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Kitabı oku: «Capitan Tempesta», sayfa 15

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CAPITOLO XXIII. Il patto col polacco

Udendo quella voce Perpignano, che si dibatteva contro sette od otto mussulmani, vigorosamente spalleggiato da papà Stake, il quale dispensava pugni con una generosità straordinaria, quantunque poco graditi dai nemici della croce, con un impeto improvviso si era fatto largo, slanciandosi verso il nuovo venuto.

– Rinnegato! – gli urlò sul viso. – Prendi!

Con un gesto fulmineo la sua mano aperta era piombata sul viso del capitano con un rumore secco, paragonabile ad un colpo di frusta.

Una bestemmia era sfuggita dalle labbra del percosso.

– Ah! gridò poi. – Mi hai riconosciuto? Ho molto piacere, ma questo schiaffo me lo pagherai, amico, e non saranno gli zecchini nè la zara che salderanno i conti.

– Laczinki! – aveva esclamato la duchessa, facendo un gesto di disprezzo e tirandosi indietro come se avesse avuto paura di venire toccata da quell’uomo.

– Sì, l’orso delle foreste polacche, – rispose il capitano, con un brutto sorriso. – Il cristiano ha dato un calcio alla Croce ed è diventato un fedele credente di Maometto.

– Vile rinnegato! – gridò Eleonora. – Tu disonori la cristianità.

– Ma in cambio mi sono acquistato le simpatie delle bellissime uri che popolano il paradiso di Maometto, – rispose il polacco, col suo solito accento beffardo.

– Finiamola, – disse Metiub, che cominciava a perdere la pazienza. – Traete questa donna in una cabina del quadro, portate il ferito nell’infermeria e cacciate gli altri nella sentina. Non è questo il momento di perdere tempo in chiacchiere inutili. Obbedite, marinai.

– E questo è il modo con cui i turchi ricompensano i galantuomini che risparmiano i prigionieri di guerra, – disse papà Stake che era stato ridotto ormai all’impotenza. – L’avevo detto io che sarebbe stato meglio regalarli ai pesci-cani.

– Che cosa intendi di dire, vecchio? – chiese Metiub. – Di quali prigionieri parli?

– Di quelli che si trovano nella cala della gagliotta e che noi abbiamo avuto il torto di risparmiare.

– Forse l’equipaggio dello sciabecco?

– Sì.

– Allora, per mostrarti che anche noi siamo generosi, non vi si metteranno i ferri, – disse il turco.

– Sì, Famagosta informi, – disse Perpignano.

– Io non c’ero – ribattè asciuttamente il mussulmano.

Poi volgendosi verso i suoi uomini, disse:

– Sbrigatevi: la brezza si leva fresca.

– Lasciate che il ferito lo portino i miei uomini, – disse la duchessa con voce imperiosa.

– Sia pure, – rispose il turco. – Fate largo voialtri.

Il signor Le Hussière era stato collocato su una tavola, coperta da uno straglio e quattro greci l’avevano sollevato, dopo che Nikola aveva arrestato alla meglio il sangue che colava abbondantemente dalla ferita.

Il povero visconte, già mezzo dissanguato dalle sanguisughe degli stagni morti ed indebolito dalle lunghe privazioni fattegli subire dalla crudele nipote del Pascià, non era più tornato in sè.

Pallido come un cadavere, cogli occhi chiusi, pareva che non desse più segno di vita.

La duchessa gli si era avvicinata. Non era meno smorta del fidanzato, pure più nessuna lagrima brillava sulle sue ciglia.

Dinanzi ai mussulmani che la guardavano attentamente, voleva mostrarsi sempre degna del nome che aveva portato a Famagosta. Capitan Tempesta, uomo o donna che fosse, non poteva apparire debole nemmeno dinanzi a quella terribile sciagura.

Prese fra le mani, delicatamente, la testa del ferito e depose sulla sua fronte un lungo bacio.

– Andate, mio valoroso, – gli sussurrò, come se lo svenuto potesse ancora udirla. – Eleonora ti vendicherà.

Poi aveva fatto un segno ai greci che reggevano la tavola.

Le file dei turchi si erano aperte.

I quattro greci, seguiti da Eleonora, da El-Kadur e da tutti gli altri che formavano l’equipaggio della gagliotta passarono sull’alto castello di prora della galera, essendo stato gettato un ponte volante.

Metiub ed il polacco si erano affrettati a raggiungerli, mentre parte dei loro uomini liberavano l’equipaggio dello sciabecco che si trovava nella cala, sempre solidamente incatenato.

– Portatelo nell’infermeria, – disse il luogotenente di Haradja. – E tu signora, seguimi.

– Perchè non mi lasci presso di lui? – chiese Eleonora. – Egli è il mio fidanzato.

– Non ho ricevuto ordini in proposito, – rispose Metiub. – Quando saremo giunti a Hussif, Haradja penserà.

– Lascia almeno che lo visiti prima che il sole tramonti e che la tua nave approdi nella baia.

– Se ciò può farti piacere, signora, te l’accordo. Quantunque tu mi abbia gravemente offeso dinanzi ai miei marinai e mi abbia vinto dinanzi alla nipote del pascià, sfatando la leggenda che nessuna lama, all’infuori di quella del Leone di Damasco, avrebbe potuto vincermi, io ti ammiro ancora.

La duchessa lo guardò con stupore, non credendo di trovare in quel mussulmano, che non doveva essere meno feroce dei suoi compatrioti, un lampo di generosità.

– Sì, ti ammiro, signora, – ripeté il turco, che pareva si fosse accorto della sorpresa della duchessa. – Prima di tutto sono un uomo d’armi e sia il mio avversario uomo o donna, turco o cristiano, io apprezzo i valorosi, forse più di Haradja e mi vanto di essermi misurato con chi ha pur vinto il Leone di Damasco.

– Sicchè tu mi lascerai vedere il visconte?

– Sì, questa sera.

– E lo farai curare?

– Come fosse mio fratello: ad una condizione però.

– Quale.

– Che tu m’insegni, signora, quella terribile botta segreta che io prima non avevo mai conosciuta e che mi atterrò, Per il Profeta! Se avessi voluto vincermi completamente a quest’ora io non sarei più qui a comandare questa galera. Io al tuo posto non sarei forse stato tanto generoso, specialmente dinanzi ad una donna come Haradja.

– Che cosa credi che farà di me la nipote del pascià?

– Non lo so, signora, – rispose il turco. – Haradja non si può conoscerla a fondo, quindi sarebbe impossibile indovinare i suoi pensieri. È capricciosa come i venti ed i cavalloni del Mediterraneo. Vieni: ho da prendere a rimorchio la gagliotta e molte cose ancora da fare.

La duchessa, quantunque avesse preferito passare nella corsìa dell’infermeria, seguì il turco scendendo nel quadro di poppa.

Attraversarono la sala da pranzo e Metiub si fermò dinanzi ad una cabina la cui porta era assai spessa.

– Entra, signora, e sta’ tranquilla, – disse il mussulmano. – Finchè rimarrai a bordo della mia galera non avrai nulla da temere.

– Non sarò tranquilla pel visconte.

– Il medico di bordo è a quest’ora al suo fianco e lo curerà come si trattasse di me.

Aprì la porta e la fece entrare in una comoda cabina, ammobiliata con lusso tutto orientale, poi s’affrettò a chiuderla, mentre due marinai, armati di scimitarra e di pistoloni scendevano nel corridoio.

– Che nessuno entri, – disse loro il comandante. – Per un solo uomo non vi è divieto: il capitano dei giannizzeri.

Quando risalì sul ponte, i marinai avevano già presa a rimorchio la gagliotta e la galera si era rimessa al vento, navigando lentamente verso il settentrione essendo la brezza sempre molto debole, almeno nelle vicinanze della costa.

Aveva appena dato alcune disposizioni ai suoi ufficiali ed ai mastri della ciurma, quando fu abbordato dal polacco che era uscito in quel momento dall’infermeria.

– Il ferito va malissimo, – gli disse. – L’estrazione della palla è impossibile e quel pezzo di piombo ha leso le parti nobili.

– Un polmone forse? – chiese il mussulmano, aggrottando la fronte.

– Ha attraversato il sinistro.

– Morrà dunque?

– Ma… – disse il polacco scuotendo il capo. – Un colpo di spada sarebbe stato meno pericoloso.

– Ciò m’inquieta, – disse il turco, dopo un breve silenzio. – Avevo promesso ad Haradja di riportarglieli tutti vivi.

– Bah! Un inciampo di meno rispose il polacco.

– Perchè dici questo, capitano?

– Seguivo in questo momento una mia idea. Dimmi, tu che conosci la nipote del pascià da molto tempo, che cosa se ne farà di Capitan Tempesta?

– Ecco una domanda che quella donna mi ha fatto poco fa, – disse il turco. – Va’ tu ad indovinare il carattere di quella capricciosa. Io non potrei risponderti.

– Che la uccida?

– Mi parve molto furibonda contro quella terribile spadaccina.

– Io non lo permetterò mai.

Il mussulmano ebbe un sorriso quasi di compassione.

– Tu, capitano, – disse poi. – Non sai dunque che Haradja, forte della protezione del grande ammiraglio se ne ride di Mustafà e occorrendo anche di Selim?

– Vivaddio! – gridò il polacco.

– Tu dimentichi di essere un mussulmano, – disse il turco ridendo.

– Per la barba del Profeta allora!

– Che cosa vuoi concludere?

– Che avendo io denunciata quella donna come una cristiana, dovrebbe spettare a me, – disse il polacco.

– Non so se Haradja l’intenderà così, capitano.

– Guai a lei se volesse ucciderla! – gridò Laczinki, con voce minacciosa.

– Eh! fece il turco, – guardandolo maliziosamente. – Tanto ti preme la vita di quella cristiana?

– Non sono obbligato a darti spiegazioni, capitano.

– Non sono necessarie.

– Dove si trova quella donna?

– Nella terza cabina di babordo.

– Bisogna che io la veda.

– Io non ho ricevuto l’ordine d’impedirtelo, – rispose Metiub. – Ti avverto solo che tu non puoi toccarla, nè usarle alcuna sgarbatezza.

– Che il diavolo t’impicchi, cane d’un turco, – brontolò fra sè il polacco, allontanandosi. – Siate maledetti tutti, Maometto compreso!

Scese assai di malumore la scaletta del quadro, fece cenno ai due marinai di allontanarsi, poi essendovi la chiave nella toppa, aprì la porta ed entrò nella cabina, dicendo:

– Permettete, signora.

La duchessa stava seduta su un piccolo divano, di fronte alla finestra che s’apriva sulla poppa della nave, al disotto del coronamento.

Aveva gli sguardi fissi sul mare e sembrava immersa in dolorosi pensieri, a giudicarlo dall’espressione del suo viso e da due lagrime che le brillavano, come due perle, sotto le lunghe ciglia.

– Signora, – ripetè il polacco, credendo di non essere stato udito a causa delle onde che si frangevano sotto il timone.

Nemmeno questa volta la duchessa si mosse.

– Per la barba del Profeta e di tutte quelle turche! – esclamò il capitano un po’ irato. – Vi ho chiamata ripetutamente e non sono un miserabile schiavo io!

La duchessa si scosse, si rizzò poi bruscamente con una mossa leonina, ergendosi fieramente dinanzi all’Orso della Polonia, cogli occhi fiammeggianti, il viso animato da un vivo rossore.

– No, non siete uno schiavo, – disse con voce fremente – siete un rinnegato! Un povero schiavo non avrebbe abbandonata la sua fede come avete fatto voi, capitano Laczinki.

– Maometto vale Gesù Cristo; l’Islam la Croce, almeno per un capitano di ventura, – rispose il polacco. – D’altronde voi non potete vedere ciò che pensa il mio cervello, nè quale fede abbia in cuore. E poi la pelle vale meglio d’una religione.

– E voi siete venuto qui, in questa Cipro, dove gli eroi sventurati combatterono, pur sapendosi votati ad una morte orribile, a sfoderare la vostra spada. Chi volevate difendere? Il Leone ruggente di San Marco o la Mezzaluna?

– A me bastava menar le mani come tutti i buoni capitani di ventura, signora. La fede! La patria! Parole vuote per noi. Lottare pei russi o pei germani, pei tartari o pei cinesi, pei mussulmani od i cristiani, od i buddisti che importa a me?

Ma io non sono venuto per discutere, signora duchessa. Lo potremo fare un’altra volta, in un momento migliore.

– Che cosa siete venuto a fare qui, signor Laczinki?

Il polacco, invece di rispondere aprì la porta e diede uno sguardo nel corridoio, onde assicurarsi che nessuno stava lì presso ad ascoltare, poi, dopo d’averla rinchiusa con precauzione si avvicinò alla duchessa che l’osservava non senza una certa inquietudine e disse:

– Sapete dove Metiub vi conduce?

– Al castello d’Hussif, – rispose Eleonora.

– O meglio da Haradja, la nipote del pascià.

– E così?

– Quale accoglienza vi farà quella donna che gode fama tristissima per l’implacabilità dei suoi odii e per le sue crudeltà?

– Non certo troppo cortese.

– Io vi posso dire che è furibonda contro di voi e che non vi perdonerà di averla così abilmente giuocata.

La duchessa gli piantò in viso uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

– Ah! – disse con voce sorda. – Voi l’avete veduta dunque?

– Non ve lo nego.

– Per dirle che io non ero un uomo bensì una donna, è vero, signor avventuriero ed ex cristiano?

– Io non vi ho detto questo, – rispose il polacco, il quale però si tradiva colla sua aria imbarazzata.

– Mentite da vero rinnegato! – gridò la duchessa con ira. – Solo voi e pochi miei amici, incapaci di tradirmi però quelli, sapevano che io non ero un uomo.

– Voi non avete alcuna prova per accusarmi.

– La prova la vedo nei vostri occhi.

– Gli occhi spesso ingannano, e basta, vivaddio! Non fatemi uscire dai gangheri e lasciatemi finire. Io non sono entrato già qui come nemico, bensì come un amico, pronto a tutto tentare pur di salvarvi.

– Voi!

– Valgo ancora ben qualche cosa, signora? Anzi, quantunque io sia un rinnegato, godo maggior considerazione fra i mussulmani di quella che godevo fra i cristiani. La divisa che indosso ve lo dimostra.

– E siete venuto qui per salvarmi?

– Voi e anche gli altri.

– Anche il visconte?

Il polacco ebbe un istante di esitazione, poi disse:

– Sì, se lo vorrete e se riuscirà a guarire.

– Gran Dio! – esclamò la duchessa impallidendo. – La sua ferita sarebbe mortale?

– Mortale veramente no, molto grave sì, e non so se potrà cavarsela. Quei maledetti turchi adoperano del pessimo piombo che quando urta contro un osso si spacca.

La duchessa era ricaduta sul divano, coprendosi il viso colle mani e singhiozzando.

– Via, – disse il polacco – mi rincresce troppo veder piangere degli occhi così belli e poi un Capitan Tempesta non deve mostrarsi debole dinanzi a nessuno. D’altronde io non vi ho ancora detto che il medico di bordo lo abbia ormai condannato.

Ho veduto a guarire ben altre ferite io, quando combattevo contro i tartari russi.

– Forse avete ragione, – disse la duchessa, tergendosi le lagrime e rialzandosi.

– Dite, che cosa volete?

– Salvarvi tutti, vi ho detto.

– Vi sareste pentito d’aver abbandonata la Croce?

– Sì e no, – rispose il polacco, crollando il capo.

– E come potreste voi salvarci?

– È necessario che io impedisca, innanzi a tutto, che la galera giunga nella rada d’Hussif. Se ricadeste nelle mani di Haradja tutto sarebbe finito ed io non voglio, mi capite, che quella donna vi uccida.

– Che importerebbe a voi!

– Più di quello che credete, signora, – rispose il polacco, guardandola fissa.

– Spiegatevi meglio.

– Non mi avete ancora compreso?

– No.

– Salvando voi, mi espongo a dei gravissimi pericoli e nella mia qualità di rinnegato, se venissi sorpreso, non sfuggirei certo al palo.

– Certo, – disse la duchessa che lo ascoltava attentamente.

– Ho quindi il diritto di avere una ricompensa pel rischio a cui io mi espongo.

– Del denaro? Sono abbastanza ricca per pagarvi il prezzo che chiederete.

Il polacco fece una smorfia.

– Ai capitani di ventura basta una buona spada e la paga, per vivere, – disse poi. – Non chiedono di più e poi, se hanno bisogno di qualche zecchino se lo procurano nei saccheggi.

– Che cosa volete dunque? – chiese la duchessa, con angoscia.

– Che cosa?… – disse il polacco esitando. – La vostra mano.

– La… mia…

– Mano.

Lo stupore della duchessa fu tale che, per parecchi istanti, non trovò parola alcuna per rispondere.

– Scherzate, capitano, – disse finalmente facendo uno sforzo supremo per frenare la sua indignazione. – Ed il visconte Le Hussière?

– Si lascia.

– Mi amate, voi?

– Perdinci! Vi ho amata e anche odiata nell’istesso tempo: amata per la vostra bellezza, per la vostra audacia, per la vostra grazia e pel vostro nome: odiata perchè la vostra spada vinceva quella dell’orso della Polonia. Se accettate, questa sera la galera sarà in fiamme e non tornerà più a Hussif.

La duchessa era rimasta silenziosa, però i suoi occhi brillavano d’una viva fiamma.

– Accettate il patto? – chiese il capitano.

– Sì – rispose la duchessa. – Il visconte ormai è uomo finito, e badate, dovete salvarci tutti. Giuratelo.

– Sulla Croce e sulla Mezzaluna, – disse il polacco. – Datemi la vostra mano.

La duchessa abbandonò la sua, fremendo, in quella callosa dell’avventuriero.

– Questa sera la galera brucerà dalla stiva al pomo degli alberi, – disse il polacco. – Addio, mia dolce fidanzata: non avrete da lagnarvi di me.

Aprì la porta e uscì senza far rumore.

La duchessa era rimasta immobile, colla fronte pensierosa, gli occhi animati da un lampo terribile, le mani strette sul petto.

– Maledetto rinnegato! – esclamò finalmente. – Come ho giuocato Haradja giuocherò anche te. Io non ho giurato sulla Croce.

CAPITOLO XXIV. L’incendio della galera

Mentre nella cabina succedeva quella scena, papà Stake, chiuso nella sentina della galera, si sfogava a mandare al diavolo, nella luna, nel sole ed anche all’inferno, Maometto e tutti i suoi adoratori.

L’irascibile e ciarliero lupo di mare scoppiava come una bomba di pietra dei mussulmani.

– Presi! – gridava, picchiandosi ora la testa e tirandosi la rada e molto bianca barba. – Che la Croce e Dio ci abbiano dunque abbandonati?… È troppo! È ora che la fortuna dei turchi finisca! Così non la può durare o finirò per diventare anch’io un maledetto rinnegato. Che cosa ne dite, signor Perpignano?

Il tenente, che si trovava seduto presso El-Kadur, tenendosi il capo stretto fra le mani, non aveva creduto opportuno rispondere alle sfuriate del mastro.

– Corpo d’un pescecane sventrato, mangiato, divorato e arrostito di poi! Siete tutti morti voi?… Vi rassegnerete dunque a lasciarvi condurre al castello d’Hussif e farvi impalare su quelle aste di ferro che sorgono sulle torri? Io no, per centomila bombe di pietra o di ferro! Non ho nessuna voglia di finire la mia esistenza lassù, nè di lasciarmi scorticare come un asino vecchio.

– Ebbene, papà Stake, che cosa vorreste fare? – chiese il tenente, scuotendosi dall’accasciamento che lo aveva preso.

– Io! – esclamò papà Stake con accento feroce. – Butto all’aria la galera e tutti i furfanti che la montano, noi esclusi però.

– Fatelo dunque, – disse El-Kadur, con un po’ d’ironia.

– E che, pezzo di pan bigio, mi crederesti incapace di dar fuoco alle polveri? Tu non sei un veneziano, nè un dalmato e perciò ti compatisco.

– Sono un uomo che ne vale un altro e che a Famagosta si è fatto notare.

– Ed io forse no? – disse papà Stake, – Ho fatto saltare una torre nel momento in cui i turchi stavano per espugnarla, ed ho mandato tutti all’altro mondo: chi in paradiso, chi in purgatorio, chi all’inferno e chi a vedere le uri, a seconda dei loro peccatuzzi.

Credi tu, pezzo di pan bigio, che un marinaio valga meno d’un terragnuolo e anche sabbioso per soprappiù?

El-Kadur stava per rispondere e forse malamente, quando il signor Perpignano mise fine alla disputa, chiedendo all’irascibile mastro:

– Spiegatevi, papà Stake. Che cosa vorreste tentare?

– Mandare alla malora questa galera, prima che giunga nella baia d’Hussif, – rispose il lupo di mare.

– Anch’io lo vorrei, ma non saprei trovare il modo.

– Si cerca.

– Avete qualche idea?

– Io sì che l’avrei: disgraziatamente mi mancano gli utensili.

– Quali?

– Qualche scure, uno scalpello; qualche cosa insomma che possa servire a sabordare la cala.

– Sabordare?

– Aprire un buon buco per lasciar entrare l’acqua e mandare la galera a picco.

– Non abbiamo nemmeno un coltello, papà Stake.

– Purtroppo, signor Perpignano, – rispose il lupo di mare.

– Io avrei forse un’idea migliore, – disse in quel momento Nikola Stradioto che fino allora non aveva aperto bocca.

– Butta fuori, greco, – disse papà Stake. – Già i tuoi compatrioti godono fama di essere più furbi di tutti i levantini e di dar dei punti perfino agli smirnesi.

– I turchi mi hanno levate le armi e mi hanno lasciato l’acciarino e l’esca.

– Buono per accendere la pipa se avessi un po’ di tabacco, – disse il vecchio mastro.

– E anche per accendere una nave, – rispose il greco, serio.

Papà Stake aveva fatto un soprassalto.

– Lo dicevo io che i greci sono più furbi di tutti! – esclamò, dandosi un poderoso pugno sulla testa. – Il mio cervello vale quello d’un coniglio!

– Vorreste dar fuoco alla galera, Nikola? – chiese Perpignano.

– Sì, signore; sarebbe l’unico mezzo per immobilizzarla.

Senza saperlo, il greco aveva avuto la medesima idea del polacco, l’unica d’altronde che potesse avere qualche riuscita, non potendo pensare, quei pochi uomini sprovvisti d’armi, ad impegnare una lotta disperata contro l’equipaggio turco che era dieci volte più numeroso.

– Che cosa ne pensate? – chiese Nikola, vedendo che tanto il vecchio marinaio quanto il tenente rimanevano silenziosi.

– Che noi ci arrostiremo poco allegramente, – disse finalmente Perpignano.

– Non è alla cala che io intendo dar fuoco, – disse il greco. – Forzeremo prima il boccaporto e andremo ad incendiare il deposito delle gomene e delle vele di ricambio. Riunendo i nostri sforzi potremo riuscire a sfondare la botola che è tarlata.

– E se di fuori, nel frapponte, vi fosse qualche sentinella? – chiese il tenente.

– Le si torce il collo, – disse papà Stake.

– Quando credete che giungeremo nella baia d’Hussif? – chiese Perpignano.

– Non prima di mezzanotte, – rispose Nikola. – La brezza non aumenterà prima del calar del sole. Conosco i venti che spirano su queste coste essendo stato parecchi anni pescatore di corallo in questo tratto di mare.

– E la duchessa? Ed il visconte? Potremo noi salvarli?

– La costa non è lontana, scialuppe ve ne sono a bordo e non avremo difficoltà a raggiungere l’isola. Penserà poi il Leone di Damasco a trarci d’impaccio. Il suo schiavo ormai deve averlo raggiunto.

– Ecco un uomo meraviglioso, – disse papà Stake. – Andiamo ad esaminare la botola e vediamo se con una buona spinta possiamo sfondarla.

Si erano alzati tutti e tre ed essendo la cala illuminata da un piccolo pertugio, non ebbero alcuna difficoltà a giungere al boccaporto che metteva nel frapponte.

Papà Stake vi aveva appena appoggiata la mano per provarne la resistenza, quando la botola improvvisamente s’aprì.

– Non era chiusa! esclamò stupito.

– Perchè ho levata io la verga di ferro, – rispose una voce.

Tre esclamazioni erano sfuggite contemporaneamente dalle labbra del marinaio, del tenente e del greco:

– Il rinnegato!

– Sì, il rinnegato, – disse il polacco col suo solito accento ironico – che viene da parte della duchessa per salvarvi.

Scese la stretta scaletta e si fermò dinanzi ai tre uomini che lo guardavano di traverso, più pronti a saltargli al collo e strozzarlo, che disposti a credere alle sue parole.

– Voi venite… per salvarci? – chiese papà Stake, mettendosi le mani ai fianchi. – Voi! Evvia, volete scherzare, signore? La burla potrebbe costarvi cara, vi avverto prima.

Il polacco alzò le spalle, poi volgendosi verso il tenente, gli disse:

– Dite ad uno dei vostri uomini di mettersi in osservazione presso la botola. Ciò che devo dirvi, i turchi devono ignorarlo; ci va di mezzo la mia pelle.

– Buona per fare i tamburi, – brontolò papà Stake. – Resisterebbe meglio di quella degli asini.

Il tenente fece segno ad El-Kadur di salire la scaletta, dicendogli:

– Se qualcuno s’accosta, avvertici subito.

L’arabo scomparve attraverso la botola senza fare alcun rumore.

– Parlate, capitano, – disse il tenente.

– Voi poco fa complottavate, è vero?

– Noi! – esclamò papà Stake inarcando le braccia.

– Vi ho uditi a parlare.

– È vero, discutevamo sulla luna o meglio ci chiedevamo se è vero che abbia un paio d’occhi, un naso ed una bocca.

– Non scherzate, marinaio, – disse il polacco, con stizza. – Questo non è il momento. Voi progettavate di dar fuoco alla galera.

– Siete uno stregone? – chiese il tenente.

– No: vi ho uditi, essendomi messo in ascolto dietro la tramezzata. Oh! Non spaventatevi per questo: l’idea vostra collima perfettamente colla mia.

– Come! Voi?…

– Io avevo pensato di dar fuoco alla nave e mi ero già accordato colla duchessa.

– Toh! – esclamò papà Stake. – È assolutamente straordinario questo caso. Come possono andare d’accordo il cervello d’un rinnegato e quello d’un greco cristiano?

Il polacco finse di non averlo udito e proseguì:

– So che voi avete un acciarino e dell’esca, è vero?

– Sì, – rispose Nikola.

– Voi cercavate di raggiungere il deposito delle vele di ricambio e dei pennoni.

– È vero, – disse Perpignano.

– Approvo pienamente il vostro progetto. Io questa notte scenderò e leverò la verga di ferro della botola.

– Adagio, signore, – disse il mastro che diffidava sempre. – Chi ci garantisce della vostra lealtà? Non ci tendereste, per caso, un agguato per farci massacrare dai turchi? Sono cose che potrebbero accadere.

– Non sarei venuto qui, – rispose il polacco. – E poi non ci sarebbe stato nulla di difficile a mescolare, fra i cibi che vi saranno fra poco portati, un po’ di veleno e mandarvi diritti all’altro mondo. E poi impegno la mia parola d’onore.

– Hum! – fece il mastro, allungando le labbra e socchiudendo gli occhi. – Quest’onore puzza troppo pel mio naso.

Anche questa volta il polacco finse di non udire l’atroce offesa.

– Dunque? – chiese, guardando Perpignano.

– Giacchè voi date la vostra parola di non tradirci, noi siamo pronti a qualunque sbaraglio, pur di salvare la duchessa ed il signor Le Hussière.

– Siamo d’accordo?

– Sì, capitano.

– Un momento, signore, – disse Nikola Stradioto, intervenendo. – È forte la brezza?

– No, la calma perdura e la galera non riesce a guadagnare due nodi all’ora.

– Sicchè giungeremo nella rada d’Hussif?

– Non prima di domani mattina, se il vento non aumenta.

– Quanto distiamo ora?

– Una quarantina di mîglia per lo meno rispose il polacco.

– Mi bastano queste informazioni.

– A te, ma non a me, – disse papà Stake. – Voglio sapere se vi sono sentinelle nel frapponte.

– Nessuna, – rispose il polacco.

– E dove si trova il deposito delle vele e degli attrezzi di ricambio?

– Sotto il quadro.

Il mastro fece un soprassalto.

– Non bruceremo la duchessa che si trova prigioniera in una delle cabine, se ho udito bene?

– A quell’ora Capitan Tempesta si troverà presso il signor Le Hussière. Ho tutto previsto e tutto calcolato.

Potete dar fuoco liberamente, senza alcun timore. Cercate d’ingannare il tempo meglio che potete e non dubitate che al momento opportuno la botola sarà aperta. Arrivederci presto nelle scialuppe della galera.

Il rinnegato volse le spalle ai tre uomini e risalì lentamente la scaletta, facendo scorrere sopra la botola l’asta di ferro.

– Signor tenente, – disse papà Stake, mentre El-Kadur ridiscendeva. – Vi fidate voi di quell’uomo?

– Mi pare che questa volta sia leale, – rispose Perpignano. – Chissà! Forse il pentimento è entrato in quell’animo…

– Nero, molto nero, – disse il vecchio marinaio, crollando la testa. – Vedremo! D’altronde, morire sotto le scimitarre dei turchi od in bocca ai pescicani mi pare che sia tutt’uno. Crac! E tutto è finito e buona notte alla compagnia e anche ai suonatori, come dicono da noi.

Mezz’ora dopo, due mozzi seguiti da quattro marinai armati di scimitarre e di pistoloni che avevano la miccia accesa, portavano ai prigionieri due cesti contenenti delle olive, del pane nero e un pezzo di carne salata.

Nè i greci, nè i compagni della duchessa scambiarono alcuna parola con quei brutti musi, che li guardavano con certi occhi truci da far venire la pelle d’oca perfino a papa Stake, quantunque questi non fosse molto impressionabile.

Quando i mussulmani se ne furono andati ed il pasto fu divorato, il tenente propose ai suoi uomini di schiacciare un sonnellino, essendovi ben poche probabilità di chiudere gli occhi dopo il tramonto del sole con quel progetto che stava maturandosi.

Si accomodarono alla meglio sui vecchi velacci semiammuffiti che ingombravano la cala ed invitati dal lieve rollìo della galera, non tardarono ad addormentarsi, nonostante le loro preoccupazioni.

Fu papà Stake che pel primo diede la sveglia dopo molte ore. Una profonda oscurità regnava nella cala, perchè nessuno sprazzo di luce penetrava dallo stretto pertugio.

– Perdinci! – esclamò il vecchio lupo di mare. – Abbiamo dormito come ghiri. È bensì vero che abbiamo passata una notte bianca dopo la nostra fuga. Ohe, in piedi, dormiglioni!

Perpignano, El-Kadur ed i greci si erano alzati sbadigliando.

– Già notte? – disse il tenente.

– Il sole deve essersi immerso da parecchie ore, – rispose papà Stake. – Orsù, non perdiamo tempo e vediamo se possiamo arrostire qualche miscredente.

– Siete pronti? chiese il tenente.

– Tutti risposero ad una voce i rinnegati.

– Andiamo!

A tentoni, tenendosi per le casacche, trovarono la scaletta e la salirono. Papà Stake era il primo, avendo assicurato di vederci benissimo anche se mancava una lanterna. Raggiunta la botola, la spinse violentemente e l’alzò senza che opponesse alcuna resistenza.

– Toh! – mormorò. – Che quel cane d’un polacco si sia veramente pentito? Il diavolo ha perduto un’anima.

Passò pel primo e scrutò attentamente le tenebre. Il frapponte pareva deserto e nessuna lampada brillava.

– Se i turchi vorranno farci fuoco addosso, sarà un po’ difficile che ci colgano, – mormorò.

Tese gli orecchi e ascoltò attentamente, mentre i greci, che si erano levate le scarpe per non fare rumore, gli si radunavano intorno.

– Nessuno? – chiese Perpignano sottovoce.

– Lasciatemi ascoltare, signore.

Sulla tolda si udivano i passi pesanti degli uomini di guardia, sul frapponte i puntali scricchiolavano sotto lo sforzo che faceva la galera nell’avanzare e dai sabordi giungevano, ad intervalli, i cupi muggiti dell’onda che si frangeva contro i bordi.

– Mi pare che nessuno si occupi di noi, – disse papà Stake. – Silenzio e mistero, come dicono nelle tragedie.

Tenetevi per mano e siate pronti a strangolare il primo turco che cerca di sbarrarci il passo. Una buona stretta però, in modo da farlo crepare senza che mandi un grido.

– Avanti, – disse Perpignano. – Forse la baia d’Hussif non è lontana.

– Non mettetemi indosso delle paure, signore, – disse il vecchio mastro. – Questo non è il buon momento.

Appoggiò verso babordo, finchè toccò la parete e cominciò ad avanzarsi con infinite precauzioni.

Perpignano, aggrappato alla sua casacca, lo seguiva, poi veniva Nikola e finalmente tutti gli altri che si tenevano per mano, per non perdersi nell’oscurità.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
330 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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