Kitabı oku: «Il Bramino dell'Assam», sayfa 5
CAPITOLO QUINTO: IL FALSO BRAMINO
I due molossi, appena liberati dalle catene, non partirono subito. Si raccolsero un momento su loro stessi, fiutando e rifiutando l’aria, poi si scagliarono colla velocità di due proiettili attraverso ad una bassa porta che doveva condurre in qualche rifugio.
Tutti gli uomini tenevano le mani ferme sulle carabine, pronti a mitragliare quei misteriosi individui che fuggivano dinanzi a loro senza tentare nessuna resistenza, ma mettendo a dura prova la pazienza degli invasori i quali cominciavano ad averne abbastanza di quelle puzzolenti e buie cloache. Per alcuni momenti si udirono i due molossi ringhiare spaventosamente, facendo echeggiare la volta della galleria di strani fragori, poi seguì un breve silenzio. «In guardia» disse Yanez. «I cani devono essere giunti».
In quel momento urla orribili ruppero il silenzio, seguite da numerosi colpi di pistola. Doveva essere stata impegnata la battaglia fra i figli delle altissime montagne del Tibet e i misteriosi individui.
«Accorriamo in aiuto dei nostri cani!…» gridò il portoghese, niente affatto impressionato da tutti quei colpi di pistola, che continuavano a seguirsi. Il baniano si era rimesso in testa al drappello, senza portare la lanterna. Conosceva la via lui, conosceva tutti i passaggi, ed i suoi occhi vedevano meglio fra le pesanti tenebre che in mezzo alla luce. Aveva però impugnate anche lui le sue armi da fuoco e doveva essere un tale uomo da sapersene servire alla prima occasione. La galleria continuava a distendersi, sempre eguale, interrotta solo da piccoli vani pieni di sabbia sottilissima, portata là chissà da quanti anni.
La lotta pareva che fosse cessata, poiché non si udivano più i mugolii feroci dei molossi, né grida umane, né colpi d’arma da fuoco.
Yanez, che se aveva coraggio da vendere a tutti gli indiani della gigantesca e meravigliosa penisola, era però altrettanto prudente, si era nuovamente arrestato in preda ad una certa ansietà. «Che i due molossi siano stati uccisi?» si domandò, guardando Tremal-Naik.
«Feriti forse, uccisi no» rispose l’indiano. «Sono animali troppo robusti per cadere sotto i colpi di alcune pistolettate». «Eppure non si odono più».
«V’ingannate, signor Yanez» disse Kammamuri. «Mi pare di udirli giungere e di gran corsa». «Allora, sotto».
Avevano percorsi cinquanta o sessanta metri, quando si videro piombare addosso i due molossi.
La luce di tutte le lampade fu proiettata verso di loro, e con grande stupore di tutti fu constatato che quei cani, così poderosi e così feroci, apparivano in preda ad un vero spavento. Nel medesimo tempo un odore sgradevolissimo colpiva i nasi del drappello, il quale si vide costretto ad allontanarsi un po’ dalle due brave bestie che si erano accovacciate al suolo col pelame irto, ondeggiando rabbiosamente le code.
«Ehi, baniano», disse Yanez, «hanno profumato i nostri cani, a quanto pare, e con un certo profumo che non vorrei portare alla reggia».
«Ah!… i birbanti!…» esclamò il cacciatore di topi. «Hanno gettato addosso a queste bestie qualche secchia di muschio. Voi sapete, Altezza, che tutti i cani provano un grande spavento per gli alligatori ed i coccodrilli».
«Eh, per Giove, se lo so!…» esclamò Yanez, il quale cominciava a perdere la sua solita flemma. «Ora comprendo perché sono fuggiti. Credevano di trovarsi di fronte a quei giganteschi rettili che sono sempre così furibondi per mangiare i fedeli amici degli uomini invece di una turba di canaglie».
«Le canaglie non sono mancate, amico» disse Tremal-Naik. «Sono state solamente più furbe di noi». «Come possedevano del muschio quei vagabondi? Dove vanno a prenderlo?»
«Sai tu che mestiere faccia quella gente? Se si dedicasse alla caccia dei coccodrilli? Tutto è possibile. Tu, baniano, che cosa dici?»
«Che i cani non entreranno certamente dentro gli ultimi rifugi, per paura di trovarsi alle prese con dei rettili, ma che fra poco ci saremo noi». «Hai mai sentito odore di muschio?» «No, Altezza». «Che possano essere cacciatori di coccodrilli?»
«Può darsi, signore. Qualche mestiere lo eserciteranno per guadagnarsi almeno da vivere, poiché in queste cloache non spuntano i banani». «E mi assicuri sempre che non potranno sfuggirci?»
«Assolutamente, Altezza. Ora si aggirano fra le rotonde che sono state costruite sull’immensa arcata del canale, per sfogare meglio l’acqua durante i grossi uragani. Sono chiusi dentro come in tante trappole che hanno le pareti e volte di pietra. Nulla potranno tentare, nemmeno con una bomba».
«Che il diavolo ti porti!…» gridò Yanez. «Nessuno di noi pensava alle bombe, ed ora ci hai messo dinanzi agli occhi questo nuovo spauracchio!… Bell’affare, se qualche ordigno infernale scoppiasse sopra le nostre teste».
«Non credo che ne posseggano, Altezza. Per me non sono che dei poveri diavoli, sia pure cospiratori, malamente armati». «Si muovono i cani, Kammamuri?» «No, signor Yanez». «Sono proprio spaventati?» «È una cosa incredibile». «Hai guardato se hanno delle ferite d’armi da fuoco o da taglio?» «Nessuna, signor Yanez».
«Ed allora andiamo avanti noi, o finiremo, a furia di chiacchierare, di diventare tanti pappagalli. È però vero che quei bricconi sono chiusi entro le trappole».
Ripresero le lanterne e si rimisero in marcia, senza troppo affrettarsi, non desiderando prendersi una improvvisa scarica di pistoloni.
I cani erano rimasti accovacciati, cogli orecchi e la coda bassa, come se fossero in preda ad un grande avvilimento. A tutte le parole del maharatto erano rimasti assolutamente sordi, come se non riconoscessero più la sua voce. Per altri venti o trenta minuti il drappello continuò ad avanzarsi, percorrendo sempre quella galleria che pareva interminabile, poi cominciarono le fermate. Da una parte e dall’altra delle pareti si aprivano dei larghi buchi, i quali pareva dovessero mettere entro ben nascosti rifugi.
«Siamo giunti sul campo di battaglia» disse Yanez. «Quei bricconi forse stanno osservandoci».
«Facciamo visitare prima di tutto queste celle che possono nascondere delle persone» disse Tremal-Naik. «A voi sikkari, e se fanno fuoco rispondete subito».
I sei cacciatori, preceduti sempre dal baniano, si slanciarono verso quelle aperture, chi a destra e chi a sinistra, mettendosi a strisciare sul ventre. Avevano lasciate le carabine, troppo imbarazzanti, ed avevano impugnate le pistole. La loro assenza fu brevissima. Yanez ed i suoi compagni li videro uscire ad uno ad uno con aria piuttosto mortificata e brontolando forte. Quei bravi erano ben pronti alla battaglia.
«Nulla?» chiese il portoghese, il quale cominciava a perdere la sua flemma eccezionale.
«Io ho trovato dei topi già spelati ed una mezza coda di coccodrillo» disse un sikkaro.
«Io», disse un secondo, «non ho trovato che dei vecchi tappeti e delle pentole di ferro collocate su due sassi e pronte a bollire, perché la legna non mancava». «Allora sono scappati» disse Yanez, facendo un gesto di stizza.
«Ma no, Altezza» disse il baniano. «Io conosco quelle celle e so che non hanno uscite. Vi posso però assicurare che il nemico non è lontano». «Stringiamolo da presso». «Io sono pronto, signore». «Ed anche noi» risposero gli sikkari, riprendendo le loro carabine.
«E quei poltroni di cani che non ci hanno seguiti!…» gridò Kammamuri, sbattendo contro le pareti le catenelle d’acciaio. «Si direbbe che sono stati stregati!…»
«Silenzio, sahib» disse il baniano. «Gli uomini misteriosi tornano a fischiare ed i suoni sono molto vicini a noi. Là, di fronte a noi, a trenta passi di distanza, si trova una gran cavità con un’apertura ampia, tale da permettere un furioso assalto». «Quante persone può contenere quella caverna?» chiese Yanez. «Anche cinquanta». «Per Giove!… Non hai mica detto dieci o dodici!… Ah!… Ora la vedremo!…»
Sputò via il pezzo di sigaretta spento, imbracciò la carabina e si avanzò intrepidamente, gridando a gran voce:
«Siete presi!… O vi arrendete a me, che sono il maharajah dell’Assam, o vi faccio sbranare dai miei cani». Un grande scoppio di risa fu la risposta.
«Canaglie!…» urlò il portoghese, che cominciava a scaldarsi. «Ne abbiamo degli altri molossi. E poi abbiamo queste…»
Una fragorosa detonazione scosse la galleria, facendola tremare come sotto una scossa di terremoto. Yanez aveva mitragliato gli indiani che si permettevano di deriderlo. Subito fu la volta di Tremal-Naik, poi di Kammamuri. Gli sikkari erano rimasti di guardia, pronti alla riscossa. Verso l’estremità della galleria si udirono delle grida soffocate, poi qualche colpo di pistola che fece più rumore che danno.
«Olà, furfanti!…» gridò Yanez, riprendendo la carabina che Kammamuri gli aveva subito caricata. «Io vi ho detto chi sono. Chi siete voi che invadete il sottosuolo della mia capitale senza mio permesso? Non dimenticatevi che la rhani ha conservato sempre in carica il gran carnefice. Giù le armi ed arrendetevi. Io voglio vedervi in viso». Vi fu un breve silenzio, poi una voce assai vicina, rispose: «Noi non siamo che dei paria che non hanno né tetto, né patria, né da vivere».
«Cedete le armi ed avrete da mangiare fino a scoppiare. Sbrigatevi, perché la mia pazienza è tutta esaurita, ed i miei soldati sono pronti a massacrarvi dentro il vostro rifugio». «E una volta gettate le armi?» chiese il paria. «Non ci ammazzerete più?»
«Ti dò la mia parola di principe che non verrà fatto alcun male a voi, salvo forse a uno che deve trovarsi nella vostra compagnia». «Ditemi il nome di quell’uomo». Yanez scattò.
«Sei perduto, hai cinquanta carabine dinanzi a te, e una dozzina di molossi, e tratti con me da pari a pari? Il nome lo saprai quando avrò messo le mani su quell’uomo». «Aspettate che interroghi i miei compagni, principe».
«Ti accordo cinque soli minuti, poi monteremo all’assalto e la mitraglia parlerà. È inutile che cerchiate di fuggire. Conosciamo anche noi tutti i canali e tutti i rifugi delle cloache e non guadagnereste niente».
«Quell’uomo che si cerca è un paria?» chiese lo sconosciuto, il quale si guardava bene dall’accostarsi alle lanterne che erano state deposte al suolo in modo da formare un semicerchio.
«Te lo dirò più tardi, signor curioso» rispose Yanez. «Ti avverto intanto che sono già trascorsi venti secondi e che cinque minuti non sono lunghi. Va’, e sbrìgati».
Dentro il rifugio si udirono i fuggiaschi parlare. Non alzavano certamente la voce, ma le volte erano sempre sonorissime e ripercuotevano i più lievi rumori.
«Credi tu che si arrendano?» chiese il portoghese al cacciatore di topi, il quale gli stava a fianco, appoggiato sulla carabina. «Sì, Altezza, perché non hanno nessun canale o galleria per sfuggirci». «Credi che siano molti?»
«Certamente ben più numerosi di noi, ma i paria non hanno avuto mai un lampo di coraggio».
«Tuttavia stiamo in guardia» disse Tremal-Naik. «Li faremo sfilare uno per uno dinanzi a noi, e se fra loro, come spero, trovo l’avvelenatore dei tuoi ministri, lo afferro pel collo e ben stretto». «Tu sapresti riconoscere quel misterioso bramino?» «E senza esitare». «Ed anch’io» disse Yanez. «Quel briccone non ci scapperà».
Dovendo attendere ancora quattro minuti, accese una sigaretta, ed avendo trovata una grossa pietra, caduta probabilmente dalla volta, si era seduto dando però segni d’impazienza.
Gli sikkari, Tremal-Naik e Kammamuri, da veri indiani, conservavano una tranquillità assoluta.
Non avevano nessuna fretta loro, e tanto meno il cacciatore di topi, abituato ad attendere gli abitanti a quattro gambe delle fogne per delle ore e delle ore, ed immerso nella più profonda oscurità.
Yanez aveva già fin da prima levato il suo cronometro d’oro e guardava le lancette, contando i secondi e minuti primi. Brontolava il bravo portoghese e fumava come una torpediniera, ottenebrando talvolta la luce delle lanterne.
I cinque minuti stavano per scoccare, quando la voce di prima ruppe il silenzio che regnava nella galleria: «I miei uomini hanno deciso».
«Finalmente!…» gridò il portoghese, gettando via precipitosamente la sigaretta, ed imbracciando la fida carabina. «Che cosa hanno deciso adunque?»
«Di arrendersi al maharajah, purché prometta di non farci fucilare od affogare nel fiume nero». «In quanti siete, innanzi tutto?» «Trentacinque». «Tutti paria?» «Sì, principe».
«Vi prometto salva la vita. Sfilerete uno alla volta, dinanzi a noi, in mezzo alla luce delle lanterne. Non pensate ad una fuga attraverso noi, perché siamo in buon numero ed abbiamo tante armi da distruggervi tutti. Voglio ora sapere che mestiere esercitate».
«Siamo poveri cacciatori di coccodrilli, mi pare di avervelo detto. Andiamo a pescarli nella laguna di Monor che ne è sempre piena». «Va bene: ora avanzatevi, uno alla volta, tenendo le armi in alto». Poi volgendosi rapidamente verso Tremal-Naik e a Kammamuri, disse loro:
«Contateli attentamente: devono essere trentacinque, ma io credo che siano in trentasei invece. Tre sikkari a destra, tre a sinistra con le lanterne alzate e le pistole armate. Per ora lasciate in pace le carabine». «Ed osserviamoli attentamente quei bricconi» disse il maharatto. In quel momento si udì una voce gridare: «Non fate fuoco: sono il primo».
Un’ombra non tardò a mostrarsi, prendendo ben presto consistenza, e si espose alla luce delle dieci lanterne.
Era un giovane indù, assai sparuto ed assai magro, che aveva i fianchi coperti da uno straccio d’un colore indefinibile e che puzzava orribilmente di muschio. Nella mano destra, bene alzata, teneva un coltellaccio a lama quadrata, arma usata dai cacciatori di coccodrilli e di gaviali, e che lasciò cadere ai piedi di Yanez con gran fracasso, facendo rimbalzare due o tre volte la lama che doveva essere di purissimo acciaio.
«Passa», gli disse il portoghese, dopo di averlo osservato attentamente «e non fermarti nelle cloache se ti è cara la vita». Il paria s’inchinò fino quasi a terra e si allontanò strisciando i piedi. Un altro subito gli successe, poi altri ed altri ancora, quali armati di vecchie pistole che scaricavano in aria prima di consegnarle, quali di armi bianche di tutte le forme e di tutte le dimensioni. Erano quasi tutti giovani quei senza patria e senza tetto, e non troppo bene in carne, malgrado gli indiani siano ghiotti, al pari dei vicini birmani ed arracanesi, delle code dei rettili delle paludi.
«Io sono l’ultimo» disse finalmente un uomo che pareva scortasse quella piccola tribù e che era assai barbuto. «Dietro di me non vi è più nessuno». Yanez fu pronto a fermarlo. «Dici il vero tu?» gli chiese, puntandogli contro una pistola. «Sì, principe: lo giuro su tutti i cateri del nostro paese».
«Lascia stare per ora quei giganti che probabilmente non sono esistiti che nelle vostre fantasie, e dimmi in quanti eravate». «Il numero vi è stato gridato». «Allora qualcuno è rimasto nascosto nel rifugio» disse Yanez. «È impossibile, principe. Io sono stato l’ultimo a uscire».
«Eppure non sono passate che trentaquattro persone, mentre dovevano essere trentacinque».
«Forse avrete contato male, principe» disse il paria, con voce assolutamente tranquilla.
«Erano solamente trentaquattro» confermò Tremal-Naik, intervenendo. «Io ho contato esattamente, ed al pari di me gli sikkari». «Non so nulla: dovete esservi ingannati tutti».
«Kammamuri», disse Yanez, «trattieni quest’uomo fino a che io e Tremal-Naik andiamo a fare una visita al rifugio. Questi birbanti cercano d’ingannarci, ma noi non siamo veramente degli sciocchi. Tieni raccolti i cacciatori, e se vi è qualche minaccia non fare economia di mitraglia. Baniano, guidami».
«Sono ai vostri ordini, Altezza» rispose il cacciatore di topi. «Vedrete che il paria che manca, in qualche luogo lo scoveremo».
«Se non ha osato passarci dinanzi, quell’uomo deve avere la coscienza assai lorda» disse Tremal-Naik.
«Una coscienza carica di veleno» disse Yanez. «Il furfante questa volta non ci sfuggirà più».
Aspettarono che Kammamuri avesse incatenato il paria, il quale d’altronde non aveva cercato di opporre la menoma resistenza, poi si spinsero decisamente innanzi, tenendo ben alte le lanterne, non fidandosi affatto di quelle tenebre troppo propizie per gli agguati. Fu una marcia di appena un minuto, poi i tre uomini si trovarono dinanzi ad una vasta apertura semicircolare così alta da potervi passare anche un elefante.
«È questo l’ultimo rifugio della banchina che abbiamo percorsa?» domandò Yanez. «Sì, Altezza». «Andiamo un po’ a vedere se qualcuno si è dimenticato di uscire».
Passò sotto l’arcata e si trovò entro una specie di sala circolare, che aveva numerosi buchi alle pareti e molta sabbia per terra. Anche cinquanta persone avrebbero potuto rifugiarsi comodamente là dentro e non trovarsi nemmeno male, poiché non si udiva nessun sgocciolio.
«Una cantina sanissima che nemmeno io posseggo» disse Yanez. «Fra questa sabbia fine la birra si conserverebbe meravigliosamente per mesi e mesi, senza sentire i morsi del caldo».
«Una birra atrocemente profumata, Yanez» disse Tremal-Naik. «Qui tutto sa di caimano».
«Mi sono quasi ormai abituato a quello sgradevole odore. Ah!… Ah!… Vedo là un mucchio di vecchi tappeti che potrebbe nascondere qualche persona». «Anche due, amico. Non si accontentavano della sabbia i paria per riposarsi».
Il baniano, dopo aver lanciato un rapido sguardo intorno e di essersi messo in ascolto, depose la lanterna e cominciò a gettare da parte tutti quei tappeti impregnati di muschio, sbrindellati e pieni di buchi. Non venivano certamente dalle celebri fabbriche del Pendjab o del Caschmir.
«Fruga, fruga senza paura» diceva Yanez. «Abbiamo le pistole in mano e qui ci si vede abbastanza».
Il cacciatore di topi continuava a far volare tappeti ed anche stracci, sudando e sbuffando, e facendo di frequente dei salti indietro come se temesse di venire improvvisamente assalito da qualche gigantesco serpente pitone o da qualche velenosissimo cobra.
Aveva già quasi sbarazzato il suolo, quando sotto i tre o quattro ultimi tappeti scorse un rigonfiamento sospetto.
«Altezza» disse tirandosi da una parte per non prendersi qualche pistolettata. «L’uomo che mancava è qui sotto: l’odo respirare».
«Lascia fare a me, Yanez» disse Tremal-Naik, arrestando prontamente il portoghese. «Io non ho moglie». «Hai una figlia: Darma». «È lontana».
Il coraggioso indiano fece volare rapidamente in aria i tre ultimi tappeti e mise allo scoperto un uomo il quale stava tutto rannicchiato su se stesso e che, particolare gravissimo, indossava la lunga veste gialla dei bramini.
Yanez guardò bene se stringeva fra le dita qualche pistola, poi vedendo che non si decideva ad alzarsi, gli disse: «Aspetti che Visnù ti allunghi una mano?» L’uomo non si mosse e si mantenne più rannicchiato che mai.
«Sei diventato sordo? Eppure nessun fulmine è scoppiato qui dentro» continuò Yanez, colla sua solita voce beffarda.
«T’inganni, amico «disse Tremal-Naik. «Non aspetta che un poderoso calcio per mostrare il suo viso». «Allora sono pronto a darglielo e sarà ben forte. Non vorrei prendermelo».
Stava per allungare una gamba, quando il bramino scattò in piedi coll’agilità d’una tigre, dardeggiando sui tre uomini degli sguardi fosforescenti.
A giudicarlo di primo acchito non doveva avere più di trent’anni. Aveva i lineamenti piuttosto angolosi, la fronte bassa come l’hanno tutti i paria dell’India, quei maledetti, senza colpa e senza peccato, da tutte le divinità. Yanez mandò subito un gran grido:
«Ti ho riconosciuto, mio caro!… Ah!… Tu volevi che ti cedessi delle miniere, non so più se di rubini o di smeraldi, ed intanto avvelenavi i miei ministri, è vero?»
Il bramino, o meglio il falso bramino, poiché tutti i sacerdoti indiani hanno i lineamenti puri delle alte caste, strinse i denti e le labbra senza mandare fuori alcun suono.
«Corpo di Giove!…» gridò Yanez. «Ora è Siva che gli ha paralizzata d’un colpo la lingua. Siccome però noi siamo in ottima relazione con tutte le divinità indù, penseremo a fargliela snodare e ben presto».
Il paria corrugò la fronte, dai suoi occhi nerissimi saettò due lampi pregni d’odio, ma come prima non rispose.
«Qui ci vuole Kammamuri» disse Tremal-Naik. «Solamente lui è famoso per far parlare i prigionieri». «E allora portiamolo via».
Stava per avvicinarsi al paria, il quale dimostrava una calma assoluta, quando si sentì respingere violentemente indietro, mentre Tremal-Naik gridava: «Guàrdati!… Il minute-snake!…»
La veste del falso bramino si era improvvisamente aperta, ed un serpentello, che fino allora doveva aver tenuto nascosto nel petto, non più lungo di venti centimetri, sottile come un cannello, colla pelle nera interrotta da macchie gialle assai brillanti, si era slanciato verso il portoghese mandando un acuto sibilo. Sul suo salto però aveva trovato Tremal-Naik, il vecchio “Cacciatore di Serpenti della Jungla Nera”.
Risuonò uno sparo ed il terribile serpentello, che in novanta secondi manda all’altro mondo perfino delle vacche, era caduto al suolo come uno straccio. Solamente la polvere, che l’aveva investito a bruciapelo, l’aveva ucciso. Il baniano, però, per maggior precauzione si era affrettato a rompergli la spina dorsale con un poderoso calcio.
«Ah!… Bandito!…» gridò il portoghese, il quale era diventato assai pallido. «Anche i serpenti porti tu indosso? Chi sei? Un incantatore?» Il paria si accontentò di alzare le spalle.
«Canaglia» riprese il portoghese, minacciandolo colla pistola. «Meriteresti che io ti bruciassi le cervella, e non saresti a quest’ora più vivo se non mi premesse avere da te delle notizie che m’interessano. Leva il vestito e mòstrati nudo».
«Non ho serpenti indosso» disse il paria. «Non so come si trovasse nascosto quello snake e come mi abbia risparmiato». «Giù, giù, cane!… Basta tradimenti!…»
Il paria, vedendo i tre uomini avanzarsi minacciosi, colle armi in pugno, dopo una breve esitazione aprì la lunga sottana, facendo saltare per l’ira non pochi bottoni, e si mostrò nudo.
«Come avevi quel rettile?» chiese Yanez, facendogli cenno di ricoprirsi. «Sei uno sapwallah?» «No, sono un bramino» rispose il prigioniero.
«Che ha ricevuto l’incarico di avvelenare i miei ministri e possibilmente anche me. Per conto di quale setta segreta agisci tu?» «Io non ho avuto nessun incarico da chicchessia, Altezza».
«O hai cercato di vendicarti perché non ti ho ceduto le miniere di pietre preziose?»
«Non so di che cosa voi parliate, Altezza. Un bramino non può possedere miniere».
«Tu sei un bramino quanto lo sono io» disse Tremal-Naik. «Hai sul tuo viso le stigmate indelebili dei paria».
«V’ingannate tutti» disse il prigioniero. «Voi mi scambiate con qualche altro».
«Come, furfante!… Negheresti di essere stato da me, nel mio palazzo, due giorni fa?» gridò Yanez. «Io non ho mai osato varcare le soglie della reggia».
«Ti abbiamo ben riconosciuto, brutto marabù, e vi sarà anche un’altra persona che fra poco ti riconoscerà. Hai finito coi tuoi bottoni?» «Sì, Altezza».
Il baniano e Tremal-Naik lo afferrarono subito saldamente pei polsi trascinandolo verso la galleria.
«Che cosa volete fare di me?» gridava il paria, tentando di ribellarsi. «Pensate che io sono un bramino, e che come tale nessuno mi può toccare, nemmeno un re».
«Io non sono indiano e perciò me ne infischio di tutte le spaventevoli pene che le vostre divinità hanno inventato a vostro esclusivo beneficio. Ma sì!… Passerò dopo morto nel corpo d’uno scarabeo per poi tramutarmi chissà in quale bestia schifosa: una pulce od un pidocchio. Ah, mio caro!… Me ne rido io di Brahma, di Siva, di Visnù, di Parvati, la tetra dea della morte, ed anche della sanguinaria Kalì! Io non ho che un Dio solo, che non ha nulla a che fare coi vostri».
«Navigherete per diecimila anni nel mar di latte, invece di diventare una scimmia o qualche cosa di peggio. Noi bramini possiamo condannare ed assolvere».
«Condanna pure, carica secoli e secoli» disse Yanez, spingendolo perché vedeva che cercava di opporre resistenza. «Saremo noi, furfante, che ti condanneremo». «Nessuno lo oserebbe: sono un bramino».
«Sei un mascalzone che devi far parte di qualche banda di briganti o di cospiratori organizzati da quel pazzo di Sindhia».
Udendo quel nome il paria si era arrestato di colpo volgendosi verso il portoghese che cercava di spingerlo. «Sindhia» disse. «Chi è costui?»
«Pezzo d’asino», disse Tremal-Naik, «era il maharajah che regnava prima sull’Assam. Lo sanno anche le piante e tu, uomo istruito, fingi d’ignorarlo? Non imparano i bramini la storia del proprio paese?»
«Hanno troppo da pregare» rispose seccamente il prigioniero. «Noi non abbiamo da fare che cogli dèi, e non coi re, che nulla possono su di noi».
«Aspetta un po’ e vedrai se io potrò qualche cosa» disse Yanez. «Orsù, marcia, o ti pesto le costole col calcio della mia carabina sfidando tutte le tue divinità a ripararti dai colpi».
Si cominciavano a vedere le lampade degli sikkari e di Kammamuri, i quali non avevano abbandonato il posto per tema che i paria facessero un dietro fronte e tentassero qualche attacco.
Il bramino, vistosi ormai perduto, ed avendo ben poca fiducia sulle tre grandi divinità dell’India, si era messo a camminare speditamente, forse colla speranza di raggiungere i suoi compagni. Con non poco suo stupore, Yanez trovò i due molossi sdraiati ai piedi di Kammamuri ed abbastanza tranquilli.
«Possiamo contare ancora su di loro» disse il maharatto. «Non hanno più paura dei coccodrilli».
«Lascia andare i cani e guarda attentamente quest’uomo» disse il portoghese, spingendogli contro il prigioniero. «Guarda bene».
«Per la trimurti indiana!…» esclamò il maharatto, il quale aveva alzata la lanterna. «Mi domandate se lo riconosco, signor Yanez?»
«Precisamente: io e Tremal-Naik non abbiamo ormai più alcun dubbio sul suo conto».
«Questo, signore, è il bramino, vero o falso, che si è introdotto nel palazzo reale. Me lo ricordo benissimo. Oh!… Quegli occhi non si scordano facilmente». «Occhi da incantatore di serpenti, è vero, Kammamuri?» «Sì, di sapwallah. Sono sorpreso di non vedergli indosso il tomril». (Il flauto degli incantatori di rettili).
«Questo briccone non ne ha bisogno, te lo dico io. Maneggia quei terribili rettili con una facilità straordinaria, e ne abbiamo avuta la prova, è vero, Tremal-Naik?»
«Un momento di esitazione e non so se la bella Surama avrebbe ancora vivo il suo sposo» rispose l’indiano. «E questa canaglia vive ancora?»
«Anzi, non abbiamo affatto fretta di fargli fare il grande viaggio» disse Yanez. «Tu sai già il perché». «Ho capito, signore». «Ti avverto che quest’uomo ama poco parlare».
«Ci penserò io a questo. Forse che non sono un maharatto e nei dintorni della città non ci sono più arghilah?» Il portoghese lo guardò con una certa sorpresa.
«Vedrete, padrone, che quei brutti uccellacci rognosi mi serviranno assai per far cantare questo bramino».
«Vedremo. Orsù, torniamo al palazzo. Surama sarà assai inquieta ed io lo sono pure. Temo sempre qualche nuovo tradimento».
Con una catenella d’acciaio dei cani legarono le mani dietro al dorso al prigioniero, e dopo averlo messo, per maggior precauzione, in mezzo agli sikkari, ripresero la via del ritorno per riattraversare il puzzolente fiume nero. I due molossi, che avevano ripreso animo, precedevano il drappello, brontolando e fiutando continuamente l’aria.
Dei paria lasciati liberi non vi era nessuna traccia, Stimandosi troppo fortunati di aver salvata la pelle così a buon mercato: dovevano essersi allontanati a passo di corsa, ansiosi di lasciare le cloache. Anche il drappello si era messo a marciare assai rapidamente, osservando da tutte le parti, quantunque nessuno credesse che i fuggiaschi potessero ritornare sulle loro orme, ora che non avevano più armi e che erano stati privati del loro capo.
Dopo venti buoni minuti, giunsero là dove il baniano aveva gettato, attraverso il fiume puzzolente, la scala.
Un urlo di furore uscì da tutti i petti. I paria, nella loro ritirata, avevano portata via la scala, gettandola sull’opposta banchina.
«Corpo di Giove!…» esclamò Yanez. «Ci hanno tagliata la ritirata!… Chi oserà slanciarsi in mezzo a quelle sabbie traditrici ed avvelenate da chissà quali miasmi? Tu, cacciatore di topi, non ti sei mai sentito in grado di guadagnare l’altra riva?»
«Non mi ci sono mai provato, Altezza» rispose il baniano, «perché ero sicuro di non tornare mai più a galla. Tuttavia non preoccupatevi: anche questa banchina ha dei passaggi che sbucano nei dintorni della moschea».
«Quelle canaglie ci hanno giuocati per bene» disse Tremal-Naik. «Quasi sospettavo un simile tradimento».
Persuasi che la scala nessuno sarebbe andato a ritirarla, dopo una breve sosta ripresero la marcia sulla larga banchina costeggiante il fiume nero. Il cacciatore di topi si era messo nuovamente in testa al drappello, ed allungava il passo come se temesse qualche nuovo pericolo. Infatti, di quando in quando si arrestava e, dopo d’aver osservate le muraglie e le volte, era stato sorpreso a far dei gesti d’inquietudine.
Eppure i due molossi procedevano tranquilli, senza mostrarsi irritati, nemmeno per la presenza del paria o bramino che fosse.
Quella seconda corsa durò un’altra mezz’ora, poi il cacciatore di topi si arrestò dinanzi ad un’arcata, mandando un grido di disperazione. «Corpo di Giove!…» esclamò Yanez. «Tu continui a spaventarmi»
«Il passaggio è stato rovinato e da questa parte non è più possibile uscire, Altezza» rispose il baniano.
«Rovinato? E da quando! Noi non abbiamo udito alcun fragore di massi precipitanti dall’alto».
«Forse da vari giorni per impedire ai vostri rajaputi di tentare qualche escursione». «E non esistono altri passaggi?»
«Sì, sull’altra banchina però. Ve n’è uno anche qui, stretto come la cappa d’un camino, che sbocca a fior di terra e che è chiuso da una robusta inferriata di bronzo che nessuno di noi potrebbe rompere. Ho trovato un giorno, colla testa cacciata entro le sbarre, un giovane indiano, il quale doveva essersi smarrito per morire poi di fame poiché nessuno, a quanto pare, ha udito le sue grida strazianti ed i suoi ultimi rantoli».
«Sicché noi siamo come sepolti vivi» disse Tremal-Naik. «Tu conosci queste cloache: cerca nella tua memoria se hai veduta qualche altra uscita». Il baniano scosse il capo con un gesto desolato.