Kitabı oku: «Il tesoro della montagna azzurra», sayfa 18
XX. ALLA CACCIA DI RAMIREZ
Fu una notte piena di angoscia quella che trascorsero don José, Pedro e Reton. Il primo non aveva fatto altro che camminare, come una belva, intorno alla capanna, imprecando; don Pedro, non aveva smesso di singhiozzare e Reton di darsi dei pugni, accusandosi d’essere stato lui la causa di quel disastro. I kahoa, inquieti per la mancanza di notizie dei due kanaki e impressionati per il dolore e la collera che traspariva dal viso del loro capo, avevano mandato degli esploratori in tutte le direzioni, senza però alcun successo. Anche la giornata passò in crescenti ansie senza notizie. Il capitano, che non riusciva a frenare la sua impazienza, impressionato anche dalla crescente disperazione di don Pedro, si preparava a chiamare a raccolta tutti i guerrieri della tribù, deciso a tentare un colpo di mano sui villaggi dei nuku, quando dei sonori latrati lo avvertirono del ritorno dei due kanaki. Don José, don Pedro e Reton si erano precipitati fuori dalla capanna senza curarsi della pioggia che scrosciava sempre.
– Finalmente! – esclamò il capitano raggiante. – Se torna Hermosa, ci saranno anche Matemate e Koturé.
Non si era ingannato. Pochi minuti dopo, i due bravi kanaki, grondanti d’acqua e inzaccherati fino ai capelli, si presentavano agli uomini bianchi.
– Entrate subito, – disse il capitano, facendo segno ai kahoa che avevano seguiti i due esploratori, di ritirarsi.
Matemate e Koturé che tremavano per il freddo ed erano stanchissimi, si sedettero davanti al fuoco che ardeva in mezzo alla capanna.
– Parla, – disse don José a Matemate.
– Partiti tutti.
– Chi?
– I nuku.
– Tutti!
– Abbiamo visto i loro villaggi distrutti dal fuoco.
– E la fanciulla bianca?
– Partita con l’uomo bianco.
– Chi te lo ha detto?
– Una vecchia nuku che era stata abbandonata in una capanna, perché aveva le gambe troppo gonfie per poter seguire i suoi compatrioti.
– Perché non me l’hai portata qui? Ci avrebbe dato delle preziose informazioni – disse don José.
– Quando non ha saputo dirmi altro l’ho uccisa, – rispose il kanako candidamente. – I nuku sono nostri nemici.
– Hai almeno saputo dove si sono diretti?
– Sì, alla foce del Diao.
– Per risalire il fiume con le scialuppe del grande canotto che ha l’uomo bianco?
– Questo non lo so, capo.
– Tu sei ben certo che la fanciulla bianca era con loro?
– Quella vecchia me lo ha confermato.
– E quando sono partiti?
– Ieri, subito dopo scoperta la nostra fuga.
– Tu sapresti condurci alla foce del Diao?
– Sì, capo, – rispose Matemate.
– Se fosse possibile seguirli!
– E perché no? Non hai tu la tua grossa bestia? Aveva già scoperto le tracce non so se dei Nuku o dell’uomo bianco e cercava di seguirle.
– Io non avevo pensato a questo, – disse don José. – Hermosa è stata due mesi con quel bandito e saprà ritrovarlo.
Riassunse le risposte ricevute dal kanako e informò don Pedro di quanto aveva appreso.
– Non vi disperate, amico, – disse, vedendo il povero giovane profondamente addolorato. – Noi daremo la caccia a quel bandito e lo raggiungeremo prima che metta le mani anche sul tesoro della Montagna Azzurra. I kahoa sono abbastanza numerosi e guidati da noi non esiteranno a dare battaglia ai nuku.
– Ma che cosa vuol fare quel miserabile di mia sorella?
– Vorrà servirsene come di un prezioso ostaggio.
– E se la uccidesse? – chiese il povero giovane con le lacrime agli occhi.
– Per quale motivo? Ramirez sarà un furfante, sarà un ladro, sarà tutto quello che volete, ma non si scorderà che è un uomo bianco prima di tutto, abbia pur nelle vene del sangue indiano, come si dice. Egli non dimenticherà che ci siamo sempre noi pronti a vendicare vostra sorella. Se è partito così precipitosamente vuol dire che non crede alla nostra morte e che cerca di arrivare nei villaggi dei krahoa prima di noi.
– E dove andremo?
– Alla foce del Diao, dove cercherò di giocare a quel birbante un tiro che medito da parecchio tempo. È necessario, prima di tutto, impedirgli di tornare nel Cile.
– E come?
– Privandolo della sua nave.
– Vorreste assalirla?
– Lasciate fare a me, don Pedro. Sarà una guerra a coltello contro quel bandito e vedrete che non sarà lui che vincerà la partita. Matemate e Koturé varranno tanto oro quanto pesano.
La notte stessa don José, radunava nella capanna reale tutti i capi dei villaggi e i più celebri guerrieri per preparare la spedizione. Nessuna opposizione fu fatta alla volontà del capo bianco. I kahoa con tre uomini bianchi alla testa, armati delle canne che tuonavano, si ritenevano più che certi d’infliggere ai loro avversari una tremenda sconfitta. La notte fu occupata nella scelta dei guerrieri e nella raccolta delle provviste, dovendosi attraversare territori privi di qualsiasi risorsa, poiché la Nuova Caledonia è poverissima di selvaggina. Prima dello spuntare del giorno la colonna si mise in marcia. Si componeva di un centinaio di coraggiosi guerrieri, tinti di nero, con una miscela di grasso di maiale e di fuliggine. Ogni uomo era stato fornito d’un pacco pieno di popoi, l’unico cibo che resiste per qualche tempo all’umidità e anche al calore. Don José, Reton, don Pedro con i due kanaki e la cagna di Terranova avevano formato un drappello d’avanguardia. Alla sera la colonna, che aveva marciato con rapidità attraverso le foreste, arrivava sul luogo dove avrebbero dovuto esserci i villaggi dei nuku. Non rimaneva in piedi nemmeno una capanna. La tribù prima di seguire il capo bianco e certamente per suo ordine, aveva tutto distrutto con il fuoco. Non si vedevano che ammassi di cenere e qualche pezzo di tetto. Perfino le piantagioni di ignami e di magnagne, che circondano ordinariamente i centri abitati, non esistevano più. Sembrava che un formidabile esercito nemico fosse piombato sulla tribù, tutto distruggendo nella sua terribile marcia.
– Perché Ramirez ha voluto questa rovina? – chiese don Pedro al capitano.
– Credo di indovinare la sua idea, – rispose don José. – Vorrà condurre i nuku presso i krahoa e formare una sola e potente tribù per tenerci in scacco.
– Se riuscisse, a noi non rimarrebbe che fuggire.
– Adagio, don Pedro, – soggiunse il capitano. – Matemate e Koturé sono sempre con noi e sanno che il figlio del gran capo bianco non è quel furfante di Ramirez. Accampiamoci qui questa notte e non pensiamo che a riposarci. Sono già parecchie notti che non facciamo una buona dormita.
Fu improvvisato un campo, circondandolo di una piccola siepe di spine. Per il capitano e per i suoi compagni fu eretta alla meglio una piccola capanna con larghe strisce di niaulis poggiate su bastoni intrecciati, per ripararli dall’umidità della notte, non essendosi il cielo ancora rasserenato. La pioggia era cessata, ma non il vento, che ululava sinistramente nell’immensa foresta. Divorata la magra cena e disposte all’intorno numerose sentinelle, don José, don Pedro e Reton si rifugiarono nel loro misero abituro, mentre i kahoa si sdraiarono sotto gli alberi contentandosi d’una semplice stuoia e di un pezzo di corteccia di niaulis destinato a riparare la testa. Ai primi albori la colonna riprendeva la marcia, avanzando rapidamente fra quegli interminabili boschi. Hermosa seguiva, senza esitare, le tracce visibilissime del suo secondo padrone. A mezzogiorno la colonna arrivava in un accampamento improvvisato, dove si ergevano ancora tre o quattro capannucce formate di cortecce di niaulis. C’erano molti mucchi di cenere e di rami carbonizzati, segno evidente che don Ramirez aveva fatto una sosta insieme alla tribù.
– Hanno passato la notte qui – disse il capitano a don Pedro e a Reton.
– La scorsa notte o la precedente? – chiese il giovane cileno.
– Ecco quello che è impossibile sapere. Le ceneri sono fredde, – rispose don José. – Sono però fermamente convinto che non abbiano su di noi un grande vantaggio.
– Se li raggiungeremo, daremo loro battaglia?
– Tenteremo un assalto di sorpresa, don Pedro, – rispose il capitano. – Mi sembra che i nostri kahoa siano ben risoluti a vendicare la sconfitta subita.
– Frughiamo le capanne, – disse in quel momento Reton, che sembrava fosse tormentato da qualche pensiero.
– Che cosa speri, bosmano? chiese don José.
– Chi lo sa? – rispose il lupo di mare. – La señorita è furba e potrebbe aver lasciato qualcosa per noi.
– Uhm! – fece il capitano.
– Il bosmano ha ragione, – disse don Pedro. – Mia sorella immaginerà che noi, liberi, non l’avremmo abbandonata al suo destino.
– Se l’avranno informata della nostra evasione! Quel bandito non sarà stato così sciocco… Tuttavia cerchiamo.
Perlustrarono dapprima l’accampamento, poi le capanne, non trovando altro che una piccola provvista di pagute, che sono pallottoline di terra verdastra, composte di silicato di magnesio, che i neo-caledoni mangiano volentieri quando non hanno altro di meglio. Stavano per rinunciare alle loro ricerche, quando il bosmano, che era il più accanito, quasi obbedisse a un segreto istinto, nel sollevare una vecchia stuoia, fece saltare fuori un pezzo di scorza di melalenco dove erano tracciate grossolanamente delle lettere.
– Che cos’è questo? – gridò. E poi dicono che i vecchi diventano imbecilli e che…
Una imprecazione sfuggitagli, gli interruppe la frase.
– Emanuel!… Miserabile!… Non l’hanno ancora divorato quello squalo del malanno!… È pure il suo nome questo!… Guardate, capitano.
Il vecchio lupo di mare aveva dato a don José quel pezzo di corteccia, largo e lungo appena come un foglio di carta da lettere comune, su cui erano tracciate delle parole.
– Emanuel!… – esclamò a sua volta il capitano. – Che cosa vuole quel mariolo?
Osservò attentamente il pezzo di scorza e dopo un lungo esame lesse:
«Marciamo verso il Diao con la tribù. Veglio su Mina».
«Emanuel».
– Lui veglia sulla señorita!… esclamò Reton. – Quella canaglia si permette questo? Quel cane ci burla!… Quando verrà il giorno che potrò fracassargli le costole?
– Adagio, Reton, – disse don Pedro, che era in preda a una vivissima gioia. – Noi non abbiamo mai avuto delle prove positive che quel mozzo ci tradisse. Perché avrebbe scritto questo se non proteggesse veramente mia sorella?
– Quel gaglioffo!… – urlò l’irascibile bosmano. – Come vuole proteggerla?
– Taci, Reton, – disse il capitano – e non perdere le staffe. Anche un ragazzo, in certi momenti, può fare ciò che non potrebbe fare un uomo maturo. Quell’Emanuel non è uno stupido, anzi io l’ho conosciuto per un vero demonio. Se ha lasciato qui questa scorza di melalenco vuol dire che realmente veglia sulla señorita.
– Uhm!… – fece il bosmano scuotendo il capo, – Io avrei paura di quella protezione, parola di Reton. E poi chi si fiderebbe di quel traditore?
– L’abbiamo chiamato così noi, perché Ramirez lo ha risparmiato, nient’altro, – rispose don Pedro. – D’altronde fosse anche vero che prima quel ragazzo, chissà per quale scopo a noi ignoto, cercava di farci del male, preferisco sapere mia sorella sotto la protezione d’un marinaio dell’Andalusia, piuttosto di qualunque altra persona.
– Sia pure, – disse Reton, che non voleva arrendersi. – Vedremo se quella canaglia la proteggerà davvero. La Nuova Caledonia non è poi vasta come l’America del Sud e saprò scovarlo. Guai a lui se avrà alzato un solo dito contro la señorita Mina! Lo farò a pezzi!
– Accontentiamoci di sapere che vostra sorella è sempre insieme a Ramirez e che qualcuno, sia pure un furfante, veglia su di lei, – soggiunse il capitano. – Vedremo se troveremo qualche altro scritto nell’accampamento che raggiungeremo. Facciamo colazione, se è possibile, poi in marcia.
XXI. L’INONDAZIONE
La sosta durò appena un’ora, poi la colonna si rimise in marcia con nuovo accanimento, sempre preceduta da Hermosa che non esitava mai sulla direzione da scegliere. Alla sera, dopo una lunga e faticosissima marcia, la colonna arrivava, a un secondo accampamento racchiuso da una leggera siepe formata da piante spinose appena appassite. Anche là sorgevano quattro minuscole capanne e si vedevano ammassi di cenere e di carboni.
– I nuku ci sono più vicini di quello che crediamo, – disse il capitano a don Pedro e a Reton. Questo accampamento è di recente costruzione.
– Vediamo le ceneri, – suggerì Reton.
Frugò e rifrugò in mezzo a un mucchio e levò un tizzone che fumava ancora.
– Qui i nuku hanno dormito la notte scorsa, – aggiunse. – Non hanno che un vantaggio di dieci o dodici ore su di noi. I nostri kahoa sono camminatori migliori.
– Frughiamo le capanne, – disse don Pedro. – Chissà che non troviamo qualche scritto di Emanuel o di mia sorella.
Accompagnati da Matemate visitarono minutamente le dimore e non tardarono a trovare, nascosto sotto delle foglie secche, un altro pezzo di corteccia di niaulis sul quale erano state tracciate delle parole. Erano le stesse lette sull’altra e portavano la firma di Emanuel.
– Quel mascalzone avrebbe dovuto aggiungere qualche cosa di più, – osservò Reton.
– A noi bastano, – rispose il capitano. – Ormai sappiamo che Ramirez si dirige verso la foce del Diao.
– E che cosa va a fare là quel furfante?
– Deve avere la sua nave alla foce del fiume e, prima di dirigersi verso i villaggi dei krahoa, vorrà rifornirsi di armi, di munizioni, di viveri e di regali.
– E anche di uomini, aggiunse don Pedro.
– E sarebbe una vera fortuna per noi che riducesse a minime proporzioni l’equipaggio della nave, disse il capitano.
– Questo però renderebbe assai più difficile il nostro assalto contro i nuku, capitano, – dichiarò Reton.
– Questo è vero, ma quando noi ci saremo impadroniti dell’Esmeralda, terremo prigioniero quel bandito. Si provi a imbarcare il tesoro su una doppia piroga e ritornare con quella in America! Nessuno oserebbe tentare una simile traversata.
– Dunque noi abborderemo la nave?
– E la prenderemo, mio bravo Reton, te lo assicuro.
– Voi sareste diventato un grande ammiraglio, se invece di scegliere la marina mercantile foste entrato in quella da guerra.
– Mi basta di essere un buon capitano mercantile, – rispose don José, ridendo. – I grossi gradi li lascio a te.
– Quando credete che potremo raggiungere i nuku? – chiese don Pedro.
– Domani sera ci accamperemo a poca distanza, – rispose il capitano. – Corichiamoci presto e all’alba mettiamoci in marcia. La nostra è una lotta di velocità.
– E avanziamo con prudenza, aggiunse Reton. – Invece di sorprendere i nostri avversari potremmo venire sorpresi da loro ed io non ho molta fiducia nei nostri sudditi.
– Sono forse più valorosi di quello che credi. Andiamo a vedere se si può avere un po’ di cena.
La notte, come la precedente, trascorse senza alcun incidente. I nuku sicuri di non essere inseguiti non si erano curati, a quanto sembrava, di lasciare qualche drappello alla retroguardia. Alle tre del mattino, la colonna, molto affamata, ma sempre piena d’entusiasmo, si lanciava nuovamente attraverso la foresta, mettendo a dura prova le gambe del vecchio Reton. Fu un’altra corsa furiosa, che non cessò se non quando la colonna si trovò davanti a una strettissima vallata, fiancheggiata da due ripide montagne. I nuku non dovevano essere ormai lontani. Durante la marcia si erano trovate tracce recentissime del loro passaggio e anche dei mucchi di cenere ancora calda. Matemate, che conosceva il paese, aveva comandato quella fermata non osando impegnare tutta la colonna in quella stretta vallata che pochi uomini potevano difendere.
– Temi qualche agguato? – chiese il capitano al prudente kanako.
– Il posto sarebbe buono per distruggere un nemico poco previdente, – rispose Matemate. – La valle è lunga, e sale sempre fino al mare, ed è percorsa da grossi torrenti.
– Buoni per dissetarci, – disse Reton.
– E pericolosi per noi che ci troviamo nella pianura, – dichiarò il kanako.
La sorveglianza attorno al campo fu raddoppiata. Verso la mezzanotte i primi esploratori arrivarono. Non portavano alcuna notizia dei nuku. Nessun altro campo era stato trovato nella lunga vallata, e nessun fuoco era stato scorto.
– Che i nuku abbiano preso un’altra via? – chiese il bosmano a don José, che appariva preoccupatissimo.
– È impossibile, – rispose il capitano. – Hermosa è un buon cane da fiuto e non può essersi ingannato.
– Allora il diavolo se li sarà portati tutti all’inferno.
Furono radunati i capi dei villaggi per sentire il loro parere e fu deciso di attraversare la valle senza perdere tempo, approfittando dell’oscurità. Se i nuku erano accampati alle falde dell’una o dell’altra montagna, la colonna poteva passare egualmente inosservata.
– Se i nostri nemici non ci fermano questa notte, domani saremo sulle rive della baia di Bualabea, – disse Matemate. – Il Diao scorre dietro queste montagne.
– Non mi sembri però troppo tranquillo, – rispose il capitano.
– M’inquieta questa improvvisa scomparsa dei nuku.
– Che abbiano attraversata la montagna?
– Né l’una né l’altra si possono scalare da questo versante, capo bianco. Io temo che ci aspettino in qualche luogo per assalirci di sorpresa.
– Vuoi spaventarci? – chiese il bosmano.
– So che voi, uomini bianchi, siete troppo coraggiosi per aver paura di noi, – rispose Matemate. – Le canne che tuonano vi danno troppa potenza per temere le nostre scuri, le nostre mazze e i nostri archi. Vi consiglio soltanto di essere prudenti, perché temo qualche sorpresa da parte dei nuku e dell’uomo bianco che li guida.
– E noi daremo loro battaglia, – disse Reton. – Quando ho in mano la mia carabina non ho paura degli antropofaghi. Non lascerò la Nuova Caledonia se non quando non ci sarà più un nuku.
– Partiamo, – comandò il capitano – e non facciamo rumore. Spero che passeremo inosservati.
La colonna fu riorganizzata e si mise in marcia nel più profondo silenzio, inoltrandosi nel vallone. L’oscurità era profonda, e il capitano teneva Hermosa al guinzaglio per impedirle di urlare e di provocare qualche allarme. L’avanguardia, guidata da Koturé, avanzava guardinga, tenendo specialmente d’occhio le pareti rocciose delle montagne che cadevano quasi a picco, poiché appunto da quella parte, poteva esserci qualche pericolo. Il capitano, don Pedro e il bosmano imbracciavano le carabine, pronti a far fuoco. Marciavano da un’ora, salendo sempre la tortuosa vallata, quando fu vista l’avanguardia ripiegare precipitosamente.
– Che cosa c’è? – chiese il capitano lanciandosi avanti.
– Non senti questo rombo lontano, uomo bianco? – domandò Koturé. – Io l’avevo già notato poco fa.
Il capitano tese gli orecchi e ascoltò attentamente. Nel profondo silenzio della notte si sentiva infatti un lontano fragore che sembrava prodotto da qualche cascata o da un impetuoso corso d’acqua.
– Che cosa ne dici, Reton? – chiese don José al bosmano, che ascoltava.
– Mil diables!… – esclamò il lupo di mare. – Questa è acqua.
– Onde che s’infrangono forse?
– No, capitano.
– Che cosa può essere dunque?
– Te lo dirò io, uomo bianco, – disse Matemate. – Ti avevo avvertito che nell’alta valle scorrevano dei grossi torrenti.
– E così?
– I nuku ne hanno fatto deviare qualcuno per affogarci. L’acqua scende rapida: io la sento.
– Fuggiamo!
– È troppo tardi, capo bianco, – rispose il kanako.
– Ma se restiamo qui morremo tutti.
Il kanako rifletté un istante, poi soggiunse:
– Venite tutti: soltanto là potremo trovare la salvezza.
Lanciò un grido acutissimo, il segnale di riunione, e si lanciò verso le acque che scendevano con un fragore dì tuono, attraverso la vallata. Tutti i kahoa lo avevano seguito con fiducia, senza nemmeno pensare che invece di sfuggire il pericolo gli correvano incontro.
– Che questo antropofago sia diventato pazzo? – borbottava invece Reton.
Quella corsa velocissima durò appena cinque minuti. Si fermò davanti a una collinetta rocciosa che sorgeva proprio in mezzo alla vallata.
– Lassù, – disse Matemate al capitano indicando la collina. – Ecco l’unica nostra salvezza!…
L’acqua non era ancora arrivata, però non doveva essere molto lontano. Il rombo aumentava d’intensità di momento in momento, propagandosi spaventosamente per la valle. I nuku e Ramirez avevano prese le loro misure per distruggere la colonna che li inseguiva. Un ritardo di una sola mezz’ora e forse meno, ed era finita per loro. I kahoa, scorgendo la collina, si erano lanciati rapidamente su per i fianchi, stringendosi verso la cima la quale terminava in una specie di piattaforma abbastanza vasta per contenerli tutti. L’ultimo uomo si era appena messo in salvo, quando si vide una massa liquida rovesciarsi, fragorosamente, attraverso la stretta valle. La fiumana s’infranse furiosamente contro la altura, rimbalzando a prodigiosa altezza, poi riprese la sua corsa, dividendosi in due rami.
– Senza questo rifugio era finita per noi, – disse il capitano a don Pedro. – Chi avrebbe potuto resistere a tanta furia? Matemate è un uomo veramente prezioso.
– E dire che per poco non ci mangiava anche lui come fossimo tanti polli! – borbottò Reton. Io mi fido poco della rinuncia alla carne umana di questi selvaggi. Non confessano forse che è più squisita di quella dei maialetti selvatici?
– Don José, – chiese don Pedro – non ci raggiungerà l’acqua? La vedo aumentare in modo inquietante. Hanno fatto deviare qualche fiume quelle canaglie?
– Matemate mi aveva parlato di grossi torrenti. Purché non si tratti invece del Diao.
– È un fiume grosso?
– Uno dei maggiori di quest’isola, – rispose il capitano.
– E i nuku dove si sono cacciati?
– Come possiamo saperlo?
– Che ci assalgano dopo l’inondazione?
– Siamo pronti a riceverli, don Pedro. Per ora non sono i nuku che mi preoccupano, poiché non sarà possibile che possano avvicinarsi a portata di freccia.
– Ma quel bandito di Ramirez ha dei marinai che non saranno certamente armati di archi.
– È vero, don Pedro, ma io so come sparano i marinai. Sono pessimi tiratori quasi tutti.
– È l’acqua dunque che vi preoccupa, don José?
– Sì, – rispose il capitano. – Se è qualche braccio del Diao che hanno fatto deviare, questa corrente impetuosa non finirà mai, poiché quello è un fiume perenne.
– Lo attraverseremo.
– Ci porterebbe via. Non vedete con quale impeto scende? Chi potrebbe sfidarlo?
– Quel cane di Ramirez ha avuto un’idea degna di un gran brigante, – disse Reton, che osservava l’acqua che non finiva d’innalzarsi. Ci ha imprigionati, e mentre noi rimarremo qui a cercare il modo di cavarcela, egli se la filerà verso iI paese dei krahoa e s’impadronirà del tesoro.
– È, proprio così, bosmano, – rispose don José. – È riuscito ad arrestare la nostra marcia senza esporre un uomo e senza consumare un pizzico di polvere. Dovevo aspettarmi qualche brutta sorpresa da parte di quella canaglia.
– E mia sorella è sempre nelle sue mani! – esclamò don Pedro con un sospiro.
– Non correrà alcun pericolo, tranquillizzatevi, amico, – disse il capitano.
– Riusciremo a liberarla?
– Non ho alcun dubbio su questo. Sono convinto che finiremo per sconfiggere quel furfante. Ci ha fermati quando ormai ero sicurissimo di prendergli la nave; non m’importa. Troveremo qualche modo per uscire da questa situazione poco allegra e raggiungere la baia di Bualabea. Aspettiamo che si dileguino e intanto formiamo un campo. Non si sa mai quello che può accadere.
– E i viveri? – chiese Reton. Sono già quasi due giorni che digiuniamo.
– Fa come i kahoa: stringi la cintola e avverti le tue budella di avere un po’ di pazienza.
– Credo che non ne abbiano più, – brontolò Reton.
I kahoa, avvertiti della intenzione del capo e prevedendo anche loro qualche sorpresa, si erano messi febbrilmente all’opera per improvvisare un campo trincerato. Poiché la collinetta era coperta di una folta vegetazione e cosparsa di enormi massi, alzarono una fitta siepe, rinforzandola con pietre. Reton, che aveva assunto la direzione del lavoro, alzò anche una specie di ridotto per difendersi dalle palle, nel caso che fra i nuku ci fossero dei marinai dell’Esmeralda, cosa non improbabile. Le acque intanto avevano cessato di innalzarsi. Scendevano però sempre impetuosissime, rodendo la base della collina, che era composta, a quanto sembrava, di solo terriccio mescolato a poche pietre, e il rombo che producevano era terribile, assordante. Il capitano aveva appena terminato d’ispezionare il campo, quando un grido di Matemate, che era salito sulla cima del ridotto, attrasse la sua attenzione.
– Hai scoperto qualcosa? – chiese don José.
– Lassù ci sono degli uomini, rispose il kanako indicando la montagna che gli stava di fronte. Scendono attraverso le piante.
– Sono i nuku?
– Non ho potuto osservarli bene, tuttavia mi è sembrato di vedere degli uomini bianchi.
– Dove vanno?
– Scendono, ti ho detto.
– Nella valle?
– Sì, capo bianco
– Che si preparino ad assalirci?
– C’è il fiume tra noi e loro.
– Possono però sparare egualmente. Scendi, Matemate.
Il kanako, stava per spiccare un salto, quando una piccola nube di fumo s’alzò in mezzo a un cespuglio, seguita da una secca detonazione che rintronò nella valle. Un momento dopo un acuto sibilo passava sopra le teste del capitano e del kanako.
– È una palla di carabina, disse Reton, che era prontamente accorso. – Ci hanno fermati e ora si preparano a massacrarci.
I kahoa, sentendo lo sparo, si erano affrettati a raccogliersi dietro al ridotto, che occupava una estensione di parecchi metri.
– Tutti a terra! – gridò il capitano.
I kahoa che avevano, come tutti i selvaggi, una paura indiavolata delle terribili canne tonanti, si erano appena gettati dietro quella trincea formata di macigni, quando una seconda detonazione scoppiò.
– Quei diavoli non hanno intenzione di risparmiare la polvere, – disse il capitano. – Non finirò mai di ringraziarti, mio bravo Reton, di aver avuto l’idea di alzare questo riparo.
– E ora vi mostrerò, capitano, come si colpiscono i mascalzoni che vogliono seccare gli onesti e tranquilli viandanti, – rispose il bosmano.
Si era allungato fra due massi, che lo proteggevano come due merli e spiava attentamente i cespugli della montagna aspettando che qualche nuova nuvoletta di fumo gli indicasse dove si nascondevano i nemici. Don José e don Pedro si erano accovacciati a breve distanza e aspettavano a loro volta di fare un buon colpo. Risuonò una seconda detonazione, che si ripercosse lungamente nella valle. Reton osservò la nuvoletta di fumo e fece subito fuoco. Quasi nello stesso tempo sparava anche don Pedro. Un momento dopo un corpo umano, vestito di bianco, rotolava attraverso i cespugli, precipitando giù nella fiumana.
– Ecco un mascalzone di meno! – esclamò Reton, – l’Esmeralda ha perso un marinaio.
– Che probabilmente sarà caduto sotto il piombo di don Pedro, – disse il capitano.
– Questo lo vedremo un’altra volta, – rispose Reton. – A me basta che gli uomini di Ramirez diminuiscano.
I nemici, spaventati dall’esattezza del tiro degli assediati, per parecchi minuti non si fecero vivi. A quanto sembrava cercavano di avvicinarsi il più possibile all’isolotto, per fare qualche buona scarica contro i kahoa. Il tremolio dei cespugli indicava la loro discesa, che era molto difficile poiché il fianco della montagna era ripidissimo.
– Sarei curioso di sapere se fra quei banditi si trova anche don Ramirez, – disse Reton, dopo aver ricaricata prontamente la carabina. Sprecherei più volentieri le altre cariche che ancora mi rimangono.
– E anch’io le mie, – soggiunse don José. – Non sarà però così stupido di esporsi alle nostre palle. Mi sbaglierò forse, ma sono più che certo che ha incaricato un certo numero dei suoi uomini di trattenerci, mentre egli marcia verso il paese dei krahoa.
– E noi ci lasceremo giocare in tal modo?
– L’acqua intanto continua a scorrere.
– Eppure, capitano, saremo ben presto costretti ad andarcene se non vorremo morire di fame.
– Matemate e Koturé devono però avere qualche idea, – disse don Pedro. – Li vedo ronzare sui fianchi della collina e confabulare continuamente.
Un’altra detonazione si fece sentire. La palla come le altre, si era schiacciata contro i massi che formavano il ridotto senza toccare i kahoa. Questa volta fu il capitano che rispose e da quell’abile tiratore che era, non fallì il colpo. Infatti la detonazione, non si era ancora spenta, quando si vide un corpo umano staccarsi dalla falda della montagna, rotolare per alcuni metri sopra i cespugli e poi piombare in acqua. Anche quello era un uomo bianco, un marinaio dell’Esmeralda. Urla feroci e imprecazioni si alzarono fra i cespugli, avvertendo così il capitano e i suoi compagni che fra gli assalitori c’erano uomini bianchi e nuku; poi partì una scarica che produsse un fracasso infernale e nessun danno, poiché i kahoa si guardavano bene dal mostrarsi.
– Sono diventati idrofobi! – esclamò Reton, il quale si preparava a rispondere.
Don José lo fermò.
– Adagio, vecchio. Noi dobbiamo fare economia altrimenti quando tenteremo l’assalto al veliero ci troveremo senza un granello di polvere e senza un pezzo di piombo. Non abbiamo un magazzino di rifornimento, né una Santa Barbara a nostra disposizione.
– Peccato, ero certo di buttarne giù un altro.
– Avrai altre occasioni più tardi. To’! Che cosa fanno Matemate e Koturé?
Alcuni colpi risuonarono sull’altro fianco della collina, come se delle scuri lavorassero, contro dei tronchi d’albero. Dei kahoa, forse chiamati dai due kanaki, strisciavano con precauzione attraverso il campo, scomparendo giù per la discesa.
– Matemate deve prepararci la fuga, – disse don Pedro.
– Lasciamolo fare, – osservò il capitano. – Noi occupiamoci della difesa. Quei briganti che Ramirez ci scaglia contro non ci lasceranno a lungo tranquilli. Non sparate che a colpo sicuro e a lunghi intervalli. Sono troppo preziose per noi le munizioni e non ne troveremo che sull’Esmeralda. Ecco che ricominciano; attenti!
Gli assalitori, pur continuando a tenersi nascosti, avevano ripreso il fuoco. Anche delle frecce sibilavano in aria, ma non riuscivano ad arrivare fino al ridotto. Era probabile che gli assalitori continuassero il fuoco, più per impedire agli assediati di abbandonare il loro rifugio e di tentare la traversata del nuovo fiume, che per annientarli. La giornata fu lunghissima e terribile per gli assediati, esposti a un fuoco incessante che li costringeva a una immobilità assoluta, sotto un sole ardentissimo che li arrostiva, e sempre alle prese con la fame. Fortunatamente i due kanaki, aiutati da alcuni kahoa, non avevano smesso di lavorare al riparo del versante opposto, che non poteva essere battuto dal piombo del nemico. Che cosa preparassero, né don José, né don Pedro, né Reton potevano saperlo, non avendo potuto lasciare il ridotto un solo momento. Quando però scese la notte, Matemate comparve fra di loro, dicendo: