Kitabı oku: «Capitan Tempesta», sayfa 4
Le masse dei barbari s’avanzavano, lente, pesanti, possenti, continuando a svolgersi nella pianura. A migliaia e migliaia salivano, verso le scarpe dei bastioni, come una marea irrefrenabile, mentre le mine rombavano cupamente, lanciando fra le tenebre guizzi sinistri di luce sanguigna o sulfurea che subito si spegnevano.
– Allah! Pel Profeta! Morte ed esterminio ai giaurri! – ruggivano centomila voci, coprendo il rimbombo delle tuonanti artiglierie.
Già i giannizzeri erano giunti dinanzi al bastione di San Marco e si preparavano ad assalirlo, quando un lampo vivissimo ruppe le tenebre, seguito da uno scroscio spaventevole. Una mina che non aveva preso fuoco, incendiata da qualche frammento di pietra infuocata o da qualche freccia incendiaria, era scoppiata squarciando a metà la cinta.
Un nembo di macigni s’alzò per l’aria storpiando od uccidendo un gran numero di giannizzeri, le cui colonne si erano subito ripiegate confusamente e cadde anche sul bastione occupato dai guerrieri veneti. Capitan Tempesta che si trovava presso uno dei merli, pronto a contrastare il passo agli invasori alla testa dei suoi valorosi schiavoni, fu rovesciato di colpo da un macigno, che lo aveva colpito al lato destro della corazza.
El-Kadur, che stava qualche passo indietro, vedendo la sua signora lasciarsi sfuggire lo scudo e la spada e stramazzare al suolo, come se fosse stata fulminata, si era precipitato innanzi, mandando un grido di spavento e d’angoscia.
– L’hanno ucciso! L’hanno ucciso!
La sua voce si perdette fra il frastuono orrendo che soffocava perfino la voce possente delle artiglierie. I giannizzeri montavano in quel momento all’assalto con urla frenetiche e nessuno poteva occuparsi della disgraziata e valorosa giovane, nemmeno il signor Perpignano che già lavorava di spada alla testa degli schiavoni.
El-Kadur, fuori di sè, afferrò la padrona, se la serrò contro il petto e discese a precipizio giù dal bastione, avviandosi a corsa sfrenata verso la città, incurante delle palle e dei frammenti di pietra che grandinavano nelle vie e sui tetti delle case.
Dove fuggiva? Lui solo lo sapeva.
Seguì per cinque o seicento metri la cinta interna, poi si arrestò sotto una delle vecchie torri della città, la cui base era già stata rovinata dalle mine. Ammassi di macerie s’alzavano dovunque e sulla cima di quella massiccia costruzione tuonavano due colubrine.
El-Kadur s’arrampicò su quei massi accumulati confusamente, che ad ogni colpo di cannone franavano e s’introdusse in una stretta apertura che pareva menasse in una casamatta ormai abbandonata.
S’avanzò a tentoni, tenendosi sempre stretta la giovane duchessa, poi la depose a terra delicatamente.
– Anche se Famagosta cadesse questa notte, nessuno scoprirà il cadavere della mia padrona, – mormorò.
Brancolò per alcuni istanti fra le tenebre, poi estrasse dalla sua borsa un acciarino e un pezzo d’esca e fece cadere parecchie scintille finchè ottenne una fiammella.
– Non hanno vuotato la casamatta, – disse. – Troverò l’occorrente.
Si diresse verso un angolo dove si scorgevano confusamente delle casse e dei barili ammonticchiati alla rinfusa, frugò per qualche secondo e levò una torcia che subito accese.
Si trovava in una specie di sotterraneo, scavato alla base del torrione e che pareva avesse prima servito di deposito alla guarnigione dell’attiguo bastione. Infatti, oltre le casse ed i barili contenenti armi e munizioni, vi erano dei materassi, delle coperte, delle giare contenenti forse dell’olio o del vino o più probabilmente delle olive, che costituivano ormai quasi l’unico nutrimento degli assediati.
L’arabo, senza preoccuparsi dei colpi di colubrina che echeggiavano sopra la sua testa e che si ripercuotevano nella casamatta con un rombo assordante, piantò la torcia in un crepaccio del suolo e depose la duchessa su un materasso.
– È impossibile che sia morta singhiozzò. – No, una signora così bella e così valorosa non può morire.
Levò il mantello che avvolgeva la duchessa e guardò la corazza. Verso il lato destro si vedeva una profonda ammaccatura, con un buco nel mezzo da cui usciva un filo di sangue. La scheggia di pietra o forse di ferro, lanciata con inaudita violenza, aveva spezzato perfino l’acciaio. Slacciò con infinite precauzioni la corazza e scorse subito, un po’ sotto la spalla, una ferita profonda che sanguinava abbondantemente.
– Purchè non sia entrato nelle carni qualche frammento del proiettile, la mia padrona non morrà, – mormorò l’arabo. – Il colpo deve essere stato però violentissimo.
Stracciò il manto della duchessa che era di lana finissima e leggera, facendo delle bende, sollevò parecchie giare che erano coperte e trovatane una piena d’olio vi bagnò uno straccio. Fasciò delicatamente la ferita per arrestare il sangue, poi soffiò a più riprese, a tutta forza, sul volto di Capitan Tempesta per farlo tornare in sè.
– Sei tu, mio fedele El-Kadur? chiese ad un tratto la duchessa, aprendo gli occhi e fissandoli sull’arabo.
La sua voce era fioca ed il suo bel viso pallidissimo, bianco come un cencio di bucato.
– Vive! La mia padrona vive! – esclamò l’arabo – Ah! Signora, ti avevo creduta morta.
– Che cos’è avvenuto, El-Kadur? – riprese la duchessa, – Non ricordo più nulla… dove siamo… chi spara presso di noi? Non odi questi rombi che mi pare mi spezzino la testa?
– Siamo in una casamatta, signora, al sicuro dalle palle dei turchi.
– I turchi! esclamò la giovane, tentando di alzarsi a sedere, mentre i suoi occhi s’illuminavano – I turchi! È caduta Famagosta?
– Non ancora, signora.
– Ed io sono qui mentre gli altri si fanno uccidere?…
– Sei ferita.
– È vero… provo un dolore acuto qui… mi hanno colpito con una palla o con un colpo di spada? Non mi rammento più nulla.
– È stata una scheggia di pietra che ti ha spezzata la corazza.
– Dio, che frastuono!
– I turchi montano all’assalto.
La duchessa si era fatta maggiormente pallida.
– È perduta la città? chiese con angoscia.
– Non lo so, signora, ma io non lo credo. Odo le colubrine del bastione di San Marco a tuonare sempre.
– El-Kadur, va’ a vedere che cosa succede.
– E tu, signora? Come posso lasciarti sola?
– Tu sei più utile sulle mura che qui.
– Non oso, padrona, abbandonarti.
– Va, – disse la duchessa con un gesto imperioso. – Va o io mi levo e, dovessi morire a mezza via, lascerò questo rifugio. È il momento terribile in cui tutti i soldati della Croce combattono e tu hai rinnegato la fede del Profeta e sei cristiano al pari di me. Va, El-Kadur, lo voglio e uccidi anche tu gli infedeli, i nemici della nostra religione.
L’arabo abbassò il capo, esitò un momento guardando la duchessa cogli occhi umidi, poi, estratto il jatagan, si slanciò fuori, mormorando:
– Che il Dio dei cristiani mi protegga per salvare la mia padrona.
CAPITOLO VI. Una notte di sangue
Mentre l’arabo si dirigeva correndo verso il bastione di San Marco tenendosi rasente le case per non essere colpito dalle palle che cadevano sempre fitte sulla città, sprofondando nei tetti e abbattendo, col loro peso, i piani inferiori, le orde turche che erano già riuscite a varcare la pianura nonostante il fuoco intenso dei cristiani, avevano cominciato l’attacco generale.
Famagosta era ormai tutta avvolta in un cerchio di fuoco e di ferro, che si stringeva sempre più, lentamente certo, ma sicuramente.
Lo sforzo supremo era diretto contro il bastione di San Marco, nondimeno anche le torri e le cinte erano assalite vigorosamente da enormi masse di combattenti che sfidavano sorridendo la morte.
I giannizzeri, quantunque avessero subìto perdite enormi, coprendo la pianura dei loro cadaveri, si erano spinti finalmente sotto il formidabile bastione che le mine avevano in parte squarciato ed erano già venuti all’arma bianca, assalendo con impeto irrefrenabile le compagnie degli schiavoni e dei candiotti che lo difendevano, mentre gli albanesi, gli irregolari dell’Asia Minore, ed i selvaggi figli dell’Arabia, tentavano di dare la scalata alle torri e di espugnarle.
Salivano i miscredenti colla furia di tigri affamate, arrampicandosi come scimmie su per l’erta scarpa e le macerie, coll’jatagan stretto fra i denti e le scimitarre in mano, coprendosi coi loro scudi di ferro adorni di code di cavallo e d’una mezzaluna d’argento.
La mitraglia che li colpiva in pieno, quasi a bruciapelo, sgominava di quando in quando le loro file, poi i superstiti passavano impavidi sui morti e sui moribondi e stringevano subito le file, urlando a squarciagola:
– Uccidete! Sterminate! Il Profeta lo vuole.
Ed i formidabili giannizzeri, tutti vecchi veterani che avevano provato il valore delle spade venete a Cipro ed a Negroponte e sulle coste dalmate, salivano col sorriso sulle labbra, sorrisi di belve affamate e assetate di sangue cristiano, credendo nel loro cieco fanatismo di scorgere fra il lampo degli acciai nemici i visi bellissimi delle urì del paradiso promesso dal Profeta. Che importava a loro la morte se le fanciulle del cielo aspettavano colle loro candide braccia i baldi guerrieri che morivano eroicamente sul campo di battaglia in difesa della Mezzaluna? Forse che Maometto non l’aveva promesso? E s’avanzavano sempre, con lena furibonda, strepitando ferocemente, agitando forsennatamente le scimitarre fiammeggianti, mentre dietro di loro la pianura si copriva di fumo e le artiglierie tuonavano senza un momento di tregua, coprendo Famagosta di ferro e di palle di pietra incandescenti.
I cristiani però tenevano testa all’impeto di quelle masse enormi. Incoraggiati dalla presenza del governatore, la cui voce tuonava senza che il rombo delle artiglierie riuscissero a soffocarla, opponevano una resistenza ammirabile.
Stretti sul bastione, formavano una muraglia di ferro che le scimitarre degli infedeli non riuscivano a sfondare. Picchiavano tremendamente colle mazze, sfondando gli scudi degli assalitori o fracassando elmetti e cimieri; calavano gran colpi di spada, spaccando teste e troncando braccia; foravano colle alabarde e colle picche e moschettavano a bruciapelo, mentre le colubrine seminavano la morte con scariche di mitraglia.
Era una lotta titanica, gigantesca, che empiva di terrore tanto gli assaliti quanto gli assalitori.
Intanto anche sugli altri bastioni ed intorno alle torri si combatteva con rabbia estrema e con egual strage. Gli albanesi e gli irregolari dell’Asia Minore, resi furibondi dall’ostinata resistenza che opponevano gli assediati e dalle immense perdite subìte, tentavano con sforzi disperati di superare le cinte, appoggiandovi un numero infinito di scale che venivano quasi sempre rovesciate nei fossati con tutti quelli che vi erano sopra.
Anche da quella parte la strage era così immensa che le scarpate grondavano sangue, come se migliaia di buoi venissero macellati sopra le merlature. I turchi cadevano a drappelli interi, massacrati dai moschetti, dalle spade e dalle picche, ma altri subito subentravano e ritentavano gli attacchi con cieca ostinazione.
S’accanivano specialmente contro le torri, sulle cui piattaforme le colubrine venete sparavano senza perdere un istante ed era là che subivano le maggiori perdite. Quei vecchi ed altissimi edifici non erano facili ad espugnarsi, poichè opponevano una resistenza meravigliosa alle mine ed agli arieti.
Si smantellavano i rivestimenti esterni, ma quelli interni non cedevano facilmente, tanto quelle torri erano state solidamente costruite dagli ingegneri della Repubblica Veneta.
Di tratto in tratto, i cristiani, disperando ormai delle proprie difese, decisi a morire colle armi in mano, piuttosto di lasciarsi trucidare più tardi freddamente, smantellavano colle loro mazze e colle scuri le merlature, facendo piovere sugli assalitori ammassi di macerie che ne storpiavano un gran numero.
Mentre su tutti i punti della città, soldati e abitanti gareggiavano in valore, risoluti a tutto tentare pur di infliggere al crudele nemico perdite enormi, fra quell’orrendo frastuono di bronzi tuonanti e di urla di moribondi e di combattenti, fra quel cupo fragor di spade e di mazze percuotenti scudi e armature, fra lo scoppiar fragoroso delle mine, squillavano sempre per l’aria fumante, le campane delle chiese e dalle strette viuzze, s’alzavano le preghiere delle donne singhiozzanti, imploranti San Marco, il protettore della Repubblica Veneta.
Quando El-Kadur, sfuggito miracolosamente alle palle di pietra che grandinavano sulla città, lasciando dietro delle strisce di fuoco come fossero bolidi, giunse al bastione principale, contro cui s’accanivano i giannizzeri, la lotta aveva preso proporzioni terribili.
Le piccole falangi cristiane, oppresse dagli assalti incalzanti degli infedeli, decimate dal fuoco delle pesanti colubrine piazzate nella pianura, affrante da quella battaglia che durava già da tre ore, cominciavano a dare indietro.
Combattevano ormai dietro a cumuli di morti che avevano formato dinanzi a loro una nuova trincea. Tutto il bastione era coperto di guerrieri boccheggianti, che gli jatagan degli infedeli s’affrettavano a finire, spaccando loro la gola; di scudi, di elmi, di picche, di alabarde, di spade e di colubrine ormai smontate.
Il governatore, pallidissimo, senza elmetto, colla cotta di maglia in più punti spaccata dalle armi dei turchi, circondato dai suoi capitani, ben pochi perchè i più erano caduti, cercava di riorganizzare le bande dei marinai veneti e degli schiavoni, per tentare una nuova e più disperata difesa.
Dietro al bastione si estendeva una vasta piattaforma riparata da un muricciolo, una specie di rotonda che serviva alle esercitazioni dei guerrieri e che aveva ai due lati dei piccoli ridotti.
Il governatore, vedendo che ormai il bastione era perduto, aveva dato l’ordine di ritirare in quel luogo le colubrine che erano ancora servibili e di fare impeto sui turchi che già salivano la scarpata esterna.
– Cerchiamo di resistere fino a domani, ragazzi! – aveva gridato il valoroso Baglione. – Avremo sempre tempo per arrenderci.
Gli schiavoni ed i marinai, quantunque crudelmente decimati da quella lotta sanguinosissima, nonostante la pioggia di palle, avevano messe in salvo otto o dieci colubrine, armando rapidamente i ridotti, mentre i guerrieri cercavano di trattenere per qualche istante gli infedeli, combattendo sopra la cinta del bastione e rovesciando giù per la scarpa i merli che ancora rimanevano ritti.
In quel momento El-Kadur comparve. Vedendo il signor Perpignano che stava per riordinare la compagnia di Capitan Tempesta, ridotta a meno della metà del suo effettivo, gli si avvicinò.
– Siamo perduti, è vero? – gli chiese l’arabo.
Il veneziano, vedendolo solo, aveva fatto un soprassalto.
– Ed il capitano? – chiese.
– Ferito, signore.
– Ti ho veduto portarlo via.
– Non temete, è in luogo sicuro e, se anche i turchi entrassero in Famagosta, non riuscirebbero a scoprirlo.
– Dove si trova?
– Nella casamatta della torre della Bragola, che è quasi interamente sepolta sotto le macerie. Se sfuggirete alla morte venite a trovarci.
– Non mancherò. Ecco il nemico: guardati, El-Kadur e non esporti troppo. Devi vivere per la salvezza del capitano.
I guerrieri veneti e gli schiavoni, oppressi dal numero strabocchevole del nemico e stanchi di uccidere, si ritiravano confusamente verso la rotonda, cercando di salvare se non tutti, almeno una parte dei loro feriti.
Il governatore di Famagosta aveva fortunatamente avuto il tempo di riorganizzare le proprie forze, che si erano accresciute di un certo numero di abitanti.
I giannizzeri, superata la scarpa che era coperta alla lettera di cadaveri, scavalcavano il parapetto urlando sempre:
– Morte ai giaurri! Uccidete! Sterminate!
Al lampeggiare delle artiglierie si vedevano i loro volti raggrinziti per la rabbia e gli occhi feroci, che avevano qualche cosa di fosforescente.
– A voi, artiglieri! – aveva gridato il governatore, dominando per un istante colla sua voce tuonante, le urla del nemico ed il fragore assordante dei bronzi.
Le colubrine avvampavano quasi nel medesimo istante, scuotendo il bastione dalla base alla cima e coprendo gli infedeli di mitraglia rovente.
Tutte le prime file di quei selvaggi guerrieri caddero sui parapetti, stecchite, fulminate da quella tempesta di ferro, ma subito altre si precipitarono all’assalto con foga sfrenata, per non lasciar tempo agli artiglieri di ricaricare i pezzi.
I guerrieri veneti e gli schiavoni che avevano avuto un momento di respiro, muovevano anche loro alla riscossa.
Coprendosi coi loro scudi: piombarono a loro volta addosso ai giannizzeri, impegnando una nuova e più furibonda lotta. I capitani erano con loro e li spronavano alla suprema difesa.
Scrosciavano le scimitarre e le spade sugli scudi e sulle armature, fracassando a poco a poco gli uni e schiodando le altre, tempestavano gli elmetti ed i cimieri, le mazze, rintronando le teste dei colpiti e le alabarde dalla larga punta si cacciavano con furore nelle carni, producendo spaventevoli e per sempre inguaribili ferite.
Quando fra i combattenti s’apriva un varco, le colubrine tuonavano uccidendo talvolta nemici e anche amici, mentre gli archibugieri, appollaiati sulla cima dei ridotti, mantenevano un fuoco intenso seminando la morte fra le colonne che scalavano le scarpate.
Più nulla però poteva ormai trattenere quelle masse sterminate che il gran vizir ed i pascià spingevano all’assalto di Famagosta. I forti guerrieri delle lagune venete, esausti da tanti mesi di assedio e dalle lunghe privazioni, cadevano a gruppi sul suolo ormai inzuppato del loro generoso sangue e spiravano col nome di San Marco sulle labbra, che gli jatagan turchi ferocemente soffocavano, squarciando le gole.
L’agonia di Famagosta era cominciata, preludio di strazi orrendi, che dovevano sollevare un grido immenso d’indignazione fra le nazioni cristiane della vecchia Europa.
L’Oriente uccideva l’Occidente; l’Asia sfidava la cristianità, facendo sventolare orgogliosamente, dinanzi ad essa, la verde bandiera del Profeta.
Dappertutto gli infedeli vincevano ormai. Le torri una ad una cadevano nelle mani dei barbari dell’Arabia e delle steppe asiatiche ed i vinti, morti o moribondi, venivano precipitati nei fossati ed i bastioni, ormai diroccati, venivano presi d’assalto.
Anche quello di San Marco non opponeva più che una debole resistenza. Gli schiavoni ed i veneti, ormai disorganizzati dalle furibonde cariche dei giannizzeri, cominciavano a sbandarsi. Più nessuno obbediva alla voce del governatore, nè a quella dei capitani.
I morti si accumulavano senza tregua. Al bastione di terra ormai demolito, era succeduto un bastione di carne umana e di ferraglie.
Una nube immensa, prodotta dal fumo delle artiglierie nemiche, s’abbatteva, come un velo funebre, su Famagosta, avvolgendola tutta.
Le campane non squillavano più e le preghiere delle donne, raccolte nelle chiese, si perdevano fra il vociare formidabile degli infedeli.
La marea montava, montava, marea umana ben più terribile di quella dell’oceano e pareva che avesse perfino il suo muggito sinistro.
I guerrieri asiatici avevano ormai scalate le mura e calavano, come corvi affamati, o meglio come avvoltoi, sopra la città.
I veneti, gli schiavoni, gli abitanti, che avevano partecipato alla difesa, fuggivano a corsa disperata attraverso le strette vie di Famagosta, cercando di nascondersi fra le macerie delle case, entro le cantine, nelle casematte, nelle chiese, spargendo il terrore colle loro grida di:
– Si salvi chi può! I turchi! I turchi!
I soldati che difendevano ancora le cinte e le torri, udendo quelle urla che annunciavano ormai la caduta della salda fortezza, temendo di venire presi alle spalle, a loro volta abbandonavano ogni difesa, rovesciandosi all’impazzata dietro le cinte.
Nondimeno qua e là, sulle piazze, dietro le case in rovina, sugli angoli delle viuzze, i veneti cercavano di opporre ancora qualche resistenza, per impedire ai turchi di giungere dinanzi alla vecchia chiesa, dedicata al protettore della Repubblica e ritardare la strage delle donne e dei fanciulli, che si erano rifugiati sotto le immense navate, aspettando rassegnati che le scimitarre degli infedeli compissero l’orrendo eccidio.
Quantunque sfiniti e per la maggior parte feriti, i valorosi figli della Regina dell’Adriatico facevano pagare ancora cara la vittoria al formidabile nemico.
Sapendosi ormai condannati alla strage, lottavano col furore che infonde la disperazione, assalendo con animo deciso le teste delle colonne e facendo strage di giannizzeri, d’albanesi, di irregolari e di arabi.
Sfortunatamente per loro la cavalleria era pure entrata in Famagosta, passando attraverso le brecce del bastione di San Marco ed irrompeva a galoppo sfrenato attraverso le strade, con clamori assordanti, spazzando dinanzi a loro quanti cercavano di opporsi.
Erano dodici reggimenti, montati da cavalieri arabi, che caricavano all’impazzata, sciabolando senza misericordia. Nessun corpo scelto, nè agguerrito avrebbe potuto far fronte a quei figli del deserto.
Alle quattro del mattino, quando le tenebre cominciavano a dileguarsi e la fitta nuvola di fumo a diradarsi, i giannizzeri che coll’aiuto della cavalleria avevano sgominate completamente tutte le difese, espugnando una ad una le poche case che ancora rimanevano in piedi, decapitando ferocemente quanti vi avevano trovati dentro, giungevano dinanzi alla vecchia chiesa di San Marco.
Il governatore di Famagosta, l’eroico Baglione, stava ritto sull’ultimo gradino, appoggiato fieramente alla spada gocciolante di sangue turco, circondato da un pugno di guerrieri, gli ultimi sfuggiti alla strage.
Era ancora senza cimiero e la sua maglia d’acciaio, lorda di sangue, cadeva a brandelli, ma nessuna ruga solcava la fronte ampia del condottiero veneto ed il suo sguardo appariva sereno.
I giannizzeri, che già lo avevano subito riconosciuto, si erano fermati e le loro grida selvagge si erano subito spente.
La calma straordinaria di quell’eroe, che per più mesi aveva tenuto in iscacco il più formidabile esercito che fino allora avessero radunato i sultani di Bisanzio e che col valore della sua spada aveva mandato nel paradiso del Profeta più di ventimila guerrieri della Mezzaluna, pareva che avesse calmato di colpo quelle furie assetate di sangue cristiano.
Un pascià, che portava sul suo cimiero scintillante tre penne verdi e che impugnava una larga scimitarra, impaziente di finirla con quel gruppo di giaurri, si era aperto il passo fra i giannizzeri, facendo caracollare insolentemente il suo cavallo.
– Offrite le vostre teste alle scimitarre dei miei uomini – gridò. – Voi siete vinti!
Un sorriso sdegnoso comparve sulle labbra del condottiero veneto, mentre un lampo terribile balenava nei suoi occhi.
– Uccidi dunque, giacchè hai fretta, – gli rispose, gettando la spada – ma bada che il Leone di San Marco non muore in Famagosta, e che un giorno il suo ruggito si farà udire entro le mura della vecchia Bisanzio.
Poi, tendendo la destra verso le porte della chiesa che erano tutte aperte, riprese:
– Là vi sono delle donne e dei fanciulli da massacrare. Non opporranno resistenza: disonorate, se volete, la fama dei guerrieri dell’Oriente. La storia vi giudicherà.
Il pascià era rimasto muto: le fiere parole del capitano dei veneti lo avevano colpito diritto al cuore e non trovava risposta da dare.
In quell’istante si udirono a squillare le trombe e rullar i timballi, e le file dei giannizzeri si aprirono precipitosamente addossandosi contro i muri delle case.
Era il Gran vizir che si avanzava coi suoi capitani e la guardia albanese.
Entrò nella piazza colla scimitarra snudata, ritto fieramente sul suo bellissimo cavallo infioccato, colla visiera alzata. Aveva la fronte aggrottata e un lampo crudele negli occhi neri e vividi. Attraversò le file dei giannizzeri, senza nemmeno degnare d’uno sguardo quei prodi che, sacrificandosi a migliaia e migliaia, gli avevano dato in mano Famagosta, poi accennando colla scimitarra il gruppo formato dai guerrieri veneti, disse alla sua guardia:
– Impadronitevi dei vinti.
Quindi, mentre il suo ordine veniva immediatamente eseguito, senza che gli ultimi superstiti delle compagnie venete opponessero resistenza, fece salire al suo cavallo i tre gradini ed entrò nella chiesa che scintillava di lumi, fermandosi in mezzo alla navata centrale colla sinistra posata fieramente sull’anca.
Le donne che si erano pigiate contro l’altare maggiore, tutte in ginocchio, stringendosi al petto i loro fanciulli, avevano mandato un immenso urlo di terrore, mentre un vecchio prete, forse l’unico sfuggito alla strage, alzava una croce come se con quella avesse voluto impressionare il crudele rappresentante del Gran Sultano di Bisanzio. Il momento era solenne, terribile. Bastava un segno perchè i giannizzeri che si erano già rovesciati attraverso le porte spalancate, si scagliassero su quelle misere e le scannassero a colpi di jatagan e di scimitarra.
Il gran vizir rimaneva silenzioso, fissando i suoi sguardi sulla croce che il sacerdote teneva sempre alta. Le donne singhiozzavano, i fanciulli strillavano ed i giannizzeri rumoreggiavano in fondo al tempio, impazienti di cominciare la strage.
Ad un tratto tutte quelle madri, come se una ispirazione divina le avesse colpite nel medesimo tempo, sollevarono fra le braccia i loro fanciulli e li mostrarono al Gran vizir, singhiozzando:
– Risparmia i nostri figli! Sono innocenti!
Il generalissimo degli islamiti abbassò la scimitarra che aveva già alzata per ordinare la carneficina, poi, volgendosi verso i suoi guerrieri, gridò con voce tuonante:
– Tutte costoro appartengono al Sultano! Guai a chi le tocca.
Era la grazia!