Kitabı oku: «I misteri della jungla nera», sayfa 12
– Cosa posso fare per te? – ripigliò il capitano.
– Nulla.
Macpherson estrasse una borsa rigonfia di sterline e gliela porse.
L’indiano la respinse con nobile gesto.
– Non so che farne dell’oro, – dissegli.
– Sei ricco tu?
– Meno di quello che credete. Sono un cacciatore di tigri delle Sunderbunds.
– Ma perché ti trovi qui?
– La jungla nera non ha più tigri. Sono salito al nord a cercarne delle altre.
– E dove vai ora?
– Non lo so. Non ho patria, né famiglia; erro a capriccio.
– Vuoi venire con me?
Gli occhi dell’indiano mandarono un lampo.
– Se avete bisogno d’un uomo forte e coraggioso, che non teme né le belve, né l’ira degli dei, sono vostro.
– Vieni, o prode indiano, e non avrai a lagnarti di me.
Il capitano girò sui talloni, ma s’arrestò subito.
– Dove credi che sia fuggita la tigre?
– Molto lontano.
– Sarà possibile trovarla!
– Non lo credo. Del resto m’incarico io d’ammazzarla, e fra non molto tempo.
– Ritorniamo al bengalow.
Bhârata, che aveva assistito con stupore a quella scena, li aspettava presso l’elefante.
Egli si slanciò contro al capitano.
– Sei ferito, padrone? – gli chiese, ansiosamente.
– No, mio bravo sergente, – rispose Macpherson. – Ma se non giungeva questo indiano, non sarei ancora vivo.
– Sei un grand’uomo, – disse Bhârata a Saranguy. Non ho mai veduto un simile colpo; tu tieni alta la fama della nostra razza. – Un sorriso fu l’unica risposta dell’indiano.
I tre uomini salirono nell’hauda e in meno di mezz’ora raggiunsero il bengalow dinanzi al quale li aspettavano i sipai.
La vista di quei soldati fece corrugare la fronte di Saranguy. Parve inquieto e represse con grande sforzo un gesto di dispetto. Per fortuna nessuno avvertì quel movimento che fu, del resto, rapido come un lampo.
– Saranguy, – disse il capitano, nel momento che entrava con Bhârata, – se hai fame, fatti additare la cucina; se vuoi dormire, scegli quella stanza che meglio ti accomoda; e se vuoi cacciare, domanda quell’arma che meglio ti conviene.
– Grazie, padrone, – rispose l’indiano.
Il capitano entrò nel bengalow. Saranguy si sedette presso la porta.
La sua faccia era diventata allora assai cupa e gli occhi brillavano d’una strana fiamma. Tre o quattro volte s’alzò come se volesse entrare nel bengalow, e sempre tornò a sedersi.
– Chissà quale sorte toccherà a quell’uomo, mormorò egli con voce sorda. – Forse la morte. È strano, eppure quell’uomo mi interessa, eppure sento che quasi lo amo! Appena lo scorsi sentii il mio cuore fremere in modo inesplicabile; appena udii la sua voce mi sentii quasi commosso. Non so, ma quel volto somiglia… Non nominiamola…
Tacque diventando ancor più tetro.
– E sarà qui lui? – si chiese d’un tratto. – E se non vi fosse?
Si alzò per la quinta volta e si mise a passeggiare colla testa china.
Passando dinanzi ad un recinto, udì alcune voci che venivano dall’interno. Si arrestò alzando bruscamente la testa. Parve indeciso, si guardò attorno come volesse assicurarsi che era solo, poi si lasciò cadere ai piedi della palizzata, tendendo con molta attenzione gli orecchi.
– Te lo dico io, – diceva una voce. – Il birbone ha parlato dopo le minaccie di morte del capitano Macpherson.
– Non è possibile, – diceva un’altra voce. – Quei cani di thugs non si lasciano intimidire dalla morte. Ho visto coi miei propri occhi, delle diecine di thugs lasciarsi fucilare senza nulla dire.
– Ma il capitano Macpherson ha dei mezzi ai quali nessuna creatura umana resiste.
– Quell’uomo è molto forte. Si lascierà strappare di dosso la pelle, prima di dire una sola parola.
Saranguy divenne più attento, e accostò viepiù l’orecchio alla palizzata.
– E dove credi che l’abbiano rinchiuso? – chiese la prima voce.
– Nel sotterraneo, – rispose l’altra – Quell’uomo è capace di scappare.
– È impossibile, poiché le pareti hanno uno spessore enorme, di più uno dei nostri veglia.
– Non dico che scapperà da solo, ma aiutato dai thugs.
– Credi tu che ronzino da queste parti?
– La scorsa notte abbiamo udito dei segnali e mi si disse che un sipai scorse delle ombre.
– Mi fai venire i brividi.
– Hai paura tu?
– Puoi crederlo. Quei maledetti lacci di rado falliscono.
– Avrai paura ancora per poco
– Perché?
– Perché li assaliremo nel loro covo. Negapatnan confesserà tutto. Saranguy udendo quel nome era balzato in piedi, in preda ad una viva eccitazione. Un sorriso sinistro sfiorò le sue labbra e guardò trucemente.
– Ah! – esclamò egli con voce appena distinta. – Negapatnan è qui! I maledetti saranno contenti.
IV. Uccidere per essere felice
Era venuta la sera.
Il capitano Macpherson durante la giornata non si era fatto vedere e nessun incidente era accaduto nel bengalow.
Saranguy, dopo di aver errato a capriccio qua e là, nei dintorni delle tettoie e delle palizzate, porgendo attento orecchio ai discorsi dei sipai s’era sdraiato dietro ad un folto cespuglio, a cinquanta passi dalla abitazione, come uno che cerca di addormentarsi.
Di quando in quando però alzava prudentemente la testa, ed il suo sguardo percorreva rapidamente la circostante campagna. Si sarebbe detto che egli cercava qualche cosa, o che aspettava qualcuno.
Passò una lunga ora. La luna s’alzò sull’orizzonte, illuminando vagamente le foreste e il corso della grande fiumana la quale mormorava gaiamente, frangendosi contro le rive.
Un urlo acuto, l’urlo dello sciacallo, si fece udire in lontananza.
Saranguy s’alzò bruscamente, guardandosi d’attorno con diffidenza.
– Finalmente, – mormorò egli, rabbrividendo. Saprò la mia condanna.
A duecento passi, fra una macchia, comparvero due punti luminosi, con riflessi verdastri, Saranguy accostò due dita alle labbra e mandò un leggiero fischio.
Tosto i due punti luminosi si slanciarono innanzi. Erano gli occhi di una grande tigre, la quale fece udire quel sordo miagolìo che è famigliare a simili belve.
– Darma! – chiamò l’indiano.
La tigre s’abbassò, schiacciandosi contro il terreno, e si mise a strisciare silenziosamente. S’arrestò proprio dinanzi a lui emettendo un secondo miagolìo.
– Sei ferita?– gli chiese l’indiano, con voce commossa.
La tigre per tutta risposta aprì la bocca e lambì le mani ed il volto dell’indiano..
– Hai sfidato un gran pericolo, povera Darma, ripigliò l’indiano con tono affettuoso. – Sarà l’ultima prova.
Passò una mano sotto il collo della belva e vi trovò una piccola carta rossa, arrotolata e sospesa ad un sottile filo di seta.
L’aprì con mano tremante, gettandovi sopra gli occhi. V’erano dei segni bizzarri d’una tinta azzurra e una riga di sanscrito. «Vieni, che il messaggero è giunto» lesse egli.
Un nuovo brivido agitò le sue membra e alcune goccie di sudore imperlarono la sua fronte.
– Vieni, Darma, – diss’egli.
Guardò alla sfuggita il bengalow, percorse tre o quattrocento passi strisciando, seguito dalla tigre, poi s’internò nel bosco di borassi.
Camminò per venti minuti rapidamente, seguendo un sentieruzzo appena appena visibile, poi s’arrestò, chiamando con un gesto la tigre.
A venti passi da lui, s’era improvvisamente alzato da terra un individuo, il quale spianò risolutamente un fucile, gridando:
– Chi vive?
– Kâlì, – rispose Saranguy.
– Avanzati.
Saranguy si avvicinò a quell’indiano il quale lo esaminò attentamente.
– Sei forse colui che aspettiamo? – gli chiese.
– Sì.
– Sai chi ti aspetta?
– Kougli.
– Sei proprio quello: seguimi.
L’indiano gettò la carabina ad armacollo e si mise in marcia con passo silenzioso.
Saranguy e Darma lo seguirono.
– Hai veduto il capitano Macpherson? – chiese qualche istante dopo
– Sì.
– Cosa fa?
– Non saprei dirlo.
– Sai nulla di Negapatnan?
– Sì, so che è prigioniero del capitano.
– È vero ciò che dici?
– Verissimo.
– E sai dov’è nascosto?
– Nei sotterranei del bengalow.
– Si vede che sono prudenti quegli europei.
– Sembra.
– Ma tu lo libererai.
– Io! – esclamò Saranguy.
– Lo credo.
– Chi te lo disse?
– Non so nulla; taci e cammina.
L’indiano ammutolì e affrettò il passo, cacciandosi in mezzo ai macchioni di bambù ed a cespugli irti di spine. Ogni qual tratto s’arrestava ed esaminava il tronco dei palmizi tara che trovava sul suo passaggio.
– Cosa guardi? – chiese Saranguy, sorpreso.
– I segni che indicano la via.
– Ha cambiato dimora Kougli?
– Sì, perché gl’inglesi si sono mostrati presso la sua capanna.
– Di già?
– Il capitano Macpherson ha dei buoni bracchi al suo servizio. Sta’ allerta, Saranguy; potrebbero giuocarti qualche brutto tiro, quando meno te lo aspetti.
Si fermo, accostò le mani alle labbra ed emise un urlo simile a quello dello sciacallo.
Un secondo urlo vi rispose.
– La via è libera, – disse l’indiano. – Segui questo sentiero e giungerai alla soglia della capanna. Io rimango qui a vegliare.
Saranguy ubbidì. Percorrendo il sentiero s’avvide che dietro ad ogni albero stava appiattato un indiano con una carabina in mano e il laccio stretto attorno al corpo.
– Siamo ben guardati, – mormorò egli. – Potremo discorrere senza temere di venire sorpresi dagli inglesi.
Ben presto si trovò dinanzi ad una grande capanna, costruita con solidissimi tronchi d’albero, nei quali erano aperte molte feritoie per lasciar passare le carabine. Il tetto era coperto da foglie di latania e sulla cima v’era una rozza statua della dea Kâlì
– Chi vive? – chiese un indiano, che era seduto sulla soglia della porta armato di carabina, di pugnale e laccio.
–Kâlì – rispose per la seconda volta Saranguy.
L’indiano entrò in una stanzuccia illuminata da un ramo d’albero resinoso, il quale spandeva all’intorno una luce fumosa.
Sdraiato su di una stuoia stavasene un indiano alto come il truce Suyodhana, spalmato di fresco d’olio di cocco, col misterioso tatuaggio sul petto.
La sua faccia era d’una tinta bronzina, dura, feroce, con folta barba nera. Gli occhi suoi, profondamente incavati, brillavano d’una cupa fiamma.
– Addio, Kougli, – disse l’indiano entrando, ma pronunciando le parole quasi con pena.
– Ah! sei tu, amico, – rispose Kougli, alzandosi prontamente. – Cominciava a impazientirmi.
– La colpa non è mia; la strada è lunga.
– Lo so, amico mio. Come sono andate le cose?
– Benissimo; Darma ha eseguito appuntino la sua parte. Se non ero pronto, schiacciava la testa del capitano.
– L’aveva atterrato?
– Sì.
– Brava bestia la tua tigre.
– Non dico di no.
– Sicché sei ai servigi del capitano.
– Sì.
– In che qualità?
– Di cacciatore.
– Sospetta di nulla?
– No.
– Sa che ti sei allontanato dal bengalow?
– Non lo so. Del resto mi ha accordato ampia libertà di andarmene nei boschi o nella jungla, a cacciare.
– Sta’ in guardia però. Quell’uomo ha cent’occhi.
– Lo so.
– Narrami qualche cosa di Negapatnan.
– È arrivato ieri notte al bengalow.
– Lo so, nessuna cosa sfugge al mio sguardo. Dove l’hanno nascosto?
– Nel sotterraneo.
– Lo conosci quel sotterraneo?
– Non ancora, ma lo conoscerò. So che ha le pareti di uno spessore enorme, e che un sipai armato veglia dì e notte dinanzi alla porta.
– Sai più di quanto speravo. Lascia che te lo dica, sei un brav’uomo.
– Il cacciatore di serpenti della jungla nera è più forte e più astuto di quello che tu credi, – rispose l›indiano Saranguy.
– Sai se ha parlato Negapatnan?
– Non lo so.
– Se quell’uomo parla, noi siamo perduti.
– Diffidi di lui? – chiese Saranguy con una leggiera vibrazione ironica.
– No, poiché Negapatnan è un gran capo ed è incapace di tradirci. Ma il capitano Macpherson sa tormentare i suoi prigionieri. Orsù, veniamo al fatto.
La fronte di Saranguy s’aggrottò e un leggiero tremito percorse le sue membra.
– Parla, – diss’egli, con strano accento.
– Sai perché ti ho chiamato?
– Lo indovino, si tratta…
– Di Ada Corishant.
A quel nome, il cupo sguardo di Saranguy si spense; qualche cosa di umido brillò sotto le sue ciglia, e un profondo sospiro gli uscì dalle labbra scolorite.
– Ada!… Oh mia Ada!… – esclamò egli con voce soffocata. – Parla Kougli, parla. Soffro troppo, troppo!…
Kougli guardò l’indiano che si era accasciato su se stesso, stringendosi fortemente la fronte. Un sorriso satanico, un sogghigno atroce sfiorò rapidamente le sue labbra.
– Tremal-Naik, – disse con voce quasi sepolcrale. – Ti ricordi quella notte che ti rifugiasti nel pozzo colla tua Ada ed il maharatto?
– Sì, me lo ricordo, – rispose con voce sorda Saranguy, o meglio Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti della jungla nera.
– Tu eri in nostra mano. Bastava che Suyodhana lo volesse e tutti e tre a quest’ora dormireste sotto terra.
– Lo so. Ma perché rammentarmi quella notte!
– Bisogna che te la rammenti.
– Affrettati allora, non farmi soffrire tanto. Ho il cuore che mi sanguina.
– Sarò breve. I thugs avevano pronunciato la vostra sentenza di morte; tu dovevi essere strangolato, la vergine della pagoda doveva salire il rogo e Kammamuri morire tra i serpenti. Suyodhana fu quello che si oppose.
Negapatnan era caduto in mano degli inglesi e bisognava salvarlo. Tu avevi dato tante prove di essere un uomo audace e pieno di risorse e ti graziò, purché tu servissi la nostra setta.
– Affrettati.
– Ma tu amavi quella donna che si chiama Ada. Bisognava cedertela per avere un fedele e pronto alleato. La nostra dea Kâlì te la offre.
– Ah!… – esclamò Tremal-Naik, balzando in piedi, tutto trasfigurato.
– È vero quello che dici?
– Sì, è vero, – disse Kougli marcando su ogni parola.
– E sarà mia sposa?
– Sì, sarà tua sposa. Ma i thugs esigono qualche cosa da te.
– Qualunque cosa sia io l’accetto. Per la mia fidanzata darei alle fiamme l’India intera.
– Bisognerà uccidere.
– Ucciderò.
– Bisognerà salvare degli uomini.
– Li salverò, dovessi assalire una città zeppa di armi e d’armati.
– Bene; odimi.
Si levò dalla cintura una carta, la spiegò e la guardò alcuni istanti con profonda attenzione.
– I thugs, – disse – tu lo sai, amano Negapatnan, che è coraggioso. intraprendente e forte. Vuoi la tua Ada? Libera Negapatnan, ma c’è Suyodhana che esige qualche cosa da te.
– Parla, – disse Tremal-Naik, che senza saperlo, provò un brivido.– Ti ascolto.
Kougli non aprì bocca. Egli guardava fissamente ed in modo strano il cacciatore di serpenti.
– Ebbene? – balbettò Tremal-Naik.
– Suyodhana ti cede la tua fidanzata a patto che tu uccida il capitano Macpherson…
– Il capitano…
– Macpherson, – terminò Kougli, schiudendo le labbra ad un crudele sorriso.
– E solo a questo prezzo mi si cederà Ada?…
– A questo prezzo solamente.
– E se rifiutassi?
– Non l’ameresti più.
– Io? Cosa ti dissi poco fa? Per la mia fidanzata darei l’India alle fiamme.
– Hai ragione. Nel caso però che ti rifiutassi, la vergine della pagoda salirà il rogo e Kammamuri morrà fra i serpenti. Li teniamo entrambi in nostra mano. Cosa decidi?
– La mia vita appartiene ad Ada. Accetto.
– Hai già qualche piano?
– Nessuno, ma lo troverò.
– Bada a me; prima libera Negapatnan.
– Lo libererò.
– Noi veglieremo su di te. Se avrai bisogno di aiuti, vieni da me.
– Il cacciatore di serpenti farà senza i thugs.
– Come vuoi: puoi andartene.
Tremal-Naik non si mosse.
– Cosa desideri? – chiese Kougli.
– E non potrò veder colei che io amo?
– No.
– Siete proprio inesorabili?
– Compi la missione, poi… quella donna.... sarà tua sposa. Va’, Tremal-Naik, va’.
L’indiano s’alzò in preda a una cupa disperazione e si diresse verso l’uscita.
– Tremal-Naik, – disse lo strangolatore, nel momento in cui varcava la soglia.
– Cosa vuoi?
– Non scordarti, che a noi preme la morte del capitano Macpherson!…
V. La fuga del thug
Gli astri incominciavano ad impallidire, quando Tremal-Naik, quasi fuori di sé, ancora scombussolato dal colloquio avuto collo strangolatore, giungeva al bengalow del capitano Macpherson.
Un uomo era appoggiato alla soglia della porta e sbadigliava, respirando fragorosamente la fresca aria del mattino. Quest’uomo era il sergente Bhârata.
– Olà, Saranguy! – gli gridò. – Da dove vieni?
Quella chiamata strappò bruscamente Tremal-Naik dai suoi pensieri. Si volse indietro, credendo di essere stato seguito dalla tigre, ma l’intelligente animale si era arrestato sull’orlo della jungla. Bastò un rapido cenno del padrone perché scomparisse fra i bambù.
– Da dove vieni, mio bravo cacciatore? – ripigliò Bhârata, muovendogli incontro.
– Dalla jungla, – rispose Tremal-Naik, ricomponendo gli alterati lineamenti.
– Di notte! E solo!
– E perché no?
– Ma le tigri?
– Non mi fanno paura.
– Ed i serpenti, ed i rinoceronti?
– Li disprezzo.
– Sai, giovinotto, che hai del coraggio?
– Lo credo.
– Hai incontrato qualcuno?
– Delle tigri, ma non hanno ardito avvicinarsi.
– E uomini?
Tremal-Naik trasalì.
– Uomini! – esclamò egli, affettando sorpresa. – Dove vuoi che abbia trovato degli uomini, di notte, in mezzo alla jungla?
– Ve ne sono, Saranguy, e più d’uno.
– Non ti credo.
– Hai udito parlare dei thugs’?
– Gli uomini che strangolano?
– Sì, di quelli che adoperano il laccio di seta.
– E tu dici che sono qui? – chiese Tremal-Naik, affettando terrore.
– Sì, e se cadi nelle loro mani ti strangoleranno.
– Ma perché sono qui?
– Sai chi è il capitano Macpherson?
– Non lo so ancora.
– È il nemico più spietato che abbiano i thugs.
– Comprendo.
– Noi facciamo a loro la guerra
– La farò anch’io. Odio quei miserabili.
– Un uomo coraggioso come te, non è da rifiutarsi. Verrai con noi quando batteremo la jungla, anzi ti metterò a guardia di uno strangolatore che è caduto in nostra mano.
– Ah! – esclamò Tremal-Naik, che non riuscì a frenare il lampo di gioia che balenò negli occhi. – Avete un thug prigioniero?
– Sì, ed è uno dei capi.
– Come si chiama?
– Negapatnan.
– E io veglierò su di lui?
– Sì, veglierai su di lui. Tu sei forte e coraggioso e a te non scapperà.
– Sono persuaso. Basterà un pugno per ridurlo all’impotenza, – disse Tremal-Naik.
– Vieni sulla terrazza. Tra poco vedrai Negapatnan e forse avremo bisogno del tuo coraggio.
– Per che farne? – chiese Tremal-Naik con inquietudine.
– Il capitano ricorrerà a qualche mezzo violento per farlo parlare.
– Capisco. Diventerò carceriere ed all’occorrenza torturatore.
– Sei molto perspicace. Vieni, mio bravo Saranguy.
Entrarono nel bengalow e salirono sulla terrazza. Il capitano Macpherson vi era di già, fumando una sigaretta, sdraiato indolentemente in una piccola amaca di fibre di cocco.
– Mi rechi qualche novità, Bhârata? – chiese egli.
– No, capitano. Vi conduco invece un nemico acerrimo dei thugs.
– Sei tu, Saranguy, questo nemico?
– Sì, capitano, – rispose Tremal-Naik, con accento d’odio naturalissimo.
– Sii allora il benvenuto. Sarai anche tu dei nostri.
– Lo spero.
– Ti avverto che si arrischia la pelle.
– Se la giuoco contro le tigri, posso giuocarla contro gli uomini.
– Sei un brav’uomo, Saranguy.
– Me ne vanto, capitano.
– Come ha passato la notte Negapatnan? – chiese Macpherson, rivolgendosi al sergente.
– Ha dormito come uno che ha la coscienza tranquilla. Quel diavolo d’uomo è di ferro.
– Ma si piegherà. Va’ a prenderlo; comincieremo subito l’interrogatorio.
Il sergente fece un mezzo giro sui talloni e poco dopo ritornava conducendo Negapatnan, solidamente legato.
Il thug era tranquillissimo, anzi un sorriso sfiorava le sue labbra.
Il suo sguardo si posò subito, con curiosità, su Tremal-Naik, il quale si era messo dietro al capitano.
– Ebbene, mio caro, – disse Macpherson con accento sarcastico, – come hai passata la notte?
– Credo di averla passata meglio di te, – rispose lo strangolatore.
– E cos’hai deciso?
– Che non parlerò.
La mano del capitano corse all’impugnatura della sciabola.
– Che sieno tutti eguali, questi rettili? – gridò egli.
– Pare che sia così, – disse lo strangolatore.
– Non dirlo così presto, però. Ti dissi che posseggo dei mezzi terribili.
– Non abbastanza terribili pei thugs.
– Dei mezzi che martirizzano al punto da invocare la morte.
– Mezzi che non valgono i nostri.
– Lo vedremo quando ti contorcerai fra gli spasimi più tremendi.
– Puoi cominciare subito.
Il capitano impallidì, poi un’ondata di sangue gli salì al volto.
– Non vuoi proprio parlare, adunque? – gli chiese con voce strozzata dall’ira.
– No, non parlerò.
– È la tua ultima risposta? Bada…
– L’ultima.
– Sta bene, ora agiremo. Bhârata?
Il sergente s’avvicinò.
– C’è un palo nel sotterraneo?
– Sì, capitano.
– Legherai solidamente quell’uomo.
– Bene, capitano.
– Quando il sonno lo vincerà, lo terrai desto a colpi di spillo. Se fra tre giorni non parlerà, farai macerare le sue carni a colpi di frusta. Se si ostina ancora, verserai dell’olio bollente, goccia a goccia, sulle sue ferite.
– Fidatevi di me, capitano. Aiutami, Saranguy.
Il sergente e Tremal-Naik trascinarono via lo strangolatore, il quale aveva ascoltato la sentenza senza che un muscolo del suo volto trasalisse.
Discesero una scala a chiocciola molto profonda ed entrarono in una specie di cantina molto vasta, sostenuta da volte, ed illuminata da una feritoia aperta a fior di terra, difesa da solide sbarre di ferro.
Nel mezzo ergevasi un palo, a cui fu legato lo strangolatore. Bhârata vi pose accanto tre o quattro spilli lunghi e colla punta acutissima.
– Chi veglierà? – chiese Tremal-Naik.
– Tu, fino a questa sera. Poi un sipai ti darà il cambio.
– Va bene.
– Se il nostro uomo chiude gli occhi, pungi forte.
– Ti obbedirò, – rispose Tremal-Naik con calma glaciale.
Il sergente risalì la scala. Tremal-Naik lo seguì con lo sguardo fino che poté, poi, quando ogni rumore cessò, si sedette di fronte allo strangolatore che lo fissava tranquillamente.
– Ascoltami, – disse Tremal-Naik abbassando la voce.
– Hai anche tu qualche cosa da dire? – chiese Negapatnan, beffardamente.
– Conosci Kougli?
Lo strangolatore udendo quel nome trasalì.
– Kougli!– esclamò. – Non so chi sia.
– Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana?
– Chi sei tu? – chiese Negapatnan, con manifesto terrore.
– Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana.
– Tu menti.
– Ti do una prova che dico il vero. La nostra sede non è nella jungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal.
Il prigioniero rattenne a gran pena un grido, che stavagli per uscire dalle labbra.
– Che sia vero che tu sei dei nostri? – chiese egli.
– Non ti ho dato le prove?
– È vero. Ma perché sei venuto qui?
– Per salvarti.
– Per salvare me?
– Sì.
– Ma come? Con qual mezzo?
– Lascia fare a me e prima di mezzanotte sarai libero.
– E fuggiremo assieme.
– No, io rimango qui. Ho un’altra missione da compiere.
– Una qualche vendetta?
– Forse, – disse Tremal-Naik con aria tetra. – Ora silenzio e aspettiamo le tenebre.
Lasciò il prigioniero ed andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente la notte.
La giornata lentamente passò. Il sole scomparve dietro l’orizzonte e l’oscurità divenne profonda nella cantina.
Era il momento opportuno per agire. Fra un’ora e forse meno, il sipai doveva scendere.
– All’opera, – disse Tremal-Naik, alzandosi bruscamente e traendo dalla cintola due lime inglesi.
– C’è da fare? – chiese Negapatnan, con emozione.
– Devi aiutarmi, – rispose Tremal-Naik. Taglieremo le sbarre della feritoia.
– Non s’accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire?
– Non s’accorgeranno di nulla.
Sciolse i legami che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero, e assalirono vigorosamente i ferri, cercando di non fare rumore.
Tre sbarre erano state di già divelte e non ne rimaneva che una, quando Tremal-Naik avvertì uno scalpiccìo che veniva dalla scala.
– Fermati! – diss’egli rapidamente. Qualcuno scende.
– Il sipai forse?
– Certo è lui.
– Allora siamo perduti.
– Non ancora. Sai gettare il laccio?
– Giammai fallii il colpo.
Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal dubgah e glielo diede.
– Mettiti presso alla porta – gli disse, estraendo il pugnale. – Il primo che appare, uccidilo.
Negapatnan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato.
Il rumore andava avvicinandosi. D’un tratto un lume rischiarò la scala e apparve un sipai, con una scimitarra sguainata.
– Attento, Negapatnan, – bisbigliò Tremal-Naik.
La faccia del thug divenne terribile. Gli occhi mandavano sinistri bagliori. Le labbra lasciavano a nudo i denti, le nari si dilatavano.
Pareva una bestia assetata di sangue. Il sipai si arrestò sull’ultimo pianerottolo.
– Saranguy! – chiamò.
– Scendi, – disse Tremal-Naik. – Non ci si vede più.
– Va bene, – rispose, e varcò la soglia della cantina.
Negapatnan era lì. Il laccio fischiò nell’aria e si strinse così fortemente attorno al collo, che il sipai cadde al suolo senza emettere un lamento.
– Devo strozzarlo? – chiese il thug, ponendo un piede sul petto del caduto.
– È necessario, disse Tremal-Naik, freddamente.
Negapatnan tirò a sé il laccio. La lingua del sipai uscì un palmo dalle labbra, gli occhi schizzarono dalle orbite e la pelle da bronzina divenne nera. Agitò per qualche istante le braccia, poi si irrigidì. Era morto.
– Che la dea Kâlì abbia il suo sangue, – disse il fanatico, sciogliendo il laccio. – Spicciamoci, prima che scenda qualche altro.
La feritoia fu nuovamente assalita e la quarta sbarra fu spezzata.
– Passerai? – chiese Tremal-Naik.
– Passerei per una feritoia molto più stretta.
– Sta bene. Ora legami solidamente e imbavagliami.
– Il thug lo guardò con sorpresa.
– Io legarti? E perché? – chiese.
– Perché non si sospetti che io sono uno dei tuoi.
– Ti capisco. Sei più astuto di me.
Tremal-Naik si gettò in terra presso al cadavere del sipai, e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò.
– Sei un brav’uomo, – disse il thug. – Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio.
Si slanciò verso la feritoia, dopo di essersi armato delle pistole del sipai, vi si issò e scomparve.
Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che s’udì un colpo di fucile ed una voce gridare:
– All’armi! Un uomo fugge!