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Kitabı oku: «I misteri della jungla nera», sayfa 3

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IV. Nella jungla

All’improvvisa detonazione, gl’indiani erano balzati in piedi col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra. Vedendo il loro capo dibattersi per terra tutto imbrattato di sangue, dimenticarono per un istante l’uccisore, per accorrere in suo aiuto. Questo momento bastò perché Tremal-Naik e Kammamuri si dessero alla fuga, senza essere scorti.

La jungla coperta di fitti cespugli spinosi e di bambù giganteschi, che promettevano rifugi introvabili, era a pochi passi. I due indiani vi si precipitarono nel mezzo, correndo disperatamente per cinque o sei minuti, poi si lasciarono cadere sotto un gruppo assai folto di bambù, alti non meno di diciotto metri.

– Se ti è cara la vita, – disse rapidamente Tremal-Naik a Kammamuri, – non muoverti.

– Ah padrone! Cosa hai fatto! – disse il povero maharatto. – Li avremo tutti addosso e ci strangoleranno come il disgraziato Hurti.

– Ho vendicato il mio compagno. Del resto non ci troveranno.

– Sono spiriti, padrone.

– Sono uomini. Taci e guardati ben d’attorno.

In lontananza si udivano le urla dei terribili abitanti del banian.

– Vendetta! Vendetta! – gridavano.

Tre note acute, le note del ramsinga, echeggiarono nella jungla e sotto terra s’udì cupo rimbombo di poco prima. I due cacciatori si aggomitolarono, facendosi più piccini e rattenendo persino il respiro. Sapevano che se venivano scoperti, sarebbero stati irremissibilmente strangolati dai lacci di seta di quei mostruosi individui, che avevano di già sacrificato tante vittime.

Non erano ancora trascorsi tre minuti che s’udirono i bambù aprirsi violentemente e fra le tenebre fu scorto uno di quegli uomini. col laccio nella destra ed il pugnale nella sinistra, passare come una freccia dinanzi alla macchia e scomparire nel folto della jungla.

– L’hai veduto, Kammamuri? – chiese sottovoce Tremal-Naik.

– Sì, padrone, – rispose il maharatto.

– Essi ci credono assai lontani e corrono, sperando di raggiungerci.

Fra pochi minuti non avremo un solo uomo alle spalle.

– Diffidiamo, padrone. Quegli uomini mi fanno paura.

– Non temere, che son qui io. Zitto e sta’ bene attento.

Un altro indiano, armato come il primo, passò correndo qualche istante dopo, e pur esso scomparve nel folto dei bambù.

In lontananza s’udì ancora qualche grido, qualche fischio che pareva, che anzi doveva essere un segnale, poi tutto tacque.

Trascorse mezz’ora. Tutto indicava che gli indiani, lanciati forse su di una falsa traccia, erano assai lontani. Il momento non poteva essere più propizio per fare un giro sui talloni e fuggire in direzione della riva.

– Kammamuri, – disse Tremal-Naik, – noi possiamo metterci in marcia.

Gli indiani, a mio parere, devono essere tutti dinanzi a noi e nel mezzo della jungla.

– Sei proprio sicuro, padrone?

– Non odo rumore alcuno.

– E dove andremo? Al banian forse?

– Sì, maharatto.

– Vuoi cacciarti là dentro, forse?

– No per ora, ma domani notte ritorneremo qui e sveleremo il mistero.

– Ma chi supponi che sieno quegli uomini?

– Non lo so, ma lo saprò, Kammamuri, come pure saprò chi sia quella donna che veglia nella pagoda della loro terribile dea. Hai udito tu, ciò che disse quel vecchio?

– Sì, padrone.

– Non so, ma mi parve che parlasse di me ed ho il sospetto che quella Vergine sia…

– Chi mai?

– La donna che m’ha stregato, Kammamuri. Allorché quel vecchio parlò di lei, ho sentito il cuore battermi con veemenza strana e ciò mi succede tutte le volte che…

– Zitto, padrone!… – mormorò Kammamuri, con voce soffocata.

– Cos’hai udito?

– Un bambù s’è mosso.

– Dove?

– Laggiù… a trenta passi da noi. Zitto!

Tremal-Naik alzò il capo e lo girò all’intorno, scrutando con attenzione la nera massa dei bambù, ma non scorse alcuno. Tese gli orecchi, rattenendo il respiro e trasalì. Un fruscìo appena distinto si udiva nella direzione indicata dal maharatto, si avrebbe detto che una mano scostava con somma precauzione le larghe e cuoriformi foglie delle gigantesche piante.

– Qualcuno s’avvicina, – mormorò egli. – Non muoverti, Kammamuri.

Il fruscio cresceva e s’avvicinava, ma assai lentamente. Di lì a poco videro due bambù piegarsi e comparire un indiano il quale si curvò verso terra, portando una mano all’orecchio. Stette un minuto così, poi si rialzò e parve che fiutasse l’aria.

– Gary! – bisbigliò egli.

Un secondo indiano uscì da quei bambù, a sei passi di distanza dal primo.

– Odi nulla? – domandò il nuovo venuto.

– Assolutamente nulla. – Eppure, mi parve che qualcuno bisbigliasse.

– Ti sarai ingannato. Sono cinque minuti che me ne sto qui, cogli orecchi ben tesi. Siamo su di una falsa via.

– Dove sono gli altri?

– Tutti dinanzi a noi, Gary. Si teme che gli uomini che hanno ardito qui sbarcare, tentino un colpo di mano sulla pagoda.

– A quale scopo?

– Quindici giorni fa, la vergine della pagoda incontrò un uomo. Furono scorti da uno dei nostri a scambiarsi dei segnali.

– E perché?

– Si crede che l’uomo voglia liberare la Vergine.

– Oh! L’orrendo delitto! – esclamò l’indiano che chiamavasi Gary.

– Questa notte un indiano, compagno del miserabile che osò alzare gli occhi sulla Vergine della nostra venerabile dea, è sbarcato. Senza dubbio veniva a spiare.

– Ma quell’indiano fu strangolato.

– Sì, ma dietro di lui sono sbarcati altri uomini, uno dei quali assassinò il nostro sacerdote.

– E chi è quest’uomo che mirò in volto la Vergine?

– Un uomo formidabiie, Gary, e capace di tutto: è il cacciatore di serpenti della jungla nera.

– Bisogna che muoia.

– Morrà, Gary. Per quanto corra, noi lo raggiungeremo ed i nostri lacci lo strangoleranno. Ora tu parti e cammina dritto fino a che giungi sulla riva del fiume: io mi reco alla pagoda a vegliare sulla Vergine. Addio, e che la nostra dea ti protegga.

I due indiani si separarono prendendo due vie differenti. Appena il rumore cessò, Tremal-Naik che tutto aveva udito, balzò in piedi

– Kammamuri, – diss’egli con viva emozione, bisogna che ci separiamo. Tu li hai uditi: essi sanno che io sono sbarcato e mi cercano.

– Ho udito tutto, padrone.

– Tu seguirai l’indiano che si dirige verso il fiume e appena lo potrai guadagnerai la riva opposta. Io seguo l’altro.

– Tu mi nascondi qualche cosa, padrone. Perché non vieni anche tu alla riva?

– Devo recarmi alla pagoda.

– Oh! Non farlo, padrone!

– Sono irremovibile. Nella pagoda si nasconde la donna che mi ha stregato.

– E se ti assassinano?

– Mi uccideranno a fianco di lei e morrò felice. Parti, Kammamuri, parti ché comincia a prendermi la febbre.

Kammamuri emise un profondo respiro che pareva un gemito, e si alzò.

– Padrone, – disse con voce commossa. – Dove ci rivedremo?

– Alla capanna, se sfuggo alla morte: vattene.

Il maharatto si cacciò nella jungla dietro le traccie dell’indiano, in direzione della riva. Tremal-Naik stette lì a guardarlo. colle braccia incrociate sul petto e la fronte abbuiata.

– Ed ora, – diss’egli rialzando con fierezza il capo, quando il maharatto scomparve ai suoi occhi, – sfidiamo la morte!…

Si gettò la carabina ad armacollo, diede un ultimo sguardo all’intorno e si allontanò a passi rapidi e silenziosi, seguendo le traccie del secondo indiano il quale non doveva essere molto discosto.

La via era difficile ed intricatissima. Il terreno era coperto, fin dove poteva giungere l’occhio, da una rete fitta fitta di bambù che si rizzavano ad un’altezza veramente straordinaria.

V’erano colà i cosiddetti bans tulda, coperti di foglie grandissime, i quali, in meno di trenta giorni, acquistano un’altezza che sorpassa i venti metri ed una grossezza di trenta centimetri.

I behar bans, alti appena un metro, col fusto vuoto ma forte ed armato di lunghe spine, ed una varietà numerosa di altri bambù conosciuti comunemente nelle Sunderbunds col nome generico di bans, i quali si stringevano così davvicino, che era d’uopo servirsi del coltello per aprirsi un passaggio.

Un uomo non pratico di quei luoghi si sarebbe senza dubbio smarrito in mezzo a quei giganteschi vegetali e si sarebbe trovato nell’impossibilità di fare un passo innanzi senza far rumore, ma Tremal-Naik, che era nato e cresciuto nella jungla, movevasi là sotto con sorprendente rapidità e sicurezza, senza produrre il menomo fruscìo. Non camminava, poiché ciò sarebbe stato assolutamente impossibile, ma strisciava simile ad un rettile, guizzando fra pianta e pianta, senza mai arrestarsi, senza mai esitare sulla via da scegliere. Ogni qual tratto egli appoggiava l’orecchio a terra ed era sicuro di non perdere le traccie dell’indiano che lo precedeva, trasmettendo il terreno, il passo di lui, per quanto fosse leggiero.

Aveva già percorso più d’un miglio, quando s’accorse che l’indiano erasi improvvisamente arrestato. Appoggiò tre o quattro volte l’orecchio, ma il terreno non trasmetteva alcun rumore, si alzò ascoltando con profonda attenzione, ma nessun fruscìo gli pervenne. Tremal-Naik cominciò a diventare inquieto.

– Cosa è succeduto? – mormorò egli, guardandosi d’attorno. – Che si sia accorto che io lo seguo? Stiamo in guardia!

Percorse ancora tre o quattro metri strisciando, poi alzò il capo, ma lo riabbassò quasi subito. Aveva urtato contro un corpo tenero che pendeva dall’alto e che erasi subito ritirato.

– Oh! – fe’ egli.

Un pensiero terribile gli attraversò il cervello. Si gettò prontamente da un lato sguainando il coltello e guardo in aria.

Nulla vide o almeno nulla gli parve di vedere. Eppure era sicuro di aver urtato contro qualche cosa, che non doveva essere una foglia di bambù.

Stette alcuni minuti immobile come una statua.

– Un pitone! – esclamo ad un tratto, senza però sgomentarsi.

Un fruscìo repentino erasi udito in mezzo ai bambù, poi un corpo oscuro, lungo, flessuoso, discese ondeggiando per una di quelle piante. Era un mostruoso serpente pitone, lungo più di venticinque piedi, il quale allungavasi verso il cacciatore di serpenti sperando di allacciarlo fra le sue viscose spire e stritolarlo con una di quelle terribili strette alle quali nulla resiste. Aveva la bocca aperta colla mascella inferiore divisa in due branche come i ferri d’una tenaglia, la forcuta lingua tesa e gli occhi accesi, che brillavano sinistramente fra la profonda oscurità.

Tremal-Naik s’era lasciato cadere per terra per non venire afferrato dal mostruoso rettile e ridotto in un ammasso d’ossa infrante e di carni sanguinolenti.

– Se mi muovo sono perduto, – mormorò egli con straordinario sangue freddo. – Se l’indiano che mi precede non s’accorge di nulla, sono salvo.

Il rettile era disceso tanto, che colla testa toccava la terra. Egli si allungò verso il cacciatore di serpenti che conservava la rigidezza d’un cadavere, ondeggiò per qualche tratto su di lui lambendolo colla fredda lingua, poi cercò di farglisi sotto per avvolgerlo. Tre volte tornò alla carica sibilando di rabbia e tre volte si ritirò contorcendosi in mille guise, salendo e ridiscendendo il bambù attorno il quale erasi avvinghiato. Tremal-Naik fremente, inorridito, continuava a rimanere immobile facendo sforzi sovrumani per padroneggiarsi, ma appena vide il rettile alzarsi arrotolandosi in parte su se stesso, affrettossi a strisciare cinque o sei metri lontano. Credendosi ormai fuori di pericolo, s’era voltato per rialzarsi, quando udì una voce minacciosa a gridare:

– Cosa fai qui?

Tremal-Naik s’era prontamente alzato col coltello in pugno. A sette od otto metri di distanza, assai vicino al posto occupato dal rettile, era improvvisamente sorto un indiano di alta statura, estremamente magro, armato d’un pugnale e di una specie di laccio che finiva in una palla di piombo.

Sul petto portava tatuato il misterioso serpente colla testa di donna, contornato da alcune lettere del sanscrito.

– Cosa fai qui? – ripeté quell’indiano con tono minaccioso.

– E tu cosa fai? – ribatté Tremal-Naik, con calma glaciale. – Sei forse uno di quei miserabili che si divertono ad assassinare le persone che qui sbarcano?

– Sì, e sappi che ora farò altrettanto con te.

Tremal-Naik si mise a ridere, guardando il rettile il quale cominciava a svolgere gli anelli, ondeggiando quasi sulla testa dell’indiano.

– Tu credi di uccidermi, – disse il cacciatore, e la morte invece ti sfiora.

– Ma prima morrai tu! – gridò l’indiano, facendo fischiare attorno al capo la corda di seta.

Un sibilo lamentevole emesso dal rettile, lo arrestò nel momento che lanciava la palla di piombo.

– Oh! esclamò, manifestando un profondo terrore.

Aveva alzata la testa e s’era trovato dinanzi al rettile. Volle fuggire e fece un salto indietro, ma incespicò in un bambù mozzato e capitombolò fra le erbe.

– Aiuto! aiuto!… urlò egli disperatamente.

L’enorme rettile s’era lasciato cadere a terra ed in un baleno aveva afferrato l’indiano fra le sue spire, stringendolo in modo tale da togliergli il respiro e da fargli crocchiar tutte le ossa del corpo.

– Aiuto!… aiuto!… – ripeté lo sventurato, sbarrando spaventosamente gli occhi. Tremal-Naik con un moto spontaneo s’era slanciato verso il gruppo. Con un terribile colpo di coltello tagliò in due il pitone, il quale sibilava rabbiosamente, coprendo di bava sanguigna la vittima. Stava per ricominciare, quando udì i bambù agitarsi furiosamente in parecchi luoghi.

– Eccolo! – tuonò una voce.

Erano altri indiani che correvano sul luogo, compagni dell’infelice che il rettile, quantunque spezzato in due, stritolava, facendogli schizzare il sangue dalle carni. Comprese il pericolo che correva, e senza aspettar altro si diede a precipitosa fuga attraverso la jungla.

– Eccolo! eccolo! – ripeté la medesima voce. Fuoco su di lui! fuoco!

Un colpo d’archibugio rintronò destando tutti gli echi della jungla, poi un secondo ed infine un terzo. Tremal-Naik, sfuggito miracolosamente ai proiettili, s’era rivoltato ruggendo come le belve che egli cacciava nella jungla.

– Ah! miserabili! – urlò egli furente.

S’era strappato di dosso la carabina e l’aveva puntata contro gli assalitori che venivano innanzi coi pugnali fra i denti e i lacci in mano, pronti a strangolarlo.

Dalla canna usci una striscia di fuoco seguita da una detonazione. Un indiano cacciò un urlo terribile, portò le mani al volto e rotolò fra le erbe.

Tremal-Naik ripigliò la sfrenata corsa saltando a destra e a sinistra onde impedire ai nemici di prenderlo di mira.

Attraversò un gruppo di bambù che abbatté furiosamente e si cacciò in mezzo alla fitta jungla, facendo perdere le traccie agli inseguitori.

Corse così per un quarto d’ora; si arrestò un momento a prendere fiato sull’orlo della piantagione, poi si slanciò come un pazzo in mezzo a terreni paludosi e scoperti, solcati da innumerevoli canaletti d’acque stagnanti. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la spuma alle labbra, ma correva sempre come avesse le ali ai piedi, saltando via gli ostacoli che gli sbarravano la via, tuffandosi nei pantani, immergendosi negli stagni o nei canali, non avendo che un solo pensiero: frapporre fra sé e gli assalitori il maggior spazio possibile.

Quanto corse, non lo poté sapere. Quando si arrestò, egli si trovava a un duecento passi da una superba pagoda, che ergevasi isolata sulla riva di un ampio stagno contornato da colossali ruine.

V. La vergine della pagoda

Quella pagoda, del più puro stile indiano, era la più bella che Tremal-Naik avesse veduto nelle Sunderbunds. Costruita tutta in granito bigio era alta più che sessanta piedi, con una base larga quanto due terzi dell’altezza, contornata da stupendi colonnati, scolpiti con quella valentìa che distingue la razza indiana. Man mano che la pagoda saliva, andava a poco a poco restringendosi sino a terminare in una specie di cupola sormontata da una gigantesca palla di metallo, con una punta assai aguzza sostenente il misterioso serpente colla testa di donna.

Agli angoli della pagoda scorgevansi il Trimurti indiano, figurato da tre teste sopra un solo corpo sostenuto da tre gambe e, qua e colà, una moltitudine di sculture strane, curiose, rappresentanti molte figure della storia sacra degl’indiani, Brahma, Siva, Visnù, Parvadi, la sinistra dea della morte seduta sopra un leone, Darma-Ragia, il Plutone degl’indiani e molte altre divinità, nonché un gran numero di mostri spaventevoli e di teste d’elefanti colle proboscidi tese.

Tremal-Naik, come si disse, si era fermato di colpo, sorpreso di trovarsi dinanzi ad una pagoda, là dove credeva di trovare la selvaggia jungla.

– Una pagoda! – aveva esclamato egli. – Sono perduto!

Gettò un rapido sguardo all’intorno. Egli si trovava in una specie di radura d’una estensione di oltre mezzo miglio, sgombra affatto d’ogni cespuglio e d’ogni bambù.

– Sono perduto! – ripeté egli, con ira.– Se non trovo un nascondiglio, fra cinque minuti mi pioveranno addosso quei terribili uomini e mi strangoleranno.

Ebbe per un istante l’idea di ritornare indietro e di riguadagnare la jungla per nascondersi, ma vi erano più di ottocento metri da percorrere, cioè il tempo sufficiente perché gli inseguitori lo scoprissero. Pensò alle ruine che contornavano lo stagno, ma non presentavano nascondigli di sorta.

– E se salissi lassù, – mormorò egli, guardando la sommità della pagoda. – E perché no?…

Un uomo come lui, rotto ad ogni sorta d’esercizi e che possedeva una forza erculea congiunta ad un’agilità straordinaria da muovere ad invidia una scimmia guenù, era capace di issarsi fino alla cupola aggrappandosi ai colonnati ed alle sculture che collegavansi in modo da formare un›erta e bizzarra gradinata.

Si slanciò verso la pagoda, dopo d’aver disarmato la carabina e di aversela gettata dietro le spalle, stette qualche istante ad udire, e rassicurato del profondo silenzio che colà regnava, imprese l’ardita scalata.

Con una rapidità sorprendente salì su una colonna e di là si slanciò sulle pareti del tempio aggrappandosi alle gambe delle divinità, inerpicandosi sui loro corpi, posando i piedi sulle loro teste, afferrandosi alle proboscidi degli elefanti e alle corna dei buoi del dio Siva.

Cosa strana, incomprensibile, misteriosa: man mano che saliva sentivasi il cuore battere precipitosamente, le membra acquistare una forza straordinaria. Egli sentivasi come attirato da una forza irresistibile verso la sommità della pagoda, ed al contatto di quelle fredde pietre provava delle sensazioni sconosciute, inesplicabili.

Potevano essere le due del mattino, quando, dopo d’avere eseguito venti manovre aeree da far gelare il sangue ad un ginnasta e di aver corso altrettante volte il pericolo di capitombolar giù e di sfracellarsi il cranio, giunse alla cupola. Con un ultimo slancio s’aggrappò alla gigantesca palla di metallo, sormontata dalla punta sostenente il serpente colla testa di donna.

Con sua sorpresa egli si trovò ondeggiante al di sopra di una larga apertura, profonda ed oscura quanto un pozzo, attraversata da una sbarra di bronzo sulla quale trovò modo di appoggiare i piedi.

– Dove sono? – si chiese egli. – Questo pozzo, senza dubbio deve menare nell’interno della pagoda.

Abbandonò la grande palla e s’aggrappò alla sbarra guardando giù, ma non vide che tenebre; tese l’orecchio, ma il più profondo silenzio regnava sotto di lui, segno evidente che nessuno trovavasi nella pagoda. Una cosa che lo colpì fu una corda abbastanza grossa, formata d’un vegetale lucente e flessibilissimo, annodata alla sbarra e che scompariva giù nell’apertura. L’afferrò e riunendo le sue forze la tirò a sé; s’accorse subito che alla estremità v’era attaccato un corpo alquanto pesante il quale, alla trazione, ondeggiò tintinnando.

Deve essere una lampada, – disse Tremal-Naik. Ad un tratto si batté la fronte.

– Ora mi ricordo! – esclamò egli con viva emozione. – Sì… quei due uomini parlavano di una pagoda… di una vergine che veglia… Giusto Visnù, sarebbe mai…

S’arrestò e portò ambo le mani al cuore che batteva con veemenza straordinaria. Egli provava allora un’emozione analoga a quella che sentiva in quelle sere che trovavasi dinanzi alla strana visione.

Fu un lampo. S’aggrappò a quella corda e si mise a scendere nelle tenebre, quantunque ignorasse ancora dove andasse a finire e ciò che lo attendeva laggiù. Pochi minuti dopo i suoi piedi battevano su di un oggetto arrotondato, il quale mandò un suono metallico che gli echi del tempio ripeterono più volte.

Stava per curvarsi per vedere cos’era, quando un cigolìo simile a quello di una porta che gira sui cardini, giunse ai suoi orecchi.

Guardò sotto di sé e gli parve di scorgere, fra le tenebre, un’ombra che muovevasi, ma senza produrre rumore di sorta.– Chi può esser mai? – si chiese egli, rabbrividendo.

Con una mano estrasse una pistola e l’impugnò deciso di vendere caramente la vita, se veniva scoperto, e attese coll’immobilità d’una statua di granito.

Un sospiro profondo salì fino a lui; quel sospiro lo impressionò in un modo nuovo, misterioso. Gli sembrò che gli avessero vibrato una pugnalata in cuore.

– Sono pazzo o stregato, – mormorò egli.

L’ombra si era fermata dinanzi ad una massa nera, enorme che trovavasi proprio al disotto della fune.

– Eccomi, orribile divinità! – esclamò una voce di donna che scosse Tremal-Naik fino al fondo dell’anima.

Tremal-Naik al colmo della sorpresa udì una materia liquida precipitare sul suolo e sentì spandersi per l’aria un profumo soave.

– Mostruosa gente! – pensò egli. – Eppure quell’ombra ha una voce dolce come le note del saranguy… È strana! tremo come se avessi la febbre. Perché?…

– Ti odio! – esclamò la medesima voce, con profonda amarezza. – Ti odio, spaventevole divinità, che mi condannasti ad eterno martirio dopo d’avermi distrutto tutto ciò che avevo di più caro sulla terra. Assassini, possiate essere maledetti in questa e nell’altra vita!

Uno scoppio di pianto seguì la maledizione che quell’essere misterioso aveva scagliato su quegli uomini che aveva chiamato assassini. Tremal-Naik per la seconda volta fremette in tutte le membra e lui, l’uomo dall’animo inaccessibile, lui, il selvaggio figlio della jungla, lui, il cacciatore di serpenti, per la prima volta in sua vita, si sentì commosso.

Ebbe per un istante l’idea di lasciarsi cadere nel vuoto. ma un po’ di diffidenza lo trattenne. Del resto era troppo tardi, poiché l’ombra s’era allontanata scomparendo nelle tenebre e poco dopo udì il cigolìo della porta che schiudevasi.

– Ma che non possa svelare adunque questo mistero? – mormorò Tremal-Naik, quasi con rabbia. – Ma chi sono adunque questi mostri che han bisogno di vittime?

– Chi è mai questa spaventevole divinità? Chi è questa donna che viene a maledire a mezzanotte, nell’ora dei delitti, dei fantasmi, delle vendette?… Chi è questo essere, che mentre gli altri strangolano, piange? Che mentre gli altri mi fan ribrezzo, mi commuove! Che mentre gli altri han cupa la voce, l’ha dolce, soave come un’armonia celeste?… Quest’essere, questa donna io la voglio vedere, io le voglio parlare e tutto mi svelerà. Non so, ma una voce interna mi dice che questa donna io l’ho veduta altre volte, ha fatto palpitare il mio cuore, che questa donna è…

S’arrestò anelante, quasi spaventato. Una fiamma gli salì in volto e lo inondò di sudore.

– Se fosse la mia visione! – esclamò egli con voce tremante per l’emozione. – Quando m’arrampicava sul tempio io era commosso; quando scesi quaggiù io tremava. Se fosse vero?… Scendiamo.

Si lasciò calare giù e posò i piedi su di un oggetto duro e scabroso, che diede quel suono particolare dei corpi metallici e specialmente dei bronzi.

S’accorse di essere sopra alla massa nera, dinanzi alla quale la donna aveva versato quel profumo, maledetto e pianto.

– Cos’è mai questo? – mormorò egli.

Si chinò, appoggiò le mani su quella massa di bronzo e si lasciò scivolar giù, finché toccò terra. I suoi piedi sdrucciolarono su di una superficie liscia e umidiccia.

– È qui che ella sparse il profumo, – diss’egli.– L’odore che mi sale alle nari me lo dice. Domani saprò dove mi trovo e con chi avrò da fare.

Fece sei o sette passi brancolando fra le tenebre e si aggomitolò su se stesso, colle pistole in mano, aspettando che un raggio di luce illuminasse quel misterioso tempio.

Passarono alcune ore senza che rumore alcuno turbasse il funebre silenzio che regnava in quel luogo; lassù, verso l’apertura, il cielo cominciava a rischiararsi e gli astri ad impallidire sotto i primi albori. Tremal-Naik, immobile, cogli occhi bene aperti e gli orecchi tesi, aspettava sempre con quella pazienza che è particolare alle razze asiatiche.

Verso le quattro il sole apparve improvvisamente sull’orizzonte, illuminando la grande palla di bronzo che ergevasi sulla cima della pagoda e dall’ampia apertura scese un fascio di luce. Tremal-Naik scattò in piedi, sorpreso, sbalordito dallo spettacolo che offrivasi dinanzi a’ suoi occhi.

Egli si trovava in una specie di immensa cupola, le cui pareti erano bizzarramente dipinte. Le prime dieci incarnazioni di Visnù, il dio conservativo degli indiani che ha la sua residenza nel Vaicondu o mare di latte del serpente Adissescien, erano dipinte all’ingiro, circondate dai principali deverkeli o semi-dei venerati dagl’indiani, protettori degli otto angoli del mondo, abitatori del sorgon, cioè paradiso di quelli che non hanno tanti meriti per andare nel cailasson o paradiso di Siva. A metà della cupola v’erano scolpiti i cateri, giganteschi geni malvagi, che divisi in cinque tribù vanno errando pel mondo dal quale non possono uscire, né meritare la beatitudine promessa agli uomini, se non dopo d’aver raccolto gran numero di preghiere.

Nel mezzo della pagoda si elevava una grande statua di bronzo, rappresentante una donna con quattro braccia, di cui una brandiva una lunga daga e un’altra una testa.

Una grande collana di teschi le scendeva fino al collo dei piedi ed una cintura di mani e di braccia mozzate le stringeva i fianchi.

La faccia di quell’orribile donna era tatuata, le sue orecchie erano adorne di anelli; la lingua dipinta di rosso cupo, del color del sangue, le usciva d’un buon palmo dalle labbra atteggiate ad un feroce sorriso; i polsi erano stretti da larghi braccialetti ed i piedi posavano su di un gigante coperto di ferite.

Quella divinità, lo si capiva a prima vista, trasportata dalla ebbrezza del sangue, danzava sul corpo della vittima.

Un altro oggetto strano, era una vaschetta di marmo bianco, incastonata nelle lucenti pietre del pavimento. Era colma di limpidissima acqua e dentro vedevasi nuotare un pesce di un bel giallo d’oro, piccolo e che somigliava assai ad un mango del Gange. Tremal-Naik non aveva mai visto nulla di simile.

Egli si era fermato dinanzi alla mostruosa divinità e la contemplava con un misto di stupore e di paura.

Chi era mai quella sinistra figura contornata di cranii ed ornata di mani e braccia mozze? Cosa significava quel pesciolino dorato nuotante in quella bianca vaschetta? Quale relazione avevano quei due strani simboli, coi feroci uomini che inseguivano e strangolavano i loro simili?

– Che io sogni? – mormorò Tremal-Naik, stropicciandosi più volte le palpebre. – Io non comprendo nulla!

Non aveva ancor finito, che un leggiero cigolìo giungeva ai suoi orecchi. Si volse colla carabina in mano, ma quasi subito indietreggiò fino alla mostruosa divinità, rattenendo a gran pena un grido di stupore e di gioia.

Dinanzi a lui, sul limitare di una porta dorata, stavasene ritta una fanciulla di meravigliosa bellezza, col più angoscioso terrore dipinto sul volto.

Poteva avere quattordici anni. La sua taglia era graziosa e di forme superbamente eleganti.

Aveva i lineamenti d’una purezza antica, animati dalla scintillante espressione della donna anglo-indiana.

La pelle era rosea, d’una morbidezza impareggiabile, gli occhi grandi neri e scintillanti come diamanti; un naso diritto che nulla aveva d’indiano, labbra sottili, coralline, schiuse ad un melanconico sorriso che lasciava scorgere due file di denti d’abbagliante bianchezza una opulenta capigliatura d’un castano cupo, fuliginoso, separata sulla fronte da un mazzetto di grosse perle, era raccolta in nodi ed intrecciata con fiori di sciambaga dal soave profumo.

Tremal-Naik come si disse, era vivamente indietreggiato fino alla mostruosa statua di bronzo.

– Ada!… Ada!… L’apparizione della jungla! – esclamò egli con voce soffocata.

Non seppe dire di più e rimase lì, muto, ansante, trasognato a mirare quella superba creatura che continuava a fissarlo con profondo terrore. Ad un tratto quella fanciulla fece un passo innanzi lasciando cadere a terra l’ampio sari di seta, orlato d’una larga striscia azzurra, fregiata di complicati disegni, che ricoprivala come un ampio mantello.

Un fascio di luce abbagliante l’avvolse, togliendola alla vista del cacciatore di serpenti che fu forzato a chiudere gli occhi.

Quella fanciulla era coperta letteralmente d’oro e di pietre preziose d’inestimabile prezzo. Una corazza d’oro, tempestata dei più bei diamanti del Golconda e del Guzerate, decorata del misterioso serpente colla testa di donna, le racchiudeva tutto il seno e spariva in un largo scialle di cachemire trapunto d’argento, che cingevale i fianchi; molteplici collane di perle e di diamanti le pendevano dal collo, grossi come nocciuole; larghi braccialetti pur tempestati di pietre preziose le ornavano le nude braccia, ed i calzoncini larghi, di seta bianca, erano stretti sul collo dei piedi nudi e piccini, da cerchietti di corallo della più bella tinta rossa. Un raggio di sole, penetrato da uno stretto pertugio, battendo sopra quella profusione di ori e di gioie aveva per così dire immersa la giovanetta in un mare di luce d’un fulgore acciecante.

– La visione!… La visione!… – ripeté per la seconda volta Tremal-Naik, tendendo le braccia verso di lei! – Oh! quanto è bella!…

La giovanetta si guardò attorno con smarrimento e portò un dito sulle labbra, come per invitarlo a tacere, poi camminò dritta verso di lui.

– Sciagurato! – diss’ella con ispavento. – Cosa sei venuto a far qui?… Qual follia ti trascinò in quest’orribile luogo?…

Il cacciatore di serpenti, senza volerlo, era caduto in ginocchio tendendo le mani verso di lei che indietreggiò con maggiore spavento.

– Non toccarmi! – diss’ella, con un filo di voce.

Tremal-Naik aveva emesso un sospiro:

– Sei bella! esclamò egli con passione.

– Taci, Tremal-Naik!

– Sei bella!… – ripeté il selvaggio figlio della jungla. Ella gli pose un dito sulle labbra.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
280 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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