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Kitabı oku: «I pescatori di balene», sayfa 10

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XVII. SEPOLTI SOTTO LE NEVI

Nei giorni seguenti i due balenieri si adoperarono per rendere più comoda la loro abitazione nella quale prevedevano di dover passare delle lunghe giornate senza poter uscire.

Vi trasportarono un certo numero di provvigioni sufficienti per nutrirli qualche settimana senz’essere obbligati ad aprire i magazzini che erano stati ben chiusi, per metterli al riparo dagli assalti degli orsi bianchi; vi adattarono nel mezzo una gran lampada che doveva servire da stufa e da camino, costituita da un pentolone di ghisa munito di un grosso lucignolo; coprirono per bene il pavimento dopo aver battuta la neve e vi collocarono due piccoli letti formati di pelli di foca e di coperte di lana, e da ultimo vi trasportarono due barili d’olio di balena che dovevano servire all’illuminazione è al riscaldamento.

Per meglio proteggere la loro dimora dai gelati venti del nord, eressero quasi tutto all’intorno una muraglia di ghiaccio alta una decina di piedi, facendovi anche delle feritoie per difendersi dagli orsi, nel caso che questi fossero così audaci da venir a ronzare in quei pressi.

Il 10 gennaio, stanchi sì ma soddisfatti dei loro lavori, prendevano possesso della loro casupola entro la quale potevano sfidare, senza tema di soffrir troppo, i freddi intensi del polo artico.

Era tempo. Lo stesso giorno, la calma che fino allora li aveva favoriti e la temperatura cangiarono bruscamente.

Una bufera di neve si scatenò con inaudita violenza facendo scendere quasi improvvisamente il termometro a oltre 40° sotto lo zero, accompagnata da rombi minacciosi che annunziavano prossime pressioni.

Sei giorni interi l’uragano imperversò, spazzando i campi di ghiaccio ed atterrando non pochi «icebergs» e moltissimi «hummocks», durante il qual tempo i due balenieri non ardirono porre il naso fuori della loro dimora; poi sopravvennero le pressioni. Il grande banco, stretto d’ogni parte dai ghiacci che continuavano ad accumularsi ai suoi confini, si mise in movimento da nord a sud, da est ad ovest. Seguirono scricchiolii, muggiti, boati, detonazioni indescrivibili, con non poco timore da parte dei due balenieri che temevano assai per i loro magazzini e anche per la loro capanna, le cui pareti più volte oscillarono pericolosamente come se fossero per crollare.

Il 20 vi fu un pò di calma, ed i due balenieri ne approfittarono per sgranchirsi le gambe, ma dovettero prima lavorare un paio d’ore per aprirsi il passo attraverso le nevi che avevano quasi interamente coperta l’abitazione,

– Un’altra nevicata e saremo sepolti! – disse Koninson, salendo sul campo di ghiaccio che aveva raddoppiato lo spessore.

– Vedi nulla di nuovo? – disse il tenente che lo seguiva.

– Sì, un gran numero di ghiacci rovesciati ed enormi spaccature. Ma… tò, cos’è che si muove laggiù?

– Un animale forse?

– Fulmini… un elefante!

– Un elefante qui, con questo freddo? Sei matto, fiociniere?

– Allora è un orso colossale. Un fucile, signor Hostrup, un fucile!

Il tenente ritornò rapidamente nella capanna e prese le due carabine. Salito sul campo, guardò nella direzione che il fiociniere gli indicava.

A trecentocinquanta passi, presso un grandissimo «iceberg», la cui cima pareva che toccasse le nubi, egli vide, non senza una certa emozione, un colossale animale dal mantello bianco con una lunga coda che spazzava la neve.

Koninson non aveva esagerato. Quell’animale era grande quanto un vero elefante, quantunque non avesse nè la tromba, nè le zanne.

– Da dove esce quell’animalaccio? – si chiese il tenente che involontariamente retrocesse. – Non ho mai veduto una cosa simile.

– Che sia un orso di nuovo genere? – domandò Koninson che malgrado la sua straordinaria audacia era diventato pallido e tremava non poco.

– No, non è possibile. Piuttosto lo credo un «rhystine stelleri».

– Che bestia è mai questa? Io non ne ho mai incontrata una nelle mie caccie.

– È un colossale mammifero marino, la cui razza si è spenta da qualche secolo e forse più. L’esploratore Behring ha narrato che quando naufragò sull’isola che oggi porta il suo nome, verso il 1741, trovò una grande quantità di questi «rhystine stelleri». Perchè non potrebbe esistere ancora qualche campione?

– Erano pericolosi?

– No, a quanto lasciò scritto Behring.

– Allora possiamo arrischiare due colpi di carabina.

– Lo credo, Koninson, tanto più che non mi dispiacerebbe un bell’arrosto di carne fresca.

– Avanti allora e non manchiamo al colpo.

I due balenieri, tenendosi celati dietro alcuni massi di ghiaccio, s’avvicinarono all’animale che non pareva disposto a fuggire. Giunti a duecento passi puntarono le armi, e dopo aver mirato attentamente fecero fuoco.

I colpi di fucile furono tosto seguiti da due rumorosi scoppi di risa che gli uguali non avevano mai echeggiato in quelle alte latitudini. E vi era infatti da ridere e molto fragorosamente!

Le detonazioni non erano ancora cessate, che un cambiamento inatteso erasi manifestato. Il grande «iceberg» che pareva toccasse le nubi colla sua vetta, come per incanto era diventato un semplice a «hummock» e il preteso «rhystine stelleri» dalle forme gigantesche una misera… volpe, la quale, più che mai spaventata e ben contenta di non essere stata colta dalle palle, fuggiva con incredibile celerità attraverso i ghiacci.

– Ma che razza di scherzo è mai questo! – esclamò Koninson, che rideva al punto da slogarsi le mascelle.

– Uno scherzo che dovevamo indovinare prima – rispose il tenente che non rideva meno.

– Una semplice rifrazione adunque?

– Sì, la rifrazione, un miraggio qualunque, che lo scoppio delle nostre armi, agitando violentemente gli strati atmosferici, è bastato a distruggere.

– Un fenomeno frequente in queste regioni?

– Molto frequente, fiociniere. Andiamo innanzi, ma badiamo di non scambiare un canaletto per un fiume e un buco per un baratro.

Messi di buon umore da quello scherzo, ripresero il cammino dirigendosi verso nord colla speranza di fare qualche più fortunato colpo di fucile.

Percorsero due chilometri camminando con precauzione e tastando il ghiaccio perchè non si aprisse improvvisamente sotto i loro piedi, ma non incontrarono che «icebergs», che le ultime pressioni avevano inclinati capricciosamente, ma non distrutti. Di animali nessuna traccia: orsi, foche, trichechi, volpi, mancavano assolutamente sul campo di ghiaccio. Perfino gli uccelli erano scomparsi e non si udiva alcun grido in nessuna direzione.

Il tenente e il fiociniere, un pò sconcertati, ritornarono alla loro dimora, inquieti assai a causa di certi brutti nuvoloni che si alzavano rapidamente da nord e che promettevano un’altra abbondante nevicata e un maggior abbassamento di temperatura. E le loro inquietudini non errarono. Erano appena al riparo, che un vento furioso cominciò a soffiare sul campo spingendo innanzi a sè i nembi di ghiacciuoli sottili come aghi che, cadendo, producevano un rumore quasi metallico, mentre nelle alte regioni turbinavano fiocchi di neve di una grossezza inverosimile.

Koninson turò ermeticamente tutte le finestre della capanna ed alimentò la gran lampada per mantenere nell’interno un certo calore. Dopo un magro pasto e una fumata, si avvolsero nelle coperte mentre al di fuori l’uragano continuava a ruggire, ammonticchiando qua e là enormi ammassi di neve.

La notte fu cattiva. Più volte il tenente si svegliò e porse ascolto ai ruggiti del vento ed agli scricchiolii del campo di ghiaccio che talvolta pareva fosse diventato il fondo d’una caldaia in ebollizione e più volte, a rischio di compromettere il suo naso, tentò, ma invano, di guardare ciò che accadeva all’esterno.

Riaddormentatosi per la decima volta, dopo un tempo che stimò non troppo lungo si risvegliò con un certo malessere che non sapeva spiegare.

Respirava con fatica e attorno al capo gli pareva di avere un cerchio di ferro che sempre più si stringesse.

Si guardò intorno. La lampada, che poco prima ardeva benissimo, era moribonda, quantunque fosse piena d’olio. Pareva anzi che si dovesse spegnere da un istante all’altro.

Guardò Koninson e lo vide agitarsi e respirare affannosamente.

– Cosa sta per succedere? – mormorò con qualche ansietà.

Tese l’orecchio. Non udiva più gli scricchiolii dei ghiacci; solamente gli pareva che in distanza rombassero delle detonazioni molto sorde.

– Koninson! Koninson! – gridò.

Il fiociniere agitò le braccia, sbadigliò a lungo mostrando le mascelle solidamente armate di aguzzi denti e apri gli occhi.

– Tenente! – rispose.

– Provi qualche cosa tu?

– Si, signor Hostrup. Mi pare che il mio capo giri e che i miei polmoni funzionino molto male. Tò! Che cos’ha la lampada che pare voglia spegnersi? Eppure io l’ho riempita per bene.

– Mi assale un dubbio, Koninson.

– E quale mai?

– Che noi siamo sepolti.

– Sepolti! E come? Che il campo di ghiaccio ci abbia inghiottiti senza stritolare la capanna? Sarebbe un bel caso, signor Hostrup.

– Ma poco allegro, fiociniere. Fortunatamente credo che non siamo sotto il banco ma sopra.

– Ed allora chi ci avrebbe sepolti?

– La neve.

– Infatti, signor Hostrup, mi pare che l’aria cominci a mancare. La lampada che si spegne, i nostri polmoni che si affaticano e le nostre teste che girano, sono segni belli e buoni per farci credere che non c’inganniamo.

– Proviamo ad uscire, finchè ci rimane qualche altra boccata d’aria.

Koninson, che non si trovava bene fra quell’aria viziata, levò la pelle che chiudeva l’entrata e si trovò dinanzi ad una massa di neve che pareva dovesse elevarsi quanta era alta la capanna. Si provò i rasparla, ma non ne venne a capo: il freddo intenso l’aveva ridotta in solidissimo ghiaccio.

– Hum! – esclamò. – La faccenda diventa seria, signor Hostrup. Siamo come murati e molto bene, a quanto pare.

– Eppure bisogna uscire, Koninson, e senza perder tempo.

– Proviamo ad aprire il buco che serviva d’uscita al fumo.

– Proviamo, fiociniere. Sta saldo che io mi arrampico su di te.

Koninson si piantò presso la lampada, colle gambe aperte e la testa curva e il tenente gli saltò agilmente sulle spalle. Strappò il pezzo di pelle che chiudeva l’apertura per impedire alla neve di entrare e di spegnere la lampada, ma si trovò in presenza di un blocco di ghiaccio che resistette a tutti i suoi sforzi.

– Siamo proprio sepolti! – disse con ira.

– E dunque, cosa facciamo? Sento che l’aria diminuisce rapidamente.

– Non ci resta altro che aprire una galleria.

– Ne avremo il tempo?

– Te lo dirò più tardi. Affrettiamoci, mio povero amico, che gli istanti sono preziosi.

Saltò a terra, afferrò un solido coltellaccio, e intaccò febbrilmente la neve che ostruiva l’uscita, mentre Koninson si poneva a lavorare ai suoi fianchi armato d’una scure.

La neve, a causa del freddo eccessivo, aveva acquistato una durezza estrema, ma non poteva resistere ai colpi disperati dei balenieri, si staccava in larghi pezzi che venivano subito gettati nell’interno della capanna. Ma l’aria veniva sempre meno ed era da prevedersi che sarebbe completamente mancata prima del termine del lavoro.

Già la lampada non mandava più che una fioca luce e i polmoni dei balenieri funzionavano furiosamente senza riuscire ad empirsi. Koninson, specialmente, di quando in quando provava dei capogiri e si sentiva mancare le forze.

Avevano scavato quasi un metro di ghiaccio, quando il povero giovane che impallidiva sempre più si arrestò, lasciando cadere la scure.

– Signor tenente! – mormorò con voce semispenta. – Io… io… non ne posso più…

– Coraggio, Koninson! – balbettò Hostrup che consumava i suoi ultimi resti di forza, menando coltellate furiose contro la crosta di ghiaccio.

Il fiociniere tentò di rimettersi al lavoro, ma gli fu impossibile e si accasciò rantolando.

In quell’istante la lampada si spense e una profonda oscurità regnò nella capanna.

Il tenente emise un urlo di rabbia.

– Bisognerà… morire… qui dentro!.. – rantolò, stringendo i pugni.

Aveva perduta ormai ogni speranza e all’estremo di forze stava per cadere a fianco del fiociniere, quando un pensiero gli balenò nel cervello.

Fece appello alla sua energia, si precipitò verso un angolo della capanna, afferrò il primo fucile che trovò sotto mano, l’armò rapidamente e puntandolo in alto fece fuoco.

Alla detonazione formidabile che fece tremare le pareti staccando larghe croste di ghiaccio, Koninson si rizzò sulle ginocchia balbettando:

– Signor… Hostrup!…

Il tenente non rispose. Ritto in mezzo alla capanna, col capo in aria, gli occhi fissi sulla volta, colla bocca sbarrata, pareva che attendesse qualche cosa.

Un leggero fischio si fece udire e subito dopo i due poveri balenieri, che poco prima si credevano perduti, respirarono dapprima stentatamente e poi a pieni polmoni. Koninson gettò un formidabile «oh!» di soddisfazione, mentre il tenente, malgrado il freddo, si tergeva il sudore che gli bagnava la fronte.

– Avete aperto un foro con una palla? – chiese Koninson, accendendo la lampada.

– Sì, fiociniere, e, come vedi, è stata una eccellente idea.

– E venuta proprio a tempo, signor Hostrup. Mille grazie! Ah come respiro!

– Respira più che puoi, poichè il buco potrebbe turarsi da un momento all’altro.

– Scaricheremo ancora i fucili.

– Purchè non ci crolli addosso la capanna. Credo che faremo bene ad aprirci una galleria e sbarazzarci del ghiaccio e della neve che ci seppelliscono.

– Mano alla scure, adunque, signor Hostrup. Ora mi sento forte come un gigante.

Non perdettero tempo; dopo due ore di accanito lavoro raggiungevano la superficie del campo, sul quale si erano stesi oltre tre metri di neve, che il freddo intenso aveva convertito in solidissimo ghiaccio.

XVIII. IL RITORNO ALLA COSTA

Il lungo inverno polare passava lentamente con tutto il suo orrido corteo di furiosi uragani, di freddi intensi, di nevicate spaventevoli e di folti nebbioni.

I due balenieri, quasi sempre chiusi nella loro meschina, stretta, umida e fredda capanna di ghiaccio che la lampada non bastava a riscaldare, passavano dei tristi giorni sospirando la primavera che pareva non volesse decidersi a venire innanzi. La noia e lo scoraggiamento, prodotti dall’immobilità quasi assoluta, dall’isolamento e dai grandi freddi che si succedevano scendendo talvolta perfino a 56° sotto lo zero, ben spesso li invadevano e penavano assai a combatterli.

Quando il campo di ghiaccio non sussultava e il tempo si manteneva in calma, ne approfittavano per fare delle lunghe escursioni, ma ciò accadeva ben di rado, poichè venti furiosi soffiavano quasi sempre da nord, spingendo innanzi nembi di ghiacciuoli che ferivano dolorosamente e nembi di neve che assideravano.

Qualche altra volta sfidavano le intemperie per ammirare gli strani fenomeni che accadevano, o le splendide aurore boreali che lanciavano per il firmamento fasci di luce gialla, turchina, azzurrognola, scherzanti in mezzo a linee di fuoco, o la luna che spuntava sull’orizzonte contornata da quattro od otto satelliti o palle di fuoco che apparivano improvvisamente, aventi un rapido moto orizzontale alquanto oscillante e che, dopo aver scherzato fra i ghiacci, scoppiavano senza lasciare alcuna traccia, o i miraggi sorprendenti che tramutavano i ghiacci in campagne ridenti coperte di betulle e di verdi erbe, o le colonne di fumo che s’alzavano alte alte e che erano prodotte da tronchi d’alberi fossilizzati, trascinati dalle correnti, chissà mai da quali lontane regioni, e che s’incendiavano pel continuo confricamento degli «icebergs», degli «streams», dei «polks» e degli «hummocks» che s’accumulavano combattendo furiosamente fra loro attorno al grande banco.

Ma per lo più se ne stavano chiusi nel loro tugurio per non esporsi ai pericoli causati dalle pressioni che di quando in quando mettevano sottosopra il banco con ululati da far fremere, o dal freddo feroce che li minacciava ad ogni momento di congelamento, pericolo assai grave, poichè produce la perdita assoluta del membro che ne viene colpito e qualche volta cagiona anche la morte.

Fortunatamente l’inverno, quantunque sembrasse eterno a quei due disgraziati balenieri, passava. Passò gennaio, poi febbraio, poi marzo, indi venne aprile, il quale portò un gran cambiamento.

Il freddo a poco a poco divenne meno intenso e si fermò sui 15° sotto lo zero; gli uragani che sconvolgevano i campi di neve e che minacciavano ogni giorno di seppellire la capanna di ghiaccio, divennero più radi e meno violenti; le dense nebbie che ostinatamente coprivano l’orizzonte settentrionale e che talvolta diventavano così nere da non lasciar vedere al di là della punta del naso, s’alzarono e si dileguarono e in loro vece apparve dapprima una luce biancastra che ogni giorno più si elevava, e finalmente s’alzò il sole, il quale lanciò i suoi raggi dorati attraverso l’immensa distesa di ghiacci che scintillarono superbamente.

Gli uccelli, che si erano rifugiati nei climi più dolci, ritornarono ben presto in grandi stormi: i borgomastri («larus glaucus») prima, indi le urie nere («dovekies»), poi i piccoli «plectrophanes nivales», le oche, i kittivakes, i rotgees, i loomeries, i boats-waires, i mollys, gli snowbuttings e dietro a questi tutte le altre specie d’uccelli che al principiare della primavera lasciano le terre della Baia d’Hudson per emigrare nelle terre artiche spingendosi forse fin là dove l’uomo, malgrado tanti secoli d’eroici sforzi e tante preziose esistenze sacrificate, non ha peranco posto piede, cioè al polo.

Ma anche gli animali cominciavano a comparire con grande contentezza dei due balenieri che sentivano il bisogno di nutrirsi di carne fresca per tener lontano lo scorbuto che li minacciava. Numerose volpi, giunte da sud, saltellavano in mezzo ai ghiacci; qualche orso bianco, ma ancora assai diffidente, si era mostrato in distanza, dondolando meccanicamente e senza posa il capo, e più lontano anche delle foche e dei trichechi avevano fatto la loro comparsa ed erano stati veduti riscaldarsi ai primi raggi del sole primaverile.

Il momento della partenza si avvicinava. La più elementare prudenza consigliava ai due balenieri di andarsene verso sud, di abbandonare quel campo di ghiaccio che non avrebbe resistito per molto tempo al calore solare.

Fu il 16 aprile che il tenente, che da qualche giorno visitava attentamente le baleniere riparate nel magazzino e colle quali contava di fabbricare una buona slitta, decise di por mano ai lavori.

– Non bisogna perdere tempo, mio caro Koninson – disse egli. – La costa americana non è molto distante e solamente là noi possiamo trovare la nostra salvezza.

– Non domando che di andarmene, signor Hostrup! – rispose il fiociniere. – Se rimango un’altra settimana in questa dannata capanna, mi si arrugginiranno le gambe al punto da non poter più servirmene. E sarà lunga la via che dovremo percorrere?

– Un centocinquanta o duecento miglia.

– Ci impiegheremo del tempo.

– Non tanto quanto sembrerebbe, mio bravo fiociniere.

– Per caso, avete trovato dei cani da attaccare alla slitta?

– No, ma qualche cosa di meglio e di più rapido. Il fiociniere lo guardò con stupore, chiedendosi se il freddo e i patimenti gli avessero sconvolto il cervello.

– Non meravigliarti! – disse il tenente sorridendo, e forse comprendendo il pensiero che attraversava la mente del fiociniere. – Guarda verso il sud: cosa vedi?

– Una superficie brillante che pare non finisca mai.

– Sì, ma una superficie che le grandi nevicate e i grandi freddi hanno sufficientemente levigata. Ebbene, amico mio, noi alzeremo una vela sulla nostra slitta e appena il vento del nord soffierà, partiremo colla velocità di un battello a vapore, anzi d’un treno.

– Stupenda idea, signor Hostrup. E dire che non mi era mai passata per la mente! Al lavoro! Al lavoro! Mi sento ora capace di costruire dieci slitte.

Si recarono ai magazzini e colla scure fecero a pezzi la grande baleniera del cui legname, abbastanza curvo, contavano di servirsi.

L’impresa non fu tanto facile, essendo sprovvisti degli utensili necessari, ma finalmente riuscirono a costruire un solido apparecchio che, se non era precisamente una slitta, di poco le si scostava. Il difficile fu l’adattamento dei pattini di ferro, non possedendo che poche lamine di metallo strappate alle imbarcazioni, poco larghe e per di più un pò avariate.

Ma colla pazienza, riscaldandole sulla gran lampada e battendole e ribattendole col rovescio delle scuri, anche i pattini furono ottenuti e collocati a posto.

– Speriamo che resistano! – disse Koninson, piantando l’ultimo chiodo.

– E perchè si dovrebbero rompere?

– Il metallo era molto vecchio e molto arrugginito, signor Hostrup.

– E se tu non lo sai, fiociniere, ti dirò che il ferro arrugginito naturalmente, e così pure l’acciaio, è sempre migliore di quello appena fuso. Un celebre coltellinaio di Londra ha fatto degli esperimenti in proposito, che diedero dei risultati sorprendenti.

– Io non l’ho mai saputo.

– Così è, Koninson. Questo coltellinaio, che si chiamava Weiss, seppellì dei vecchi rasoi e delle vecchie lame di ferro, dopo tre anni le ritirò coperte d’un spesso strato di ruggine che pareva trasudato dall’interno e, lavoratele, ottenne delle lame d’una qualità superiore, e tali da vincere quelle famose di Toledo.

– Allora non temo più per i nostri pattini.

L’indomani i due balenieri riprendevano il lavoro per ultimare la slitta. Costruirono, servendosi sempre del legname fornito dalle imbarcazioni, delle casse per i viveri e per le munizioni, issarono sul dinanzi del veicolo un pennone che assicurarono saldamente e che fornirono d’una vela quadra, e finalmente fabbricarono una specie di timone munito all’estremità d’un grosso gancio di ferro che doveva servire per la direzione e, in caso di bisogno, per le fermate improvvise.

Il 18 l’occuparono nel fabbricarsi degli occhiali, oggetti indispensabili in quelle regioni, quando il sole si riflette sui campi di ghiaccio. Infatti quella luce acciecante è pericolosa e cagiona spesso delle oftalmie che conducono alla cecità e delle quali non vanno esenti neanche gli eschimesi che pure nascono e vivono in quei climi.

Quegli occhiali richiesero parecchio tempo e molta pazienza, ma finalmente i due balenieri ne vennero a capo. S’intende che non erano formati con lenti, impossibili ad ottenersi, per quanto desiderio avessero il tenente e il suo compagno, ma poco dissimili da quelli usati dagli indiani delle terre della Baia di Hudson.

Sarebbero stati necessari dei rami di cedro rosso che essendo assai pieghevoli vengono adoperati dagli indiani nella fabbricazione di questi oggetti, ma non avendone a loro disposizione, i balenieri si servirono di un grosso filo di ferro rinvenuto in un canotto. Curvatolo in maniera da formare un ovale assai allungato, lo coprirono con una sottile pelle di foca, praticandovi, al posto degli occhi, due sottili tagli orizzontali. Ciò era bastante per vedere senza incorrere nel pericolo di rimanere acciecati o di buscarsi qualche seria malattia.

La mattina del 20, tutto era pronto per la partenza. La slitta colla sua vela semi-tesa, col suo albero ben assicurato, il suo timone a posto, i viveri sufficienti per tre settimane e le munizioni rinchiuse nelle casse, non aspettava che di essere manovrata per slanciarsi attraverso il campo di ghiaccio.

Uno splendido sole brillava sull’orizzonte inondando quella deserta regione d’una luce abbagliante, e un fresco vento soffiava da nord.

I due balenieri, chiusi per bene i magazzini nei quali lasciavano ancora una discreta quantità di provvigioni e dato un addio alla capanna che li aveva ricoverati durante il lungo inverno polare, si affrettarono a dirigersi verso la slitta, ansiosi di toccare la costa americana. Stavano per porvi il piede, quando entrambi si fermarono come se a tutti e due fosse istantaneamente venuto lo stesso pensiero.

I loro occhi si portarono sul gran banco di ghiaccio risplendente di luce e si fermarono là dove circa quattro mesi prima, in una notte d’orrore, per effetto delle pressioni, il valoroso «Danebrog» sventrato, stritolato, era colato a fondo; là dove i loro sfortunati camerati erano stati inghiottiti in quella tremenda notte.

– Riposate in pace! – disse il tenente con voce solenne e triste, scoprendosi il capo. – Riposate in pace voi infelici che non rivedrete giammai le lontane sponde della vostra patria, nè avrete sulle vostre tombe il conforto di un fiore sparso da mano amica, nè una lagrima versata dai vostri cari. Addio, capitano Weimar, addio, miei poveri camerati: noi non vi dimenticheremo.

– Riposate in pace! – ripetè Koninson che era profondamente commosso. – I ghiacci del polo vi siano leggeri.

– Ed ora partiamo! – disse il tenente.

Balzarono nella slitta che pareva impaziente di allontanarsi da quei funebri luoghi e issarono la vela, che subito si gonfiò sotto i soffi del vento settentrionale.

Il veicolo per un istante rimase immobile come fosse inchiodato al banco, poi cominciò a scivolare un pò indecisamente, indi si slanciò attraverso la liscia superficie colla velocità di un treno diretto, sollevando attorno a sè una nube di nevischio e di ghiacciuoli e lasciandosi dietro due striscie fiammeggianti che in pochi istanti si prolungarono indefinitamente.

Il tenente e Koninson, quasi soffocati dalla rapida e gelida corrente d’aria, flagellati da una vera grandine di ghiacciuoli sottili come aghi, solidamente aggrappati alle traverse del celere veicolo, si sforzavano di guardare innanzi per tema di trovarsi improvvisamente sull’orlo di qualche spaccatura o di urtare contro qualche sporgenza.

– Apri bene gli occhi, – ripeteva Hostrup al fiociniere – e sii pronto a lasciar cadere la vela.

– Non temete, – rispondeva con voce soffocata il bravo giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso – guardo sempre.

E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse, senza sbandamenti, senza deviare d’un solo centimetro sotto la robusta mano del tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra «icebergs» e «hummocks» e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli.

Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello, percorrendo non meno di cinquanta chilometri all’ora.

Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi ad una spaccatura del ghiaccio; l’urto l’avrebbe mandata in mille pezzi e i due uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte.

A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque non dovesse essere molto lontana.

– Fermiamoci! – disse al fiociniere. – Ammaina la vela.

Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio, percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di ghiaccio.

Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po’ scemato.

Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un’alta costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di «icebergs», e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne.

– Signor Hostrup! – esclamò con voce commossa.

– È la costa americana! – disse il tenente, non meno commosso.

– Così presto?

– Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo.

Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell’America settentrionale.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
270 s. 1 illüstrasyon
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Public Domain
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