Kitabı oku: «Il re del mare», sayfa 7
10. L’assalto al kampong
Nelle isole malesi e anche in quelle polinesiane, la prova del fuoco è molto in uso anche oggidì, ma non serve come da noi un tempo, per provare l’innocenza di qualcuno incolpato o d’un omicidio, o d’un furto, bensì come una cerimonia religiosa.
Ed infatti non sono che i sacerdoti che in certe epoche dell’anno, per propiziarsi le divinità più o meno celesti, fanno la passeggiata non già sui carboni accesi come i fanatici indiani, ma invece su pietre rese ardentissime.
Quella cerimonia si eseguisce per lo più su un piano di pietroni che misura ordinariamente tre metri di lunghezza e mezzo di larghezza.
I sacerdoti accendono i fuochi all’alba e li mantengono fino al pomeriggio; poi, accompagnati da alcuni discepoli, sbarazzano le ceneri ed i tizzoni, pronunciano alcune parole rituali che sono indispensabili secondo loro, battono con un ramo di dracina l’orlo del braciere, quindi s’avanzano sulle pietre a piedi nudi, attraversandole lentamente.
La lunghezza del passo non è indicata, ma si suppone che i piedi debbono toccare almeno tre volte e qualche volta anche di più.
Come fanno a resistere, e quello che è più, ad uscire incolumi da quella prova? Mistero!
Essi attribuiscono la loro invulnerabilità alla mana, un potere misterioso che permette agli iniziati di attraversare le pietre ardenti senza riportare alcuna scottatura, potere che non è riprodotto da alcun simbolo e che si può trasmettere semplicemente colla parola.
Comunque sia il fatto, si è che escono dalla terribile prova assolutamente incolumi.
Un viaggiatore europeo, il colonnello inglese Gudgeon, ha voluto alcuni anni or sono tentare anche lui la prova assieme ad alcuni compagni, in un’isola dell’Oceano Pacifico, durante una cerimonia religiosa, certo di non cavarsela senza dolorose scottature. Ebbene, lo credereste? Il coraggioso colonnello uscì dalla prova non meno illeso dei sacerdoti! Uno solo dei suoi compagni, che aveva pure ricevuto la mana, ossia quel potere misterioso che come dicemmo si trasmette colla parola, riportò delle bruciature non lievi, ma la colpa era stata tutta sua, secondo i sacerdoti.
Egli aveva avuto il torto di guardarsi indietro, cosa che è severamente vietata per chi ha ricevuto la mana, una scusa evidentemente trovata dai sacerdoti per salvare la dignità del rito.
Come il colonnello potè reggere la prova e attraversare quelle pietre, che ancora un’ora dopo compiuta la cerimonia erano così ardenti che gettatevi delle radici di ti presero subito fuoco? L’inglese non lo seppe mai dire.
Raccontò d’aver provato solamente un gran calore per tutto il corpo e qualche cosa ai piedi, come delle leggere scosse elettriche e nulla di più, scosse però che gli durarono per sette od otto ore di seguito. La pelle dei piedi invece non riportò alcuna scottatura.
Nella Nuova Zelanda le prove del fuoco sono invece più terribili e si dice che il dono di poter resistere è privilegio di soli membri di talune famiglie e di talune caste. Colà non si tratta di attraversare un semplice strato di pietre, bensì di passeggiare entro una specie di forno circolare, del diametro di una diecina di metri e di rimanervi venti o trenta secondi.
La temperatura che regna in quei forni è così elevata che una volta, un viaggiatore volendo misurarla, vide fondersi la cornice metallica del termometro e il mercurio salire tutto. E notate che la graduazione era di 200 gradi!
Come possono resistere quegli uomini salamandra? Anche questo è un mistero; eppure resistono ed escono da quella terribile prova perfettamente incolumi.
Non era quindi da meravigliarsi se anche il misterioso pellegrino della Mecca, che doveva essere nondimeno un uomo assolutamente straordinario, aveva potuto dare quella prova per fanatizzare vieppiù i suoi guerrieri piuttosto che impressionare Yanez ed i difensori del kampong, troppo furbi per cadere stupidamente nell’agguato e di offrire le loro teste ai kampilang di quei sanguinari selvaggi.
Lo sprezzo fatto dal portoghese, di pagare cioè il pellegrino come se si fosse trattato d’un istrione o d’un clown, doveva scatenare la collera, appena repressa, dei tagliatori di teste e rendere doppiamente furioso il pellegrino.
Ed infatti il parlamentario era appena tornato all’accampamento che un clamore spaventevole echeggiò intorno al kampong, clamore che pareva prodotto più da centinaia di belve feroci che da esseri umani.
– Eccoli diventati feroci come le scimmie rosse quando mangiano il pimento, – disse Yanez, ridendo. – Avremo una guerra senza quartiere. Bah! Ci difenderemo fino a che avremo una cartuccia o fino a che non ci sarà più un dayako vivo.
Poi alzando la voce gridò:
– Ragazzi miei, raggiungete i vostri posti e picchiate più sodo che potete. Non dimenticate che se cadete nelle mani di quei bruti la minor cosa che vi possa toccare è quella di perdere la testa sotto un colpo di kampilang.
Tigrotti di Mompracem, malesi e giavanesi si erano precipitati ai loro posti di combattimento, risoluti ad opporre la più accanita resistenza ed a bruciare perfino l’ultima cartuccia, poichè la prova del pellegrino non aveva scossa per nulla la loro fiducia.
Erano d’altronde sicuri di infliggere a quelle orde assai disordinate una tremenda lezione. Riparati dietro stecconate di legno del tek che potevano sfidare il fuoco dei lilà e anche dei mirim e tutti tiratori scelti, non temevano un attacco, specialmente sotto la direzione di Yanez che godeva non meno fama della formidabile ed invincibile Tigre della Malesia.
Tutti, senza contare i Tigrotti di Mompracem, erano stati scorridori del mare, l’unica professione proficua in quei paesi che quantunque ricchissimi non avevano, almeno allora, commercio alcuno.
Con quegli uomini, risoluti a vendere cara la pelle, sapendo che non avrebbero avuto quartiere, i dayaki dovevano avere un osso ben duro da rodere.
Vedendo gli assedianti radunarsi intorno alla tettoia del pellegrino, Tigrotti, malesi e giavanesi si erano affrettati ad occupare gli angoli della cinta da dove potevano spazzare colle spingarde la pianura.
Yanez e Tremal-Naik invece erano rimasti sul terrazzo sovrastante la saracinesca, certi che i dayaki avrebbero tentato verso quel punto il loro sforzo supremo.
Avevano messa in batteria la spingarda più grossa del kampong, servita da sei pirati di Mompracem e avevano mandato Sambigliong sulla torretta, il miglior punto per spazzare la pianura.
– Darma, – disse il portoghese, vedendo i dayaki formare le colonne d’assalto. – Questo non è il tuo posto, quantunque sappia che tu adoperi la carabina come un fuciliere di marina. Fra poco i lilà ed il mirim di quei bricconi lanceranno palle in abbondanza sulla cinta e non voglio che ti esponi ad un simile pericolo.
– Credete dunque che il pellegrino lancierà all’attacco i suoi uomini? – chiese la fanciulla.
– Vedi, ci sono a questo mondo degli uomini che non sanno essere riconoscenti.
– Non vi capisco, signor Yanez.
– Io ho pagato quell’uomo pel divertimento che ci ha offerto, con un anello che non valeva meno di mille fiorini nelle mani di un ebreo, ed ecco quel birbante che mi ricompensa con un attacco all’arma bianca. Vale la pena di essere generosi in questo mondaccio cane? Se io avessi dato un simile regalo ad un clown e ad un istrione del mio paese, sono certo che mi avrebbe portato sulle sue spalle perfino in Ispagna, magari sulla sierra Guadarrama. Che mondo furfante!…
– Ah! Signor Yanez! – esclamò Darma ridendo. – Voi scherzerete anche quando sarete lì lì per andarvene nel regno delle tenebre.
– Ridi! – disse il portoghese. – Hai del buon sangue fanciulla mia! Ridi mentre la morte ci minaccia tutti!
– Con voi e coi vostri Tigrotti non ho paura dei dayaki.
Un colpo di cannone interruppe il dialogo. Gli assedianti avevano fatto tuonare il loro mirim.
La palla passò, con un lungo sibilo, sopra le cinte e cadde dall’altra parte del kampong senza aver causato alcun danno.
– Bisogna rettificare la mira, miei cari, o non farete nulla, – disse Yanez.
– Presto Darma, ritirati, – disse Tremal-Naik. – Le palle non rispettano nessuno.
– Nemmeno le belle fanciulle, – aggiunse Yanez.
– E dovrò rimanere inoperosa mentre voi avete bisogno di gente? – chiese Darma.
– Se avremo bisogno d’una carabina di più ti chiameremo, – rispose Tremal-Naik. – Nelle stanze pianterrene del bengalow tu non correrai alcun pericolo.
Quattro colpi rimbombarono in quel momento, l’uno dietro l’altro. Dopo il mirim avevano fatto fuoco i piccoli lilà mandando le loro palle contro le grosse tavole della cinta.
– Va’, – ripetè Tremal-Naik, – non mi batterei bene se ti vedessi qui, esposta al tiro delle artiglierie. Va’, e bada che i forni delle cucine non si spengano.
– I forni? – domandò Yanez mentre Darma, baciato il padre, scendeva lestamente la scala. – Vuoi offrire una colazione agli assedianti?
– Sì, ma vedrai di che specie, – rispose l’indiano. – Un vero piatto infernale che li farà urlare come dannati. Eccoli che si muovono! A te la spingarda, Yanez, che sei un artigliere meraviglioso.
– Li mitraglierò per bene, – rispose il portoghese, gettando via la sigaretta e accostandosi alla bocca da fuoco, la cui canna lunghissima minacciava la pianura.
I dayaki che dovevano essere stati istruiti dal pellegrino, avevano formato quattro colonne d’assalto, di sessanta od ottanta uomini ciascuna e muovevano risolutamente verso il kampong, coprendosi coi loro immensi scudi quadrati, di pelle di tapiro o di bufalo, armati solamente di kampilang. Una quinta colonna, formata esclusivamente di moschettieri, erasi sparsa invece per la pianura, in catena, per appoggiare l’attacco, insieme ai lilà ed al mirim.
– Il pellegrino deve essere stato un soldato, – disse Yanez. – Tuttavia dubito che la sua tattica abbia buon successo. Quando i dayaki si slanceranno all’assalto romperanno le loro file. La disciplina militare non può aver fatto presa su questi guerrieri selvaggi. Musica, avanti!
I dayaki cominciavano a sparare violentemente. I colpi di cannone si alternavano con scariche nutrite di carabine, senza grande successo, poichè le grosse tavole di legno di tek delle cinte non erano facili a sfondarsi ed i difensori del kampong erano ben protetti dai parapetti.
Per di più gli alberi spinosi che si stendevano tutto all’intorno e che avevano rami e fronde fittissime, non permettevano ai fucilieri nemici di poterli mirare.
La spingarda collocata sulla piattaforma della torricella aveva tirato il primo colpo contro la colonna, che muoveva verso il punto dove si trovava la saracinesca e la sua palla, di buon calibro, lanciata da Sambigliong, che era un valente artigliere, non era andata perduta.
– La prima goccia di sangue è stata sparsa, – disse Yanez. – Speriamo che diventi un fiume.
Dai quattro angoli del kampong le tigri di Mompracem, a cui era stato affidato il servizio delle spingarde, si sparava con un crescendo assordante.
Non potendo quelle piccole bocche da fuoco controbattere il tiro dei lilà e soprattutto del mirim, sparavano contro le colonne d’assalto, con palle da una libbra, facendo dei larghi vuoti.
Le carabine indiane, maneggiate dai malesi e dai giavanesi della fattoria, tutte di tiro lunghissimo, appoggiavano vigorosamente il fuoco delle spingarde, mettendo a dura prova il coraggio degli assalitori.
Yanez non perdeva tempo. Sparava un colpo di carabina la cui palla abbatteva quasi sempre un uomo, poi balzava alla spingarda appena era stata ricaricata e prendeva d’infilata la colonna che s’avanzava verso la saracinesca, facendo dei tiri veramente meravigliosi, che stupivano lo stesso Tremal-Naik e che strappavano grida di entusiasmo ai malesi ed ai giavanesi del kampong.
I dayaki, che non si sentivano troppo sostenuti dalle loro artiglierie dirette da pessimi tiratori, nè dai loro fucilieri, più abili nel lanciare frecce che palle, cercavano di affrettare il passo, incoraggiandosi con urla ferocissime e coprendosi più che potevano coi loro scudi, come se non potessero venire attraversati dai proiettili delle carabine indiane degli assediati. Il fuoco del kampong, vigorosissimo, li decimava per bene. Le loro colonne soffrivano perdite immense e tuttavia non si scompaginavano ancora.
Quando però le spingarde cominciarono a scagliare addosso a loro nembi di mitraglia, coprendoli di chiodi e di frammenti di ferro, si videro oscillare e le linee si aprirono qua e là.
– Avanti! – gridava Yanez, che non si prendeva nemmeno la briga di ripararsi dietro il parapetto. – Date dentro e finiremo per mandarli a rotoli. Mitragliateti alle gambe!
Ed il fuoco aumentava sempre, coprendo le bande di una vera pioggia di piombo, di ferro e di chiodi.
Tigri di Mompracem, malesi e giavanesi gareggiavano in bravura ed in audacia, risoluti a non permettere ai dayaki di giungere sotto le cinte e di slanciarsi all’attacco.
Soprattutto le spingarde facevano delle vere stragi gettando a terra, ad ogni scarica di mitraglia, un buon numero d’uomini. Non producevano ferite mortali, è vero, ma mettevano i guerrieri fuori di combattimento, rovinando loro le gambe.
Nondimeno, malgrado le enormi perdite, quegli ostinati selvaggi non accennavano ancora ad arrestarsi. Anzi con un ultimo slancio giunsero ben presto dinanzi alla zona alberata, gettandosi coraggiosamente in mezzo alle spine dove si appiattirono per prendere un po’ di riposo e per riordinarsi prima di tentare l’ultimo sforzo.
– Quella è vera carne da cannone, – disse Yanez, la cui fronte si era abbuiata. – Non credevo che potessero spingersi così vicini. È bensì vero che non sono ancora sulle cinte e che se le spingarde diventano pel momento inutili, tuttavia le carabine e le pistole avranno ancora buon giuoco.
– Non inquietarti, amico mio, – disse Tremal-Naik. – Ho preparato loro una sorpresa che produrrà sulla loro pelle maggior effetto dei chiodi.
– Ma intanto ci sono sotto.
– Lasciali venire. D’altronde le cinte sono alte e le tavole di tek così grosse che i loro kampilang si smusseranno senza riuscire a spaccarle.
– M’inquieta il fuoco dei loro pezzi.
– Tirano così male!
– Che cosa fanno? Non li odo più.
– S’avanzano strisciando tra le spine.
– È bene assicurata la saracinesca?
– Ho fatto mettere le caviglie di ferro e nessuno potrà alzarla. Eccoli!
Mentre i lilà e il mirim continuavano a tuonare, aprendo nei panconi delle cinte qualche foro appena sufficiente per lasciar passare una mano e i fucilieri s’avanzavano, sempre disposti in catena, strisciando al suolo e nascondendosi dietro i piccoli rialzi di terreno e dietro i tronchi abbattuti per sfuggire alle scariche della spingarda collocata sul minareto, che non aveva cessato di far fuoco, gli assalitori s’aprivano con precauzione il passo fra le piante spinose.
Essendo quasi tutti nudi ed i cespugli e gli arbusti foltissimi e formidabilmente armati di punte acutissime, l’impresa era tutt’altro che facile e lo provavano le grida di dolore che di quando in quando mandavano gli assalitori, che non potevano frenare.
– La loro carne va a brandelli, – disse Yanez, che curvo sul parapetto, fra l’apertura lasciata da due sacchi di sabbia collocati dinanzi alla spingarda, li spiava. – Mordono le spine, miei cari.
– Eppure passano egualmente quei demoni. Ecco lì il primo che striscia lungo la cinta.
– E che non andrà a raccontare ai suoi compagni se è più o meno solida, – aggiunse il portoghese.
Puntò la carabina e sparò quasi senza mirare. Il dayako che era riuscito, a prezzo di chissà quali punture, ad attraversare quella formidabile barriera, si levò di colpo sulle ginocchia allargando contemporaneamente le braccia e cadde col cranio attraversato dal proiettile, mandando un urlo rauco.
– Fuoco in mezzo alle piante! – gridò Yanez. – Ci sono sotto.
Poi facendo girare la spingarda sul perno e abbassando la canna più che potè, lanciò una bordata di mitraglia di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi ricominciavano il fuoco massacrando arbusti e assedianti insieme. Vociferazioni spaventevoli s’alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi erano andati perduti, poi una valanga d’uomini si rovesciò verso la saracinesca assalendola a colpi di kampilang, mentre i lilà ed il mirim raddoppiavano il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i difensori.
Tremal-Naik aveva mandato un lungo fischio.
Subito si videro uscire dalla cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all’interno un fumo acre e denso.
Salirono rapidamente la scala, deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca.
– Per Giove! – esclamò Yanez, sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. – Che cosa portate qui?
– Guardati, Yanez! – gridò Tremal-Naik. – Lascia il posto a questi uomini.
– Ma gli altri cominciano a montare.
– Il caucciù bollente li farà ridiscendere.
Gli otto uomini, armatisi di giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto nelle caldaie.
Urla, orribili, strazianti, s’alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall’alto della cinta e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante, fuggendo a precipizio.
Una mezza dozzina di loro, che avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi idrofobi.
– Per Giove! – esclamò Yanez, facendo un gesto d’orrore. – Questo indiano ha avuto una trovata magnifica! Cucina vivi quei poveri diavoli!
I dayaki fuggivano anche dalle altre parti, poichè anche da quelle terrazze gli assediati avevano cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta.
Il fuoco intenso delle spingarde e delle carabine completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei difensori del kampong e a rifugiarsi nei loro accampamenti.
Invano i fucilieri avevano tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li persuase a seguire i fuggiaschi.
Due minuti dopo intorno al kampong non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l’ultimo respiro.
11. Il ritorno di Kammamuri
I dayaki, convinti di non essere in grado di prendere d’assalto il kampong, dopo la disastrosa prova fatta che aveva causato alle loro file delle perdite gravissime, avevano cominciato il vero assedio, sperando che la fame costringesse i difensori a capitolare.
Avevano formato intorno alla pianura quattro campi trincerati, per premunirsi da una possibile sortita degli assediati, rinforzandoli con trincee innalzate certamente dietro le istruzioni del pellegrino che si svelava ogni giorno di più uomo di guerra.
Inoltre, avevan portate le loro artiglierie molto innanzi, scavando due trincee parallele, tribolando non poco gli assediati con un vivissimo cannoneggiamento che, se non causava veramente gravi danni, obbligava Yanez, Tremal-Naik e i loro uomini ad una continua guardia, temendo che fosse sempre il preludio d’un nuovo assalto.
Cinque giorni erano così trascorsi, dal primo tentativo d’attacco, con gran spreco di munizioni da parte dei dayaki e molto fracasso. L’unico successo ottenuto era stata la demolizione della torricella che essendo troppo esposta, era caduta pezzo a pezzo, obbligando i difensori a ritirare la spingarda e ad abbandonare quel posto.
Yanez cominciava ad annoiarsi. Uomo d’azione ed irrequieto, nonostante sembrasse l’uomo più flemmatico del mondo, trovava che la cosa andava troppo per le lunghe e che anche le sigarette, che consumava in quantità prodigiosa, non bastavano più a distrarlo.
Eppure non mancava nulla nel kampong. I magazzini erano ben forniti, le tettoie erano piene di gabà, di quel bellissimo riso che coltivano i giavanesi e che supera di gran lunga quello di Rangoon, nel recinto interno le galline selvatiche razzolavano in gran numero pronte ad offrirsi agli stomachi degli assediati senza protestare; le frutta non facevano difetto e le cantine erano piene di enormi vasi di terra colmi di bram, quel forte liquore ottenuto dalla fermentazione del riso mescolato con zucchero e succhi di varie palme. Che più? La guarnigione poteva, nelle ore più calde del giorno, dissetarsi con del buon kalapa, quella bibita rinfrescante racchiusa nelle noci di cocco, essendovi delle piante di quella specie intorno all’aia e fumare senza risparmio del delizioso cortado, quei profumati sigari di Manilla e dei rokok giavanesi, piccoli sigaretti rotolati in una foglia secca di nipa, che sono così gradevoli.
– Che cosa ti manca per annoiarti, amico? – gli chiese sul cader del quinto giorno l’indiano, vedendo che Yanez appariva più annoiato che mai. – Io credo che nessuna guarnigione si sia trovata fra tanta abbondanza.
– Questa calma mi sfibra, – aveva risposto il portoghese.
– Calma la chiami! Ma se le artiglierie del nemico tuonano da mane a sera!
– Per bucare semplicemente dei panconi che non hanno mai fatto male ad alcuno e che non protestano.
– Vorresti che le palle bucassero i nostri uomini?
– Tu hai ragioni da vendere, mio caro Tremal-Naik, eppure io vorrei andarmene di qua.
– Non hai che da far alzare la saracinesca. Io però al tuo posto preferirei passeggiare intorno al bengalow, – rispose l’indiano ridendo. – Io credo che la tua irrequietezza dipenda dall’assoluta mancanza di notizie di Sandokan.
– Anche questo è vero. Vorrei sapere come si svolgono le cose a Mompracem e sospiro il ritorno di Kammamuri.
– Lasciagli il tempo necessario.
– Dovrebbe essere già qui.
– La regione che ha dovuto attraversare per raggiungere la costa non è sempre sicura, mio Yanez, e può aver trovato sul suo cammino non pochi ostacoli. Saliamo sul terrazzo della saracinesca e andiamo a dare uno sguardo agli assedianti prima che il sole tramonti.
Lasciarono il salotto dove avevano appena allora terminata la cena in compagnia di Darma e si portarono verso le cinte.
Gli uomini di guardia, che erano i giavanesi, toccando a loro quella notte vegliare, stavano terminando il loro pasto serale, a cavalcioni dei parapetti divorando con invidiabile appetito i loro piatti stravaganti.
Essi davan dentro, senza preoccuparsi delle palle dei nemici che di quando in quando si cacciavano nei panconi con sordo fragore, al blaciang, quel puzzolente intruglio formato di gamberetti e di piccoli pesci conservati entro vasi di terra e lasciati a fermentare fino a corrompersi; o all’ud-ang, una specie di pasta formata di crostacei seccati e poi ridotti in polvere; o ai pasticci di laron, formati con larve di termiti, un piatto scelto e gustosissimo pei palati giavanesi e malesi.
Pareva che l’assedio non avesse ancora guastato l’appetito di quei bravi, dal lavoro energico che compivano i loro denti neri come chiodi di garofano, per l’abuso del siri e del betel.
Yanez e Tremal-Naik erano appena saliti sul parapetto, quando notarono nei campi dei dayaki un certo movimento.
Dei capi radunavano attorno a loro numerosi guerrieri e pareva che facessero loro dei discorsi infuocati a giudicare dall’agitarsi furioso delle braccia, mentre in altri luoghi si eseguivano le danze guerresche dei kampilang e dei kriss. Il sole in quel momento stava per tramontare fra un denso nuvolone nero che pareva saturo di elettricità e che aveva i margini color del rame.
– Un attacco ed un uragano? – si chiese Yanez che aspirava l’aria che era diventata estremamente secca. – Che cosa ne dici, Tremal-Naik?
– Una bufera l’avremo questa notte, – rispose l’indiano, che guardava pure il nuvolone il quale si allargava a vista d’occhio.
– Con accompagnamento di fuoco celeste e terrestre. Io sono certo che i dayaki, stanchi di cannoneggiare inutilmente le nostre cinte, approfitteranno della tromba d’acqua per venire all’attacco.
– Ed il momento non sarebbe davvero male scelto. Si spara male quando si ha l’acqua in volto.
– Copriamo le terrazze, Tremal-Naik. In mezz’ora i nostri uomini possono alzare delle tettoie per riparare almeno gli artiglieri. Per Giove! Che questa volta ci prendano davvero?
– Finchè avremo del caucciù non lo credo.
– Fa’ riempire tutte le pentole che possiedi.
– Vo a dare l’ordine, – rispose l’indiano scendendo precipitosamente.
Yanez stava per recarsi verso l’angolo della cinta, dove si trovava una spingarda, quando una freccia lanciata probabilmente da un sumpitan, ossia da una cerbottana, sibilò dinanzi a lui piantandosi contro uno dei pali che reggevano il terrazzo.
– Ah! Traditori! – esclamò Yanez, balzando verso il parapetto con una pistola in mano.
Guardò sotto le piante, mentre Sambigliong che stava mettendo in batteria la spingarda, accortosi del pericolo che aveva minacciato il portoghese, accorreva armato d’una carabina. Nessun ramo si agitava, nè alcun rumore turbava il silenzio che regnava sotto gli arbusti spinosi fiancheggianti la cinta.
– L’avete veduto quel briccone, capitano? – chiese il mastro.
– Deve essere scappato subito, – rispose Yanez.
– E forse quella freccia era avvelenata col succo dell’upas.
– Vediamo, – disse il portoghese, dirigendosi verso il palo.
Ad un tratto gli sfuggì un grido di stupore.
– Una freccia messaggera! – esclamò.
All’estremità del dardo, il cui cannello era solidissimo, aveva scorto qualche cosa di bianco, come un pezzo di carta arrotolata intorno al fusto.
– Allora non si tratta di un tentato assassinio della mia rispettabile persona, – disse.
Strappò la freccia, la cui punta, formata da una spina acutissima, si era infissa profondamente nel legno e ruppe il filo che teneva la carta stretta attorno al cannello.
– Signor Yanez, – disse Sambigliong, – che i dayaki si servano ora delle frecce per mandare le lettere a destinazione? Ecco un servizio postale di nuovo genere.
– Che cosa c’è dunque? – chiese in quel momento Tremal-Naik, che aveva già dati gli ordini e tornava con Darma.
– Un portalettere sconosciuto che mi ha rimessa questa carta sulla punta di una freccia, – rispose Yanez. – Che contenga una intimazione di resa?
Svolse con precauzione la carta che era coperta di caratteri grossolani, vi gettò sopra uno sguardo, poi mandò un grido di gioia:
– Kammamuri!
– Il mio maharatto – esclamò Tremal-Naik. – Leggi, leggi Yanez!
«Sono nei dintorni del campo da stamane» scriveva il maharatto in inglese «e questa notte cercherò d’introdurmi nella fattoria con l’aiuto d’un ex servo che è ora fra i ribelli.
Lasciate pendere una fune dall’angolo che guarda verso il sud e preparatevi alla difesa. I dayaki sono pronti ad assalirvi.
KAMMAMURI»
– Quel bravo maharatto qui! – esclamò Tremal-Naik. – Deve aver divorata la via per essere giunto così presto.
– Che sia solo? – chiese Darma.
– Se avesse dei Tigrotti in sua compagnia l’avrebbe scritto, – rispose Yanez.
– Avrà almeno la tigre, – disse Tremal-Naik.
– A meno che non gliela abbiano uccisa! – disse Yanez.
– Chi può essere quell’ex servo che l’aiuta?
– Ve ne devono essere parecchi fra i ribelli, – rispose Tremal-Naik. – Ne avevo una ventina di dayaki e non me n’è rimasto più uno dopo la comparsa del pellegrino.
– Signor Yanez, – disse Sambigliong, – mi troverò io questa notte verso l’angolo che guarda al sud.
– Tu sarai più necessario qui che colà, – rispose il portoghese. – Non hai udito che i dayaki si preparano ad assalirci? Manderemo Tangusa col pilota. E ora, amici, prepariamoci a sostenere il secondo attacco, che sarà forse più formidabile del primo e non dimenticate che se i dayaki entrano qui le nostre teste andranno ad arricchire le loro collezioni.
La notte era allora calata, una notte oscurissima, che nulla prometteva di buono. La nube nera aveva invaso tutto il cielo, coprendo rapidamente gli astri e verso il sud balenava.
Una calma pesante regnava sulla pianura e sulle foreste. L’aria era soffocante al punto da rendere difficile la respirazione e così satura d’elettricità che tutti gli uomini del kampong provavano una viva irrequietezza ed un vero senso di malessere.
Anche nei campi dei dayaki tutto era oscuro e di là non proveniva alcun rumore. I lilà ed il mirim da qualche ora non tuonavano più.
I difensori del kampong, dopo aver costruite frettolosamente le tettoie per riparare le spingarde, si erano sdraiati sui larghi parapetti delle terrazze, con le carabine a portata di mano, ascoltando ansiosamente i rumori del largo.
Yanez, Tremal-Naik e una mezza dozzina di Tigrotti vegliavano sopra la saracinesca, dove avevano piazzata anche la bocca da fuoco che avevano ritirata dalla torricella.
Entrambi erano un po’ nervosi e preoccupati. Quel silenzio che regnava negli accampamenti dei dayaki produceva su di loro maggior impressione che un fuoco violentissimo.
– Preferirei un attacco furioso a questa calma, – disse Yanez che fumava rabbiosamente un cortado masticandone la punta. – Che si avanzino strisciando come serpenti?
– È probabile, – rispose Tremai-Naik. – Non si faranno vivi che quando avranno attraversata la pianura e saranno giunti sotto le piante.
– O che aspettino l’uragano per rendere meno efficaci le nostre carabine? Quando qui piove è un diluvio che si rovescia.
– Il caucciù li calmerà e surrogherà le palle. Tutti i vasi disponibili sono al fuoco.
L’uragano intanto si addensava. Qualche soffio d’aria giungeva facendo curvare le cime degli arbusti spinosi con mille fruscii; verso il sud tuonava e lampeggiava. La gran voce della tempesta suonava la carica.
Ad un tratto un lampo immenso, simile a una enorme scimitarra, tagliò in due l’enorme nube gravida di pioggia, poi si seguirono dei fragori paurosi. Pareva che lassù, nella volta celeste, si fosse impegnato un duello fra grossi cannoni di marina o da costa e che dei carri carichi di lamine di ferro corressero all’impazzata su dei ponti metallici.
Quel fracasso durò due o tre minuti con grande accompagnamento di lampi, poi le cateratte del cielo si aprirono ed una vera tromba d’acqua si rovesciò furiosamente sulla pianura.
Quasi nel medesimo istante si udirono le sentinelle collocate agli angoli delle cinte gridare: