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Kitabı oku: «Gli ultimi flibustieri», sayfa 21

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Capitolo XXIV. LA CACCIA AL MARCHESE

Gli astri cominciavano a fiorire in cielo, quando i quattro uomini si cacciarono in mezzo al palmito, colla ferma intenzione di portar via la canoa agli spagnuoli.

L’indiano, che udiva tutto e sentiva tutto, era dinanzi e guidava i tre avventurieri attraverso alle cupe ombre proiettate dalle altissime e foltissime piante.

Sulle sabbie che costeggiavano la macchia, le tartarughe cominciavano a ritornare e scavare frettolosamente delle ampie buche, colle robuste zampe anteriori, per seppellirvi dentro le loro uova.

Giungevano sempre in ranghi piú fitti, formando delle lunghe linee che di quando in quando si spezzavano, prendendo delle direzioni trasversali, inoltrandosi dove le dune sabbiose erano piú alte.

La luna cominciava a luccicare in cielo, tingendo le acque del Maddalena di splendidi riflessi argentei, quando l’indiano ed i suoi compagni, i quali si erano avanzati attraverso il palmito con grandi precauzioni, tenendo gli archibugi pronti a far fuoco, scorsero i fuochi del piccolo accampamento spagnuolo.

– Hai veduto dove si trova la scialuppa? – chiese don Barrejo all’indiano.

– L’ho veduta.

– Ah!… Già, mi dimenticavo che tu vedi, senti ed odi sempre, essere straordinario.

“Come potremmo avvicinarci senza farci scorgere?”

– Seguendo le dune di sabbia. Sono abbastanza alte per nascondervi se camminerete curvi.

– Qualcuno la veglierà di certo, – osservò Mendoza.

– Un colpo di draghinassa e tutto sarà finito. Scendiamo verso le dune.

Lasciarono il palmito, il quale cominciava a diradarsi, e scesero verso la riva, gettandosi in mezzo ai monticelli di sabbia formati dalle piene.

Scorgevano benissimo gli spagnuoli seduti intorno a due fuochi, colle pipe in bocca. Un odore di grasso, dovuto probabilmente alla famosa tartaruga, appestava l’aria.

Quel disgraziato rettile doveva aver fatto le spese della colazione e del pranzo. È noto però che gli spagnuoli sono frugali forse piú dei turchi, e che quando sono in campagna si contentano d’una sigaretta a mezzodí, d’una cipolla al tramonto e d’una serenata quando hanno le loro chitarre.

Don Barrejo li contò attentamente.

– Sei, – disse. – Uno è il prigioniero, e l’altro dov’è andato a cacciarsi?

“Quel settimo m’inquieta.”

– Perché, don Barrejo? – chiese De Gussac.

– Perché sono sicuro che è a guardia della canoa.

– Gliela prenderemo sotto il naso, – disse Mendoza. – Avanti, e non levate il dito dal grilletto degli archibugi.

“Vi sarà odore di polvere, ne sono sicuro.”

Tenendosi ben curvi e sempre guidati dall’indiano, si spinsero attraverso le dune, finché ebbero oltrepassati i fuochi degli spagnuoli.

La canoa stava dinanzi a loro, arenata sulla sabbia.

Un urto solo sarebbe bastato a lanciarla nel fiume.

– Vedi qualcuno? – chiese don Barrejo all’indiano, il quale non cessava di esplorare.

– Sí, un’ombra.

– Un uomo?

– Certo.

– Che veglia sulla canoa?

– Lo credo.

– Mendoza, tu sei sempre sicuro dei tuoi colpi, è vero?

– Non sarei un filibustiere, – rispose il basco.

– Spacciami quell’uomo mentre noi gettiamo nel fiume la canoa.

– Mi basta una palla sola.

Si appoggiò ad una duna di sabbia, puntò l’archibugio e mirò con estrema attenzione l’ombra umana che si scorgeva presso la canoa.

Don Barrejo e gli altri si erano slanciati, risoluti ad impegnare una feroce battaglia, pur di conquistare quel galleggiante, ben piú maneggiabile dello zatterone.

Ad un tratto un colpo di fuoco echeggiò cupamente nella notte.

Si udí un grido:

– All’armi!…

L’uomo però era caduto, fulminato dalla infallibile palla del basco.

Nel campo spagnuolo si udirono delle grida.

– Alle armi!… Alle armi!…

I due avventurieri e l’indiano, lesti come scoiattoli, avevano gettato giú in acqua la canoa ed il basco giungeva correndo.

– Ferma!… – urlano cinque o sei voci. – Ferma!…

– Sí, prendeteci, – rispose don Barrejo, afferrando un remo.

Alcuni colpi di pistola rimbombarono, troppo lontani, fortunatamente per gli avventurieri.

– Al largo!… – urlò Mendoza, prendendo l’archibugio di De Gussac, e sparando un secondo colpo.

La canoa, presa dalla corrente sempre rapidissima, balzò sulle onde e si gettò entro il braccio di destra del Maddalena.

Non aveva percorsi cento passi, quando in lontananza, a monte del fiume, si udirono a rombare dei colpi di fuoco.

Un’altra canoa, che spiccava vivamente sulle argentee acque del Maddalena, scendeva la corrente. La montavano solamente tre uomini.

– Che sia il marchese? – si chiese don Barrejo, con una certa ansietà. – Mendoza, sei sempre sicuro dei tuoi colpi?

– Sí, se messer Belzebú non ci metterà la coda, – rispose il basco.

– Io ho troppi conti da saldare con S. E. il signor marchese mio compatriotta.

– Vedremo di chiuderli con tre palle, – rispose il basco, ricaricando l’archibugio. – Sono ancora molto lontani, però sono sempre un buon tiratore anche a duemila passi. Lasciali venire.

I colpi di fuoco si succedevano sulla seconda canoa, che il fiume travolgeva in una corsa rapidissima. I tre uomini, allarmati dalle grida dei loro compagni, dovevano essersi accorti di qualche brutto tiro e sparavano all’impazzata.

Disgraziatamente non erano né filibustieri, né bucanieri, e le palle volavano ben alte.

– A te dunque, Mendoza, – disse don Barrejo, con accento selvaggio. – Il cuore mi dice che in quella barca vi è il marchese, e quel marchese che ha assassinato il mio compatriotta.

– La barca oscilla troppo.

– Compi un miracolo, camerata. Anche le navi dei filibustieri rollano e beccheggiano, eppure le palle giungono sempre a destinazione sui ponti dei galeoni.

Il basco misurò collo sguardo la distanza.

– Mille e cinquecento passi almeno, – disse poi. – Qui ci vorrebbe Buttafuoco.

“Tuttavia cercherò di accontentarti, purché vi teniate tranquilli.”

Si era disteso sul banco di poppa, appoggiando l’archibugio sul bordo. La canoa spiccava sempre nitidissima sul fiume argenteo, su cui la luna rovesciava i suoi raggi.

– Ci sei? – chiese don Barrejo, il quale pareva in preda ad una strana agitazione.

– Taci!… – rispose Mendoza. – Non mi seccare in questo momento terribile.

“Non so se il marchese si trovi in quella canoa, ma sento che la canna del mio archibugio lo cerca.

“Anch’io odio quell’uomo che ha fatto appiccare il famoso Corsaro rosso.

“Tacete tutti!…”

Don Barrejo, De Gussac ed anche l’indiano erano diventati muti e non si curavano piú della loro imbarcazione che la corrente portava sulle sue ondate violente.

Stavano curvi sul tiratore meraviglioso, spiando ogni sua mossa.

La fiumana continuava a rumoreggiare sinistramente.

Mendoza due volte alzò l’archibugio bestemmiando, contro la furia dei flutti, poi sparò.

– Mancato, – disse. – Dammi il tuo archibugio, don Barrejo e prepara anche il tuo De Gussac. Li proverò tutti tre.

“Non parlate.”

Prese il fucile che il terribile guascone gli porgeva e riprese la mira, mentre la canoa continuava a rimbalzare.

Si udí un secondo sparo seguíto da un urlo. I tre uomini erano diventati due.

– Che sia il marchese che è caduto? – chiese don Barrejo.

– La luna è splendida, eppure i miei occhi non arrivano fino a quella canoa, cosí bene da distinguere le persone.

Il guascone si volse verso l’indiano:

– Tu che vedi tutto, che senti tutto e che odi tutto, sapresti dirmi se l’uomo che è caduto è un giovane od un vecchio?

Il pelle-rossa lo guardò come si guarda un pazzo, poi scrollò le spalle dicendo, con una leggiera punta ironica:

– Io non sento e non vedo piú niente.

– Spara, Mendoza!…

– Sei preso da una vera furia di sangue? – chiese il basco.

– Là vi è il marchese.

– Chi te lo ha detto?

– Nessuno, eppure anch’io qualche volta sento come questo indiano.

In quel momento due lampi balenarono sulla prora della canoa.

Si rispondeva alla feroce provocazione del basco, però, come abbiamo detto, solo i filibustieri ed i bucanieri potevano sparare a tanta distanza, con qualche probabilità di successo.

La mira però era stata abbastanza esatta, poiché gli avventurieri udirono distintamente il miagolío dei grossi proiettili usati in quell’epoca.

– Rispondi, dunque, – disse don Barrejo.

– Calma, compare, – disse Mendoza. – Se vuoi provare tu, ti cedo il posto.

– In questo momento non saprei fare assolutamente nulla.

– Vivaddio, quel marchese ti ha scombussolato, mio povero amico.

– Lo confesso. Proviamo il tuo fucile.

– Sarà forse meglio, – rispose Mendoza.

Tornò ad allungarsi sul banco e mirò a lungo i due uomini che montavano la canoa e che ormai non rispondevano piú al fuoco come se avessero esaurite le loro munizioni. Lo sparo si ripercorse lungamente sotto le nere boscaglie che fiancheggiavano il fiume, facendo saltare fuori dall’acqua parecchi caimani. Mendoza si era passata una mano sulla fronte, la quale si era coperta di sudore.

– Eppure, – disse, – io sono uno dei migliori archibugieri della filibusteria e quasi mai ho mancato ai miei bersagli umani.

– C’è dunque il diavolo in quella barca!… – esclamò don Barrejo, profondamente impressionato.

– Sí, vi è quel demonio di marchese là dentro, – rispose il basco, con voce alterata. – De Gussac, datemi il vostro archibugio.

Dopo un minuto un altro sparo echeggiò, ed i tre avventurieri e l’indiano mandarono un grido di trionfo.

Un altro era caduto nel fondo della scialuppa e probabilmente per non rialzarsi piú mai.

Il terzo rimaneva ritto a prora, come se volesse sfidare il fuoco. Il suo vestito tutto nero spiccava sinistramente fra la gran pioggia lunare.

– Ancora un colpo, Mendoza, – disse don Barrejo.

Il basco osservò attentamente quell’uomo il quale pareva che assumesse, di momento in momento, almeno agli occhi degli avventuri, delle proporzioni gigantesche.

– Quello non cadrà, – disse. – Il diavolo deve proteggerlo.

Sparò tre colpi provando tutti gli archibugi, ma l’uomo nero rimase immobile sulla prova della scialuppa. Nessun proiettile l’aveva probabilmente sfiorato.

Mendoza lasciò cadere l’ultimo archibugio, dicendo:

– Solo il ferro potrà uccidere quell’uomo. Non oso piú far fuoco.

In quel momento avvenne un urto che fece cadere gli avventurieri gli uni su gli altri.

– Che cosa c’è ancora? – chiese don Barrejo all’indiano, il quale era stato piú lesto ad alzarsi.

– Ci siamo arenati su un altro isolotto, – rispose l’uomo rosso, – e mi pare che la prora si sia sfondata, poiché vedo entrare dell’acqua.

– È questa la notte fatale degli ultimi filibustieri!… – esclamò il basco.

L’indiano aveva detto il vero.

La canoa, troppo vecchia e troppo tarlata, non aveva resistito ad un secondo arenamento, e la sua prora si era spaccata contro un masso emergente fra le sabbie dell’isolotto.

– Sbarchiamo, – disse don Barrejo. – Vedremo di accomodarla piú tardi, se ci sarà possibile.

La tirarono in secco perché la corrente non la portasse via, e balzarono sulla sabbia. Quell’isolotto non misurava che un centinaio di metri di lunghezza su cinquanta di larghezza, e sul suo suolo vegetavano magramente dei puglices.

I tre avventurieri si erano stretti l’uno contro l’altro, fissando intensamente la scialuppa montata dall’uomo nero.

La scialuppa, abbandonata a se stessa, veniva spinta verso l’isolotto. Doveva fatalmente arenarsi.

Passarono dieci o quindici minuti, poi l’investimento sulle sabbie successe. L’uomo che la montava non aveva nemmeno traballato alla scossa. Sbarcò lentamente, senza affrettarsi, e mosse incontro ai tre avventurieri, che lo guardavano con crescente spavento, dicendo con voce ironica:

– Era tempo che vi raggiungessi.

– Il marchese Montelimar!… – avevano esclamato i filibustieri, retrocedendo.

– Sí, sono proprio io, – rispose il vecchio gentiluomo, incrociando le braccia sul petto e guardandoli bene in viso. – Osereste ora assassinarmi?

– Signor marchese, – disse don Barrejo, – anche voi avete tentato di appiccarmi, e sarei già partito da tempo per l’altro mondo, senza l’aiuto d’un mio compatriotta.

– Che io ho ucciso, – disse il gentiluomo, freddamente. – Chi tradisce deve pagare.

– Sul corpo però di quel disgraziato sergente io ho pronunciato un giuramento.

– Quale? – chiese il marchese, sorridendo sempre ironicamente.

– Di vendicare un giorno la sua morte.

– Nessuno ve lo impedisce, signor mio. Ho una spada anch’io al fianco, ed i Montelimar sono sempre stati abili spadaccini.

– Non come i piccoli nobiluzzi della Guascogna, – disse don Barrejo, il quale aveva ripresa tutta la sua audacia. – Ed ora ve lo proverò.

“Signor marchese, avete dinanzi a voi tre buoni spadaccini che si misureranno uno ad uno contro di voi.

“Tanto peggio per chi cade.”

– Ah!… Mi offrite una cavalleresca partita d’armi!…

“Non vi credevo tanto gentiluomo.”

– Cosí imparerete meglio a conoscere i guasconi, se non sarà troppo tardi per voi, signor di Montelimar. Io voglio provare l’acciaio di Francia contro il rinnegato che impugnerà una Toledo.

– E finissima, amico.

– Tanto meglio.

– E bucherà terribilmente.

– Ah!… Bah!… La vedremo, signor marchese, – disse don Barrejo.

Poi, facendo un leggiero inchino, aggiunse:

– Domando di provare la mia draghinassa guascone contro la vostra Toledo.

Il marchese sfoderò la sua spada la quale, percossa dalla luna, mandò un lampo abbacinante.

– Sarete il primo che farete il grande viaggio, – disse.

– Basta con le chiacchiere, signor marchese: battiamoci fino alla morte.

“Fatemi largo, amici, e se io cadrò, cercate, colle vostre spade, di vendicarmi.”

Si erano messi in guardia, a cinque passi l’uno dall’altro.

Il fiume rumoreggiava lungo le sponde dell’isolotto; gli uccelli notturni lanciavano attraverso i boschi il loro grido malinconico e spaurito; la luna, nella pienezza del suo splendore, declinava lentamente dietro le vette dell’alta sierra.

De Gussac e Mendoza si erano messi da parte, tenendo le spade in pugno, per pervenire qualunque sorpresa da parte del marchese.

L’indiano, appoggiato alla sua clava, guardava con viva curiosità i combattenti. Fu il marchese che pel primo portò una terribile botta al guascone, gridandogli:

– Assaggia questa!… È dei Montelimar!…

Don Barrejo che, come abbiamo detto, aveva ripreso tutto il suo sangue freddo dinanzi al pericolo, fu pronto alla parata e rispose con una fulminea stoccata di seconda, gridando:

– È questa è dei guasconi.

I merletti che orlavano la giubba di seta del marchese, volarono in brandelli, all’altezza della cintura.

– Ah!… – esclamò il gentiluomo, con il suo irritante sorriso sardonico. – Non credevo che i guasconi fossero cosí forti.

– Oh!… Ne sentirete ben altre delle stoccate, signor marchese, – rispose don Barrejo, rimettendosi prontamente in guardia. – Nel mondo sono due le terre che creano i migliori spadaccini: l’Italia e la Guascogna, ed io ho l’onore di essere figlio di quest’ultima.

“Quando vorrete, vi aspetto.”

Il Montelimar, invece di assalire, stese la sua superba lama di Toledo, dirigendo la punta contro don Barrejo e batté due volte, coi piedi, l’invito.

– Potreste aspettarmi un anno, signor marchese, – disse il guascone, – perché io quando mi batto ho la buona abitudine di aspettare sempre l’attacco dell’avversario, e vi confesso che non ho mai avuto da pentirmene.

“La vostra guardia è splendida ma non potrà durare fino al sorgere del sole.”

– Ostinato!… – urlò il marchese.

– Signor mio, difendo la mia pelle.

Il marchese scattò, portando a don Barrejo un colpo di terza, che se l’avesse côlto l’avrebbe mandato subito a passeggiare fra i celesti cimiteri dei guasconi, se il taverniere d’El Moro non si fosse salvato, saltando indietro.

– Mi scappi? – ruggí il marchese.

– Niente affatto, signor di Montelimar, – rispose don Barrejo. – Cerco di conservare la mia pelle per vedere se la torricella del mio miserabile castelluccio si erge ancora orgogliosa o se è diroccata.

“Non so però se voi rivedrete le grosse torri del castello dei Montelimar”

– Tanto forte vi credete?

– Diavolo!… Ve ne sono altri due dietro di me, coi quali dovrete, cavallerescamente, fare i conti, se io avrò la disgrazia di cadere. Ciò però io non credo, almeno per ora, poiché ho conosciuto il giuoco dei Montelimar.

– Lo credete? Ebbene, aspettate!…

Il marchese si era bruscamente curvato verso terra, come per raccogliere una manata di sabbia e scagliarla negli occhi del suo avversario.

Mendoza, accortosene a tempo, si era slanciato innanzi colla spada tesa, gridando:

– Alto là, signor marchese!… Qui si disputano delle vite, ma non si devono assassinarle vigliaccamente.

“Se toccate ancora la sabbia vi giuro che la mia spada vi passerà attraverso il corpo fino alla guardia.”

– Voi siete in quattro, – disse il marchese, con voce rauca.

– Uno si batte e gli altri tre stanno guardandovi.

Il marchese si morse le labbra a sangue e si rimise in guardia.

Don Barrejo non si era mosso: aspettava l’attacco su una parata di seconda.

– Orsú, signor marchese, – disse. – Riprendiamo il nostro divertimento?

– Quando vorrete, se vi spingerete all’attacco.

– Se vi ho detto che non ne ho l’abitudine. Assalite, ed io mi difenderò. Siete d’altronde padronissimo d’infilzarmi come un beccafico.

– Ah!… Non volete muovervi?… – urlò il marchese, esasperato.

– No!… – Rispose don Barrejo.

Il marchese fece balenare in aria, tre o quattro volte, la sua spada, come se cercasse un buon punto dove immergerla senza il pericolo d’un arresto.

Don Barrejo, fermo come una rupe, aspettava.

Mendoza e De Gussac si erano avvicinati, per non perdere nulla di quel terribile combattimento che doveva finire colla morte dell’uno o dell’altro avversario.

Vedendo il guascone affatto tranquillo e padrone assoluto del suo ferro, cominciavano a sperare in una vittoria.

Il marchese, dopo quei molinelli, aveva attaccato risolutamente, a corpo perduto, spingendosi audacemente sotto la draghinassa che gli minacciava il petto.

Per qualche minuto vi fu uno scambio di stoccate, date e parate abilmente da una parte e dall’altra, poi il marchese, che non era riuscito ad aprirsi un varco attraverso la draghinassa del guascone, balzò indietro, dicendo con voce un po’ alterata:

– Siete ben forte.

– Tutti i guasconi sono cosí, – rispose don Barrejo.

– Oh!… Non cantate però ancora vittoria. Ho ben altri colpi da tirare e che vi faranno sudar sangue.

– Potreste anche ingannarvi, signor marchese. Anche i guasconi hanno le loro bòtte segrete e finora non ne ho usata alcuna.

– Che cosa aspettate, dunque?

– Il buon momento.

– Vedremo se ve lo lascerò scegliere.

Per la seconda volta il marchese si spinse all’assalto, con una foga che un giovanotto gli avrebbe invidiata, e ritentò di far passare la punta della sua spada sulla draghinassa.

Fatica inutile: il suo ferro incontrava sempre il ferro dell’avversario, tenuto da una mano veramente poderosa.

– Avanti le bòtte dei guasconi, – urlò, esasperato. – Vediamo una buona volta!…

Attaccava sempre con furore, deciso, a quanto pareva, a farsi uccidere, ma anche ad uccidere prima di cadere.

Per un altro minuto i ferri scrosciarono, lampeggiando ai raggi della luna, poi il guascone, che fino allora si era limitato sempre a parare, per ben conoscere il giuoco dell’avversario, si spinse a sua volta innanzi, e dopo d’aver fatto un arresto, portò sul marchese un colpo di prima, forzandogli il ferro.

Montelimar aveva dato indietro, comprimendosi, con una mano, il petto.

– Signor marchese, – disse don Barrejo, – siete ferito, mi pare.

– Bah!… Una semplice graffiatura che ora vi farò pagare cara.

– Volete riposarvi un momento?

– Un Montelimar non accetta simili generosità da un pari vostro.

– Signore!… Ho uno stemma anch’io.

– Che avete trascinato nel fango, imbrancandovi coi filibustieri. Se sono questi i piccoli gentiluomini della Guascogna, vi faccio i miei complimenti.

Don Barrejo era diventato pallidissimo e aveva piantati i suoi occhi in quelli del marchese.

Mendoza e De Gussac non fiatavano, attendendo, con angoscia, l’ultima stoccata. L’indiano conserva la sua solita impassibilità.

Questa volta fu il guascone, che contrariamente alle sue abitudini, si gettò impetuosamente contro il marchese, vibrandogli tre o quattro stoccate l’una dietro l’altra, che lo costrinsero a rompere.

– Bisogna finirla!… – urlò ferocemente don Barrejo.

Il marchese, dinanzi alla furia di quegli attacchi, continuava a rompere, mentre a pochi passi da lui rumoreggiava il fiume.

Pareva che non si fosse accorto che aveva alle spalle un altro nemico.

Don Barrejo continuava a caricare. Dai due ferri, poderosamente percossi, si sprigionavano, di quando in quando, delle scintille.

Se il guascone però era famoso, anche il marchese era uno spadaccino da far paura. Indietreggiava ma parava sempre, con rapidità fulminea, ribattendo le bòtte del suo avversario.

Ad un tratto mandò un grido di furore.

Aveva messo il piede sinistro in acqua e si trovava contro il fiume. Con un assalto furioso tentò di riacquistare il posto perduto, quando una terribile stoccata gli squarciò il cuore.

Il guascone aveva fatto il suo colpo.

Il marchese rimase un momento diritto, con gli occhi sbarrati, il volto congestionato, poi si lasciò andare dentro il fiume.

– Morto!… – esclamarono Mendoza e de Gussac, accorrendo.

– Questo Montelimar non ce lo rivedremo piú mai dinanzi, – rispose don Barrejo, con voce alterata.

La corrente si era impadronita del cadavere. Lo fece girare due o tre volte su sé stesso, poi un gorgo inghiottí il disgraziato gentiluomo. In quell’istesso momento la luna si era offuscata come si fosse abbrunata per la morte del terribile vecchio.

I tre avventurieri sostarono a lungo sulla riva del fiume, colla speranza di veder rimontare a galla il cadavere e seppellirlo fra la sabbia dell’isolotto, e cosí sottrarlo alla voracità dei caimani, già molto numerosi sul Maddalena.

– Il diavolo se l’è portato via, – disse De Gussac.

Né don Barrejo, né Mendoza risposero. Quei due forti uomini, che avevano sfidato il fuoco di tante battaglie, parevano costernati.

L’indiano nel frattempo aveva rimessa a galla la scialuppa del marchese, dicendo:

– Uomini bianchi, partiamo: io odo il rombo delle cascate.

“Domani mattina, e forse prima, noi vi giungeremo.”

I tre avventurieri presero posto nell’imbarcazione, senza scambiarsi una parola. L’indiano aveva preso le pagaie e guidava con mano sicura, essendo gli uomini rossi quasi tutti insuperabili battellieri.

Avevano percorso duecento passi, seguendo il filo, ancora gonfio, dalla corrente, quando scorsero, attraverso la luce lunare che era tornata a scintillare purissima, uno stormo di uccellacci neri.

– Gli urubu, – disse De Gussac. – Hanno fiutato il cadavere del marchese.

Quasi nell’istesso momento, a pochi passi da loro, un gorgo spingeva alla superficie il gentiluomo, facendolo roteare su sé stesso rapidamente.

– È dunque il demonio quell’uomo!… – urlò don Barrejo, levando la draghinassa. – Dovevo tagliargli la testa!…

Il cadavere era nuovamente scomparso, mentre gli urubu, delusi nelle loro speranze, si innalzavano nella purissima atmosfera, strepitando.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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