pericolo che giungano le guardie del rajah.
Ritiriamoci verso il pozzo e, se ci seguiranno fin là, daremo a loro battaglia prima di tuffarci.
– In ritirata, amici! – gridò Sandokan.
I malesi ed i dayachi si alzarono rapidamente, mostrando sempre la fronte alle tigri e si ritrassero in buon ordine verso il corridoio, che conduceva al pozzo.
Fra l’oscurità, di quando in quando s’alzava terribile quell’impressionante ahu, delle regine delle jungle indiane.
– Ci siamo, – disse Yanez, indicando a Sandokan il pozzo.
– Che oscurità, – mormorò Tremal-Naik. – Confesso che il rumoreggiare di quest’acqua non giunge gradito ai miei orecchi.
– Non vi è altra via da scegliere, – rispose Yanez. – A te Bindar.
– Sì, sahib, – rispose l’indiano.
Scese la gradinata senza manifestare la menoma apprensione. Si udì un tonfo, poi più nulla.
– Agli altri ora, uno ad uno! – gridò il portoghese.
Un malese fu il primo, poi seguirono gli altri. Non erano rimasti che Sandokan, Tremal-Naik ed il portoghese, quando degli ahu spaventevoli echeggiarono all’entrata della galleria.
– Le tigri! – aveva gridato il bengalese.
– Ah! canaglie! – gridò Yanez. – Hanno aspettato il buon momento! —
Sandokan si era precipitato innanzi, colla scimitarra alzata e la pistola montata.
Due lampi, che per poco non spensero la torcia che era stata infissa in un crepaccio della rivestitura del pozzo, balenarono.
Una massa enorme attraversò lo spazio dinanzi al terribile pirata della Malesia, dibattendosi disperatamente e tentando di afferrarsi colle zampe anteriori.
– A te il resto dunque! – gridò Sandokan.
La sua scimitarra fischiò in alto e troncò d’un colpo solo il collo della belva.
– Va’! – continuò il formidabile uomo. – Tu non sei degna di misurarti colla Tigre dell’arcipelago malese! —
Le altre tre belve però erano pure comparse, e non sembravano affatto impressionate per la fine miseranda della compagna.
Tremal-Naik, che oltre le pistole aveva una splendida carabina indiana, fece fuoco sulla più vicina, senza troppa precipitazione.
La signora delle jungle spiccò un salto in aria mandando una specie di ruggito e cadde pure per non più alzarsi. Era stata fulminata.
– A te, Yanez, finché ricarico le pistole! – gridò Sandokan, balzando indietro.
– Eccomi, – rispose il portoghese.
Oltre le armi da fuoco che portava appese alla cintura, aveva estratto il kriss mettendoselo fra le labbra.
Le due altre tigri s’avanzavano strisciando e mugolando.
Tremal-Naik sparò la sua pistola alla distanza di appena dieci passi e sbagliò entrambi i colpi.
I due lampi però spaventarono le belve facendole indietreggiare rapidamente fino all’estremità del corridoio, prima che Yanez avesse avuto il tempo di far fuoco.
Quel momento di sosta era stato però sufficiente a Sandokan per ricaricare le sue armi.
– Yanez, – disse il pirata, – le tigri tarderanno l’attacco dopo un così brutto ricevimento. Approfitta senza ritardo.
– Per che fare?
– Per scendere nel pozzo e gettarti nel Brahmaputra. Tu devi salvare la pietra di Salagraman e quel cofano ti darà non poco impiccio se dovrai nuotare sott’acqua.
– E voi?
– Non occupartene. Da’ a noi le tue pistole che in acqua non ti servirebbero.
Il kriss ti basterà. Sarà meglio però che tu ti sbarazzi almeno degli stivali.
– Esito.
– Perché?
– Siete in due contro due.
– E le armi? Abbiamo coi tuoi sette colpi e poi sai che noi non abbiamo paura.
Metti in salvo il cofano, se ti è assolutamente necessario per conquistare la corona.
– Più che necessario.
– Allora salta in acqua. Le tigri brontolano, ma non si muovono e probabilmente lasceranno anche a noi il tempo di andarcene senza troppi pericoli.
Spicciati! —
Il portoghese si levò gli stivali e la giacca, si fissò bene il kriss nella cintura dei calzoni, si assicurò il cofano e scese la gradinata, dicendo ai suoi due valorosi compagni:
– L’appuntamento è nel nostro sotterraneo. —
Scese dieci gradini viscidi per l’umidità e si trovò dinanzi ad un foro circolare entro cui gorgogliava la corrente.
– Preferirei vederci, – disse. – Bah! Posso fidarmi delle mie forze. —
Alzò le mani e si precipitò nelle cupe acque del Brahmaputra, scomparendo sotto la galleria sommersa.
Si era appena tuffato, quando un ahu terribile annunciò a Sandokan ed a Tremal-Naik che le due tigri si erano finalmente decise a ritentare l’assalto e vendicare le loro compagne.
– In guardia, Tremal-Naik, – disse la Tigre della Malesia. – Vengono a grandi slanci.
– Sono pronto a riceverle, – rispose l’intrepido bengalese. – Nella jungla nera ne ho ammazzate un buon numero, quindi sono pure mie vecchie conoscenze. —
Le due belve erano sbucate dalla galleria, mugolando ferocemente. Erano due splendidi animali, che avevano raggiunto il loro pieno sviluppo, con un collo da toro.
Vedendo i due uomini in piedi, colle armi puntate, dinanzi alla torcia che mandava dei bagliori sanguigni crepitando, si erano fermate, raccogliendosi su loro stesse, come se si preparassero allo slancio supremo.
– Fuoco, Tremal-Naik! – aveva gridato precipitosamente Sandokan.
Il bengalese scaricò la carabina ed una delle due tigri, colpita sul muso, s’inalberò come un cavallo che riceve una terribile speronata, poi si accasciò.
– Salta in acqua, Tremal-Naik! – gridò Sandokan.
Il bengalese si precipitò giù per la gradinata, credendosi seguìto dal pirata; questi invece era rimasto fermo dinanzi all’ultima tigre che cercava di avvicinarsi, strisciando lentamente.
– Non voglio che nemmeno tu difenda più mai il tesoro del rajah, – disse il formidabile uomo, – La Tigre della Malesia ti aspetta a piè fermo. —
La belva aveva risposto con una specie di miagolìo strozzato e aveva fissati i suoi occhi fosforescenti sull’uomo che osava offrirle l’ultima battaglia.
– Ti aspetto, – ripeté Sandokan, che impugnava la pistola sua e quella di Yanez. – Spicciati: ho fretta di raggiungere i compagni. —
La tigre spalancò la bocca, mostrando i suoi aguzzi denti, duri come l’acciaio e dalla gola uscì una nota spaventevole che terminò in un vero ruggito, quasi simile a quello che irrompe dal petto dei leoni africani, poi scattò.
Sandokan, che s’aspettava quell’assalto, fu lesto a gettarsi da una parte, poi sparò i suoi quattro colpi con lentezza studiata, cacciando tutte le quattro palle nel corpo della belva.
– La Tigre della Malesia ha vinto un giorno la Tigre dell’India uomo – disse, mentre un sorriso d’orgoglio gli compariva sulle labbra. – Ora ho ucciso anche la tigre dell’India animale. —
Si rimise le pistole nella cintura e mentre la fiera esalava l’ultimo respiro, scese la gradinata e si gettò, senza la menoma esitazione, nelle tenebrose acque del Brahmaputra.