Kitabı oku: «I minatori dell' Alaska», sayfa 7
– Sono certo che non ci lasceranno tanto presto. Questi animali sono testardi.
– Possono arrampicarsi?
– Non lo credo, il tronco è troppo liscio.
– Ci difenderemo se lo tenteranno.
– Non possediamo che i nostri coltelli da caccia, armi che non valgono molto contro quei bestioni.
L’orso, intanto, sempre più inferocito, forse a causa del dolore causategli dalla ferita, faceva rintronare la foresta coi suoi urli e s’accaniva contro l’albero, sforzandosi di raggiungere i primi rami che non erano molto alti, ma che non riusciva ad afferrare, mentre la femmina e i due orsacchiotti correvano all’intorno come se fossero stati colti da un improvviso accesso di pazzia. Bennie e Armando, coi coltelli da caccia in pugno, si tenevano in guardia sul robusto ramo, pronti a salire più in alto, se l’orso fosse riuscito ad arrampicarsi. Cominciavano a temere di dovere, presto o tardi, venire a contatto con l’animale, che pareva risoluto ad andarli a scovare anche lassù. Per fortuna la belva, dopo aver fatto quattro o cinque capitomboli, e strappata quasi tutta la corteccia della quercia fino all’altezza di due metri, convinta forse dell’inutilità dei suoi sforzi, si decise ad abbandonare la partita. Dopo un ultimo e più furioso assalto, parve che si tranquillizzasse, e dopo aver lanciato su i due cacciatori uno sguardo minaccioso, si decise a ritirarsi. Brontolando sempre, andò ad accovacciarsi alla base di un pino che cresceva poco lontano, mettendosi a leccare il petto, che era lordo per il sangue uscito dalla ferita. La femmina non tardò a raggiungerlo, coricandosi accanto a lui e leccandosi la zampa fracassata, mentre i due orsacchiotti, niente affatto preoccupati delle sofferenze dei genitori, si ruzzolavano in mezzo ad un cespuglio giocando e mordendosi come due giovani gatti.
– Giovanotto, – disse Bennie, – eccoci assediati.
– Lo vedo – rispose Armando.
– Passeremo una brutta notte.
– E domani?…
– Domani probabilmente ci troveremo nelle stesse condizioni.
– Credete proprio che non se ne vadano all’alba.
– Ho poca fiducia.
– Suppongo però, signor Bennie, che non rimarranno qui un’intera settimana. La fame, presto a tardi, li costringerà ad andarsene.
– Si daranno il cambio, e poi sono animali che si accontentano anche di bacche e di frutta di pino, e questo bosco abbonda delle une e degli altri.
– Brutta prospettiva per noi, che non possediamo un solo biscotto… Avessimo almeno portato con
noi qualche gallo!… Saremo proprio costretti a soffrire un lungo digiuno?
– Senza dubbio, se nessuno viene in nostro soccorso.
– Back e mio zio verranno a cercarci.
– Lo spero. Armando. Non vedendoci ritornare s’immagineranno che ci sia toccata qualche disgrazia
– Siamo lontani dall’accampamento?…
– Almeno quattro miglia.
– Una distanza breve, come vedete.
– Bisognerà però prima che affrontino gli orsi. Ah!… se potessi pescare i nostri fucili!…
– Non avete una corda?…
– Sì, la mia cinghia di pelle. Armando.
– Tagliamola e cerchiamo di prendere un fucile.
– L’idea non è cattiva: proviamo.
XIII – ASSEDIATI DA UNA FAMIGLIA DI ORSI
Il cow-boy, che cominciava ad averne abbastanza di quell’assedio, e temeva, con quell’assenza prolungata, di preoccupare Back e lo scotennato, si mise subito all’opera, quantunque non avesse troppa fiducia nella riuscita del progetto, a causa degli sterpi e delle erbe che ingombravano il terreno e che dovevano rendere assai difficile il getto di un laccio. Si levò la larga fascia di pelle di montone che gli cingeva i fianchi e col bowie-knife la tagliò in sottilissime liste, che poi intrecciò strettamente per dare alla corda una certa consistenza. Fatto un nodo scorsoio, si portò alla biforcazione di un grosso ramo che si stendeva molto innanzi e di là esaminò attentamente i due fucili, che si trovavano a quattro passi l’uno dall’altro, adagiati in mezzo a sterpi tanto alti da coprirli quasi interamente.
– Uhm!… – borbottò Bennie. – Credo che sia tempo perduto. Nemmeno Back, che è abilissimo nel getto del lazo, riuscirebbe.
Fece fischiare due o tre volte in aria la correggia e la lanciò, ma senza alcun successo. Ritentò la prova sette od otto volte senza aver miglior fortuna; gli sterpi arrestavano il laccio e impedivano assolutamente la presa.
– Suvvia, – disse Bennie, stizzito. – Non se ne farà nulla.
– Forse, – rispose Armando.
– Forse!… Avete qualche speranza?…
– E perché no?… Ditemi, signor Bennie, è solida la vostra corda?
– È di pelle e della migliore.
– Credete che possa sopportare il peso di un uomo?…
– Non ne dubito.
– Allora possiamo provare.
– Che cosa volete dire. Armando?…
– Che voi terrete la corda e io cercherò di scendere per prendere almeno uno dei due fucili.
– Siete pazzo!… E gli orsi?…
– Se si muovono, vi affretterete a tirarmi su, ed io, dal canto mio, cercherò di aiutarmi meglio che potrò. Voi siete robustissimo ed io non peso troppo.
– Ammiro il vostro coraggio, giovanotto, però vi esporrete ad un grave pericolo senza poter arrivare ai fucili.
– Si può provare, – disse Armando. – Volete rimanere qui tutta la notte?… La collina è boscosa, il campo lontano e chissà quando mio zio e Back riusciranno a trovarci.
– È vero, però gli orsi possono azzannarvi le gambe. Guardate: il vecchio glèzè non ci perde di vista un solo istante e anche la femmina sta in guardia.
– Sono agile, signor Bennie, e i rami non mancano per aggrapparmi. Lasciatemi provare.
– Sia, – disse il vecchio scorridore di prateria, dopo una breve, esitazione. – Vi avverto, però, che se vi vedo in pericolo lascio andare la corda e balzo a terra anch’io con il coltello in pugno.
– Farete ciò che crederete opportuno. Là, guardate! Il maschio ha chiuso gli occhi e pare abbia voglia di schiacciare un sonnellino.
– Uhm!… Fidatevi di quel briccone!… Non dimenticate il coltello.
– L’ho nella fascia.
– Non avete proprio paura?…
– No – rispose Armando con voce ferma.
– Bravo giovanotto!
Bennie aveva legata la corda attorno al ramo e aveva lasciato cadere l’altra estremità. Armando guardò dapprima la famiglia degli orsi. Il maschio si era accoccolato alla base di un acero che si trovava a dieci passi e pareva sonnecchiare; la femmina s’era coricata presso un cespuglio e si leccava la zampa ferita, mentre i due piccoli giocavano, inseguendosi, mordendosi e graffiandosi. Il giovanotto misurò la distanza che lo separava dai fucili, poi si appese risolutamente alla corda e si mise a scendere.
Già non distava da terra che due metri e stava per lasciarsi cadere, quando Bennie mandò un grido:
– Risalite!… Risalite!…
Contemporaneamente afferrava la corda sforzandosi di tirar su il giovanotto, quantunque, trovandosi a cavalcioni del ramo, in una posizione tutt’altro che comoda, si esponesse al pericolo di fare un brutto capitombolo. L’orso, che forse fingeva di dormire, per meglio ingannare i due assediati, vedendo il giovane scendere, si era rizzato con un balzo improvviso, avventandosi furiosamente contro l’albero, mentre la femmina s’era messa a correre all’intorno.
– Aggrappatevi a un ramo!… – urlò Bennie, che si era accorto di non poter reggere un peso simile.
Armando non aveva perduto la testa. Vedendo i due orsi scagliarglisi addosso, ritti sulle zampe posteriori, aveva cercato di risalire, ma calcolando che gli sarebbe mancato il tempo, con uno scatto si era aggrappato ad un ramo che aveva trovato sotto mano, ritirando prontamente le gambe.
Il maschio, che gli era già addosso, alzandosi quanto era lungo, gli avventò un colpo di zampa afferrandogli un piede.
– Bennie! – urlò il disgraziato, che si sentiva tirar giù.
Il cow-boy non aveva perso il suo tempo. Rompere con uno sforzo erculeo un grosso ramo secco e scendere sul tronco, fu l’affare di un solo istante. Il grosso randello piombò sul muso del glèzè una, due, tre volte con vigore raddoppiato, costringendo l’animale a lasciare la preda. Armando, appena si senti libero, si issò rapidamente sul ramo raggiungendo Bennie, il quale, vociando a piena gola minacciava i due orsi, allungandosi quanto poteva per avventare su di loro qualche poderosa legnata.
– Siete ferito, amico mio? – gli chiese il cow-boy quando lo vide in salvo.
– No, – rispose Armando che era molto pallido. – Fortunatamente la grossa pelle delle mie uose ha resistito alle unghie.
– Corna di bufalo!… Un momento di ritardo e il glèzè vi strappava dal ramo!… Io non ho mai avuto paura, ma stavolta vi confesso che ho sentito il sangue gelarmisi nelle vene.
– Grazie del vostro aiuto, signor Bennie.
– Tuoni! Mettete a repentaglio la vostra vita per darmi un fucile e mi ringraziate!… Giovanotto mio, siete un coraggioso, ve lo dice il vecchio scorridore della prateria. Ah! Questi italiani!… Quanti ne ho conosciuti di così bravi e valorosi compagni, laggiù nelle miniere del Colorado!
– Sono orgoglioso delle parole che avete pronunziate all’indirizzo dei miei compatriotti, eppure con tuttociò non sono riuscito a fare un bel niente.
– Che cosa volete dire?
– Che i nostri fucili sono ancora a terra e che l’assedio continua.
– Ci armeremo di pazienza e aspetteremo che i compagni vengano a liberarci.
– Che non si decidano ad andarsene questi dannati orsi?…
– Sono testardi, amico mio.
– Sapete che siamo quassù da tre ore?
– Lo so.
– E che rosicchierei un crostino?
– Il pericolo vi mette dunque appetito? – chiese Bennie, ridendo.
– Sarà l’aria fresca della notte.
– Ebbene, per ora, accontentatevi di guardare le stelle.
– Preferisco guardare gli orsi.
– Li guarderemo insieme e tenderemo gli orecchi per raccogliere il sospirato colpo di fucile che annunci la nostra prossima liberazione.
Si accomodarono meglio che poterono fra i rami dell’albero ed armatisi di pazienza attesero l’alba, sperando che, con la luce giungessero anche Back e il meccanico. Gli orsi intanto, visto che la preda non si decideva a scendere, avevano ripreso il loro posto, senza staccare gli occhi dalla quercia per timore di un nuovo tentativo. Pareva che si fossero accorti che i due uomini miravano a impossessarsi delle armi da fuoco, poiché il maschio, di quando in quando, lasciava il suo covo provvisorio e si recava sotto la quercia a fiutarle e spingerle ora da una parte e ora dall’altra. I due piccoli, invece, continuavano i loro giuochi senza darsi alcun pensiero, fidando nella vigilanza dei genitori. Le ore passavano e la situazione non accennava a cambiare. Anche Armando cominciava a trovare quell’assedio troppo lungo e la loro posizione tutt’altro che divertente. All’alba, nulla di nuovo era ancora accaduto, nè alcuna detonazione si era udita nè sulla collina, nè nella vallata sottostante. Che cos’era dunque avvenuto di Back e del meccanico?… Era impossibile credere che non si fossero messi alla ricerca dei loro compagni. Bennie cominciava ad impensierirsi.
– Che sia accaduta qualche disgrazia al campo? – si chiese. – Sono dodici ore che ci troviamo qui e nessuno è ancora comparso.
– Che abbiano dirette le ricerche altrove? – chiese Armando.
– Devono però aver udito i due spari ieri sera.
– Che si siano smarriti?…
– Non lo credo; Back è uomo da ritrovare la direzione.
– E allora?… Che cosa temete?…
– Non lo so, ma vi dico che qualcosa è accaduto al campo.
– Che sia stato assalito dagli indiani?…
– Le tribù delle Teste Piatte non sono in guerra con gli uomini bianchi anzi sono sempre state amiche con loro.
– Che siano stati assaliti da qualche animale?
– Avrebbero fatto fuoco e io non ho udito alcuno sparo.
– Siete inquieto?…
– Assai, Armando, e vorrei andarmene presto.
– E questi orsi testardi non si muovono.
– Sì, Armando, guardate, la femmina e gli orsacchiotti vanno a fare un giro nella foresta per cercare qualcosa da mangiare.
– Invitassero anche noi!…
– Se poi offrite i vostri polpacci in compenso!
– Ci tengo ancora alle mie gambe, signor Bennie.
– Allora stringete la cintola dei calzoni, se avete fame.
– Signor Bennie!…
– Armando.
– La femmina è scomparsa.
– Il diavolo se la porti.
– Se ritentassimo il colpo?…
– Non vedete che l’orso è già in piedi, pronto a saltarvi addosso?
– Se tentassimo una lotta disperata?..
– Coi nostri coltelli?… E la femmina?… Credete che si sia molto allontanata?… Alla prima chiamata del maschio, l’avremo addosso.
– Eh!…
– Corna…
Uno sparo era improvvisamente echeggiato nel bosco, a due o trecento passi dalla radura dei tetraoni. L’orso, che si teneva presso la quercia era balzato in piedi, mandando un urlo rauco che tradiva un nuovo accesso di furore.
– I nostri compagni!… – gridò Armando, preparandosi a balzare a terra.
– Aspettate – disse Bennie fermandolo.
In quell’istante si udì echeggiare una seconda fucilata un po’ più lontana, seguita da un urlo che rintronò a lungo in mezzo agli alberi.
– L’orsa è stata colpita!… – gridò il cow-boy.
Il glèzè, udendo il grido di morte della compagna, si era alzato sulle gambe posteriori poi, senza più occuparsi degli assediati, si era scagliato attraverso la foresta, urlando ferocemente.
– A terra!… – comandò Bennie. I due assediati si lasciarono cadere giù con perfetta simultaneità. Balzare sui loro fucili, cacciarvi dentro un paio di cartucce e prendere rapidamente il largo, fu affare di un momento. Attraversarono correndo la spianata del tetraoni, raccogliendo precipitosamente i volatili che gli orsi avevano avuto il buon senso di non toccare e giunti dall’altra parte si arrestarono per vedere se Back e il meccanico si mostravano. Quale fu la loro sorpresa nel vedere, invece dei loro compagni, ritornare il feroce glèzè! Il vecchio maschio, in preda a uno spaventoso accesso di furore, accortosi della fuga dei due uomini e credendo forse che fossero stati loro a uccidergli la compagna, si preparava a vendicarla. Scorgendo Bennie e Armando fermi dinanzi a un abete, si diresse verso di loro al galoppo, col pelo irto e la bocca aperta.
– Giovanotto, – disse il cow-boy. – Mirate giusto o siamo perduti.
– A me il primo colpo – gridò Armando, alzando il fucile.
– A me il secondo, – rispose Bennie.
L’orso non era allora che a venti passi e si era alzato sulle zampe posteriori per piombare addosso ai suoi avversari e stritolarli con una stretta formidabile. Armando fece un passo avanti, mirò un istante, poi fece fuoco.
Il glèzè, colpito in pieno petto, girò su se stesso e cadde, ma quasi subito si rialzò avventandosi furiosamente contro Bennie che s’era gettato dinanzi ad Armando.
– Alto là!… – gridò il cow-boy, puntando rapidamente l’arma.
La detonazione rimbombò, seguita da un urlo feroce. L’orso, nuovamente colpito in petto, era caduto al suolo dibattendosi furiosamente e cercando, ma invano, di rimettersi in piedi.
– Lasciamo che crepi a suo comodo, – disse Bennie. – Presto, raggiungiamo i compagni.
Cacciarono due nuove cartucce nei fucili e si lanciarono nel bosco, dirigendosi là dove avevano uditi i due spari, mentre il glèzè continuava a far rintronare la radura di urla feroci, che a poco a poco si affievolivano. Attraversando una macchia di pini, Bennie e Armando scorsero delle tracce di sangue lasciate probabilmente dall’orsa.
– Dev’essere caduta qui vicino – disse il primo.
– Ed io non sento i nostri compagni – disse Armando.
– Saranno occupati a scuoiare la preda.
– Seguiamo queste tracce sanguinose?
– Sì, Armando. Ehm!…
– Che cosa avete?
– Guardate là, presso quel gruppo di betulle.
– I due orsacchiotti?
– E la loro madre coricata.
– Morta?
– Mi sembra.
– Fulmini!…
– Dite?
– Guardate!… Non vedete i due orsacchiotti che bevono il sangue che sgorga dalle ferite della loro madre?
– Vi sorprende? Corna di bisonte!… Ma dove sono vostro zio e Back?…
Il cow-boy, in quattro salti, attraversò la macchia mettendo in fuga i due orsacchiotti e giunse presso l’orsa, ma non vide alcuno.
– Che si siano già allontanati? – si chiese.
– Dovrebbero avere udito i nostri spari, Bennie.
– Senza dubbio, non vedo però nè Back, nè vostro zio.
– È strano!…
– È un mistero inesplicabile. Armando.
– Che sia stato qualche cacciatore?…
– Non avrebbe abbandonata la preda.
– Avete ragione.
– Proviamo a fare dei segnali.
– Sì, proviamo. Tre colpi di fucile, sparati a intervalli regolari, sono segno d’allarme nella prateria.
Il cow-boy alzò il fucile e sparò un primo colpo. Attese mezzo minuto ascoltando attentamente, poi ne sparò un secondo, quindi, un po’ più tardi, un terzo. Non erano trascorsi cinque minuti quando in lontananza, verso la base della collina, si udirono echeggiare, una dopo l’altra, tre detonazioni.
– È Back che risponde – disse Bennie, il cui viso si rasserenò.
– Sono lontani?…
– Un miglio almeno.
– Allora non sono stati loro ad abbattere l’orsa.
– Sarebbero stati vicini.
– Dove è fuggito dunque quel cacciatore?…
– Non lo so, ma ho dei sospetti.
– E quali?
– Che cosa volete, sarà una fissazione, ma io temo che qualcuno ci segua.
– E chi?
– Aspettate.
Bennie s’avvicinò all’orsa e la esaminò con attenzione. La povera bestia aveva ricevuto una nuova ferita in prossimità del muso e la palla doveva esserle penetrata nel cranio, toccandole il cervello. Bennie guardò accuratamente il buco prodotto dal proiettile, poi si mise a battere le erbe circostanti, allargando sempre più le ricerche. Un grido di trionfo annunzio ad Armando che aveva trovato quello che cercava.
– Guardate questo bossolo – disse il cow-boy.
– Una cartuccia già adoperata?…
– Sì, e di un winchester.
– Che cosa volete concludere?…
– Che quel cacciatore deve essere stato un indiano, poiché i bianchi adoperano altre armi, quando devono affrontare i grossi animali della prateria. Giovanotto, apriamo bene gli occhi; posso ingannarmi, ma il mio istinto mi dice che Coda Screziata non è stato divorato dai lupi della prateria e che ci segue.
– Ancora?…
– Andiamo, Armando. Sono impaziente di raggiungere i compagni.
XIV – ANCORA CODA SCREZIATA
Mezz’ora dopo, Bennie e Armando, a metà collina, ritrovavano lo scotennato e Back, i quali, avendo notata la direzione delle detonazioni, si erano affrettati a salire attraverso i boschi. Vivamente preoccupati dalla prolungata assenza dei due cacciatori, avevano vegliato buona parte della notte, poi si erano messi in cerca di loro, ma una detonazione che avevano udito verso la cima d’un’alta collina li aveva messi sulla falsa strada, dirigendo i loro passi da quella parte. Probabilmente quel colpo di fucile era stato sparato dal misterioso cacciatore che più tardi aveva uccisa l’orsa, da Coda Screziata, se i sospetti di Bennie non erano infondati, e forse con lo scopo di impedire al messicano e al meccanico di portare soccorso agli assediati e di metterli su una falsa pista. Non essendo tranquilli per la vicinanza di quel pericoloso avversario, i cercatori d’oro decisero di prendere subito il largo e raggiungere al più presto la grande catena delle Montagne Rocciose, certi che Coda Screziata non li avrebbe seguiti fino là! Avrebbero desiderato fermarsi alcuni giorni per scuoiare i due orsi e seccare un po’ di quella carne eccellente, però il timore di qualche sgradevole sorpresa li costrinse ad affrettare la partenza, e a sgombrare il territorio di caccia delle Teste Piatte. Alle dieci del mattino, dopo una squisita colazione di tetraoni, sapientemente allestita dal vecchio scorridore, si rimisero in sella, piegando definitivamente verso ovest per giungere ai primi contrafforti della gigantesca catena delle Montagne Rocciose. Oltrepassate le collinette, il paese era ritornato piano, con poche ondulazioni. Era un succedersi continuo di piccole praterie interrotte da boschetti di betulle, pini, abeti, frassini rossi e neri, popolati da miriadi di piccioni selvatici, che si alzavano in stormi immensi, volteggiando di pianura in pianura. Dei grossi torrenti, tutti affluenti del Peace, solcavano quei terreni lussureggianti, scorrendo, come immensi nastri di argento, verso mezzogiorno; molto probabilmente ricchi di pesci, poiché in quelle regioni le grosse trote bianche che raggiungono il peso di trenta e più libbre, le trote di montagna squisitissime, le trote salmonate, i lucci, i barbi e i pesci a crine di cavallo come vengono chiamati, sono comunissimi e forniscono un abbondante nutrimento alle tribù indiane che scorrazzano quei vasti e così poco popolati territori, limitati all’est dalla regione dei laghi, e all’ovest, dalla maestosa catena delle Montagne Rocciose.
Spronati i mustani, i quattro cavalieri, sempre seguiti dagli altri due cavalli che portavano gli attrezzi da minatori, attraversarono una prateria ondulata e giunsero al margine di un bosco formato da grosse piante, la cui corteccia aveva una bella tinta rossastra. Bennie scese da cavallo, facendo segno ai suoi compagni di imitarlo, poi, mentre Back s’incaricava di accendere il fuoco e di rizzare la tenda, avendo deciso di fermarsi là fino al giorno dopo, s’inoltrò nel bosco seguito da Armando e dal meccanico.
– È qui che c’è la fontana dalle acque dolci?… – chiese Armando.
– Sì, – risposero il meccanico e Bennie ridendo.
– E dove si trova?
– È nascosta nel tronco di questi alberi – disse il cow-boy.
– Volete scherzare?…
– Niente affatto, chiedete a vostro zio.
– Bennie dice la verità, – rispose il meccanico.
– Oh!… Sarebbe curiosa!…
– Aspettate che costruisca alcuni recipienti, poi vi farò assaggiare l›acqua zuccherata.
– E dove troverete dei recipienti?…
– Gli indiani trovano qui l’occorrente per la raccolta del liquido. Guardate: ecco una bella betulla che fa per noi.
Il cow-boy si avvicinò ad un albero, una betulla alta e grossa, prese il coltello e staccò alcune larghe strisce di corteccia solida, e contemporaneamente assai pieghevole e in pochi istanti fabbricò una specie di imbuto che poteva contenere comodamente quattro galloni di liquido.
– Vedete che è cosa facile, – disse il cow-boy, continuando a strappare altri pezzi di corteccia. – Da queste betulle gli indiani sanno ricavare perfino dei leggeri canotti, capaci di portare quattro o cinque persone, e con i quali osano sfidare le cascate dei grossi fiumi. Io mi accontenterò di ottenere tre o quattro recipienti e alcuni canaletti che mi serviranno da grondaie.
– E per farne cosa?
– Oh!… Che curioso!… Ora lo saprete.
Costruiti i quattro imbuti e piegati alcuni pezzi di corteccia in forma semirotonda, si avvicinò a un grosso albero dalla corteccia rossastra, e col coltello lo incise profondamente. Ciò fatto, cacciò nel taglio la sua grondaia, vi appese sotto uno dei suoi recipienti e rinnovò la strana operazione su altre tre piante.
– La stagione è propizia, – disse, quand’ebbe finito. – È nella primavera che gli indiani vengono a fare le loro raccolte di zucchero e più le giornate sono calde, più ne ottengono, poiché il calore aumenta il flusso della linfa. Guardate. Armando!…
Il giovanotto si accostò con curiosità a una di quelle piante e vide uscire dal canaletto che il cow-boy vi aveva innestato, un getto liquido, il quale si raccoglieva nel recipiente sottostante con sufficiente rapidità. Bennie immerse la sua tazza di pelle e riempitala di quella linfa la porse ad Armando, dicendogli:
– Bevete senza economia. Prima di domani questa pianta ci avrà dato circa tre galloni di liquido.
Armando l’assaggiò, poi la bevette avidamente con viva soddisfazione, dicendo:
– Sembra acqua con miele.
– Eccellente, dunque?…
– Deliziosa, signor Bennie.
– Sapete come si chiamano questi alberi?…
– No davvero.
– Sono aceri.
– Ah!… Ho già sentito parlare degli aceri.
– E avrete anche usato dello zucchero ricavato da queste piante, credendolo estratto da vere canne da zucchero. Se ne fa ancora un buon consumo in queste regioni. La produzione un tempo era straordinaria, e da queste piante si ricavano migliaia di dollari, è vero signor Falcone?
– Potete dire dei milioni – rispose il meccanico. – Il Canada ne esportava centinaia e centinaia di tonnellate. Ora questa industria non viene esercitata che dalle tribù indiane.
– Ogni pianta produce molto succo, signor Bennie? – chiese Armando.
– Un buon acero dà in media circa venti galloni di succo.
– E quanto succo occorre per ricavare un chilogrammo di zucchero?…
– Otto o nove galloni.
– E la perdita di tanta linfa non nuoce alla pianta?…
– No, poiché continua a darne anche negli anni seguenti e con eguale abbondanza.
– Una bella fortuna per gli indiani!…
– Pensate che ogni indiano, aiutato dalla famiglia, durante la primavera non raccoglie meno di seicento libbre di zucchero.
– E come si estrae?
– Facendo bollire il succo e lasciandolo poi raffreddare. Domani ve lo farò assaggiare, poiché ci fermeremo qui qualche giorno, per farne una discreta raccolta. Siamo molto scarsi di zucchero e il thè amaro non mi garba troppo. Lasciamo che gli alberi continuino a secernere liquido e andiamo a fare colazione. Più tardi, faremo altri recipienti e metteremo in opera le pentole.
Fecero ritorno al campo, dove ebbero la grata sorpresa di trovare la colazione pronta. Divorarono con molto appetito l’ultimo tetraone, unitamente ad un cane di prateria che avevano avuto la fortuna di abbattere al mattino, gustando molto la delicatissima carne che rassomiglia a quella di un vitellino da latte, poi si sdraiarono comodamente sotto la fresca ombra di un gruppo di alberi per fumare una pipata di tabacco e fare quattro chiacchiere. Armando, però, che non poteva star fermo, aveva approfittato di quel po’ di riposo per visitare il margine della foresta, avendo rilevato non poche tracce di daini mooses, ossia, mangiatori di legno, così chiamati perché hanno l’abitudine di mangiare i giovani rami dei salici e degli aceri rigati. Sperando di sorprenderne qualcuno, si cacciò nella foresta per fare uno splendido regalo al suo amico Bennie, avendo questi più volte vantata la squisitezza della loro carne. Passando con precauzione di acero in acero, e fermandosi di frequente ad ascoltare, si era già allontanato dal campo circa mezzo miglio, quando credette di udire, verso le rive di un piccolo lago, o meglio di uno stagno, dei rami muoversi. Essendo i rami molto folti, e abbondando i salici e i cespugli, non potè subito vedere di che cosa si trattasse, e stette fermo ad ascoltare. Rimase immobile alcuni minuti col dito sul grilletto del fucile, pronto a far fuoco, poi, non udendo nulla, si mise a strisciare in direzione dello stagno convinto ormai che fra i cespugli si nascondesse qualche capo di selvaggina. Già non distava dalla riva più di cinquanta passi, quando vide dei rami agitarsi.
– È nascosto là sotto – mormorò.
Alzò lentamente il fucile, e credendo di scorgere un’ombra fra il fogliame, fece fuoco. La detonazione era appena cessata, quando udì echeggiare un grido che pareva avesse qualcosa di umano, poi vide le alte cime agitarsi rapidamente, come se qualcuno cercasse di aprirsi impetuosamente il passo, poi più nulla.
– Mille merluzzi!… – esclamò il giovanotto, diventando pallido. – Che abbia ucciso qualche indiano?… Era un grido umano!
Stette qualche istante indeciso, temendo di cadere in qualche agguato, poi, non udendo più alcun rumore, e non vedendo agitarsi i cespugli, introdusse nel fucile una nuova cartuccia, quindi si diresse là dove aveva creduto di scorgere quella forma imprecisata. Scostando con precauzione i cespugli, si trovò ben presto presso un giovane salice, il cui tronco era stato spezzato nettamente all’altezza di un uomo.
– È stato reciso dalla mia palla, – mormorò.
Si guardò intorno e scorse fra le erbe alcune stille di sangue non ancora coagulate.
– Qualcuno è stato colpito – disse. – Era un uomo o un animale?… Non vorrei avere ucciso qualche povera Testa Piatta inoffensiva.
Vedendo innanzi a sè una specie di largo solco aperto fra i cespugli e i rami dei salici, vi si inoltrò per continuare le ricerche e ritrovò più oltre gocce di sangue, poi seminancosta fra le erbe una di quelle formidabili scuri di guerra usate dagli indiani, lasciata certamente cadere dal ferito.
– Non c’è più alcun dubbio – disse Armando, mortificato. – Credendo di far fuoco contro un daino, ho colpito un indiano. Che questa avventura disgraziata ci attiri addosso qualche brutto malanno?… Animo, torniamo al campo!…
Raccolse la scure, girò all’intorno uno sguardo inquieto, poi si allontanò rapidamente attraverso la foresta degli aceri, ansioso di raggiungere i compagni. Già non distava dal campo che poche centinaia di passi, quando udì sulla sua destra dei formidabili: «Corna di bisonte» accompagnati da una filza d’imprecazioni.
– È l’amico Bennie!… – esclamò. – Pare che sia infuriato.
Si diresse da quella parte e scorse il cow-boy occupato a scaraventare a destra ed a sinistra, con vero furore, i grandi imbuti che aveva appesi agli aceri per raccogliere il dolce succo.
– Ehi!… Signor Bennie, che cosa fate?… – chiese Armando, con stupore.
– Corna di bisonte!… – urlò il cow-boy. – Vorrei sapere chi è stato quel furfante che ci ha fatto questo brutto tiro!…
– Che cos’è successo?…
– Mi hanno rovesciati i recipienti che a quest’ora dovevano essere già pieni.
– E chi?…
– Chi?… Chi?… Lo so io?…
– Qualche animale forse?…
– Sì, a due gambe però. Corna di cervo!… Deve essere stato lui!…
– Coda Screziata forse?…
– Sì, quel cane che si ostina a seguirci – urlò il cow-boy, sempre più incollerito. – Bisognerà che mi decida a stanarlo, o non ci lascerà mai più tranquilli.
– Possibile che ci segua ancora?…
– Ne ho la convinzione. Armando. Chi volete che si sia data la pena di farci questo dispetto?…
– Mille merluzzi!… Che abbia fatto fuoco su di lui?…
– Cosa dite?… – chiese Bennie, guardandolo. – Avete fatto fuoco su di lui?…
– Sì, signor Bennie. Credendo di abbattere un daino, ho ferito un indiano che fuggiva.
– Ah!… Ferito solamente?…
– Sì, poiché non sono stato capace di scoprirlo.
– Siete certo che fosse un indiano?…
– Ho raccolto il suo tomahawk.
– Datemelo!… – esclamò il cow-boy.
Armando s’affrettò a raggiungere lo scorridore, e gli porse la scure che aveva trovata nella macchia.
– Corna di bufalo!… – esclamò Bennie. – È il tomahawk di Coda Screziata.
– Come lo sapete?…
– Guardate, amico: ecco qui sul manico, dipinta una coda.
– È vero, signor Bennie; quel furfante ci segue ancora.
– Armando, bisogna sbarazzarci di quell’uomo o perderlo, poiché può, quando meno ce l’aspettiamo, piombarci addosso e scotennarci a tradimento.