Kitabı oku: «Il brick maledetto», sayfa 4
A mezzodì il capitano constatò con una certa angoscia che l’Estrella in quel momento navigava nelle acque dove era stato sepolto il povero John.
Non disse nulla a nessuno. Il suo equipaggio era perfino troppo impressionato per spaventarlo maggiormente.
Il delirio di Harry durò quattro giorni, poi egli lasciò l’infermeria.
Non era più il medesimo uomo di prima. Pareva che fosse invecchiato di dieci anni ed i suoi capelli, che cinque giorni prima erano neri come l’ala d’un corvo, erano diventati quasi bianchi.
Non parlava più con nessuno, nemmeno col capitano, che cercava anzi di evitare. Pareva che fosse in preda ad una profonda preoccupazione e passava delle ore intere curvo sulla murata prodiera, con gli sguardi fissi nelle profondità del mare. Si sarebbe detto che cercava in fondo agli abissi misteriosi dell’Atlantico lo scheletro del suo amico d’infanzia.
Quella tristezza aumentava di giorno in giorno, tanto che il capitano era diventato inquieto. Si provò a interrogarlo, il gallese lo ascoltò, e lo guardò senza nulla rispondere.
Quindici giorni dopo l’Estrella gettava le ancore a Rio Janeiro, dovendo sbarcare colà il suo carico di vino portoghese.
Fu proposto ad Harry di sbarcare per farlo curare in qualche ospedale; si rifiutò energicamente. D’altronde nessuno poteva lamentarsi di lui.
Era triste, era cupo, ma sempre lavoratore, quindi non vi era alcun motivo di costringerlo a lasciare il brick.
Fatto un carico di zucchero, l’Estrella riprese il mare per far ritorno in Europa. Harry non aveva cambiato umore, anzi era diventato più taciturno e nei suoi sguardi, sempre dilatati, come se fosse in preda ad un continuo terrore, brillava come un lampo di follìa.
Spinta da buoni venti, l’Estrella si trovò un giorno nei paraggi dove John era stato gettato in mare. Cosa strana! Da quella sera i marinai riudirono o parve loro di udire quel passo pesante che di notte faceva scricchiolare la tavole della corsia.
Doveva udirlo anche Harry, perchè quando era di guardia si collocava presso il boccaporto maestro e pareva che ascoltasse attentamente.
Due notti dopo, un uragano scoppiò sull’Atlantico. Le onde erano diventate minacciosissime e folate furiose di vento investivano l’alberatura ed i cordami con lugubri sibili.
Harry era di guardia sul ponte, sul tribordo di prua.
Verso la mezzanotte fu veduto lasciare il suo posto e attraversare lentamente il ponte. Camminava come un ubbriaco e dalle labbra gli sfuggivano parole sconnesse.
S’accostò al capitano che stava accanto alla ruota del timone, chiedendogli bruscamente:
– È qui che avete gettato in acqua John?
– Perché lo volete sapere? – chiese il capitano, impressionato da quella domanda.
– Rispondetemi, ve ne prego – disse il gallese.
– Sì.
– Me l’ero immaginato : grazie.
Ritornò a prua e vi rimase qualche ora ancora, poi approfittando del momento in cui i marinai erano occupati a prendere terzaruoli sulle vele basse, salì la grisella di tribordo issandosi sull’alberetto di trinchetto.
Quando i suoi camerati s’accorsero della sua scomparsa era troppo tardi.
Un grido squarciò l’aria:
– Vengo, John!
Poi fu veduto il corpo del gallese staccarsi dall’albero, roteare tre o quattro volte su se stesso, poi piombare in mare, sollevando un gran fiotto di spuma.
Il disgraziato era andato a raggiungere il suo compagno di infanzia.
COME MORÌ IL CAPITANO BESSON
Racconto di EMILIO SALGARI
Nel 1827 gli Stati europei che avevano interessi commerciali nei mari di levante, preoccupati dagli attacchi che facevano i pirati greci, conosciuti sotto il nome di Panayoti, contro le navi che trafficavano colle città dell’Asia Minore e colle isole dell’Arcipelago, si erano accordati per inviare colà alcune navi, onde la sicurezza tornasse in quelle acque ed i velieri mercantili non corressero più il pericolo di venire catturati.
Già molti abbordaggi erano avvenuti e molte navi avevano dovuto lasciare il loro carico nelle mani di quei birbanti che, colla scusa di far la guerra ai Turchi, attaccavano ogni bandiera.
La corvetta francese Lauproie, dopo una crociera lunghissima, era riuscita finalmente a sorprendere sulle coste della Siria una nave corsara chiamata Nikta, montata da sessanta greci che già avevano molti delitti sulla coscienza.
Fu deciso di condurli senz’altro ad Alessandria e di farli giudicare dal Tribunale egiziano, ma due di loro essendo riusciti a provare, non si sa in qual modo, che non avevano preso parte a nessun fatto d’armi, furono trasbordati sulla nave francese Magienne, comandata dal capitano Besson, perchè li riconducesse in Grecia.
La Magienne si mise alla vela accompagnata anche dalla Lauproie. Non aveva a bordo che un equipaggio limitatissimo avendo dovuto lasciare parecchi marinai a guardia del Consolato di Smirne, minacciandosi in quei giorni gravi disordini contro i Maroniti, che si erano messi sotto il protettorato francese.
Nella notte del 4 novembre, una burrasca investe i due legni e li separa. La Magienne, che non aveva che quindici uomini d’equipaggio, impotente a tenere testa al mare, poggiò il più presto verso una delle isole dell’arcipelago greco, ma dopo poco il capitano Besson venne avvertito che i due prigionieri greci durante la notte si erano gettati in mare dopo avere spezzati i ferri.