Kitabı oku: «Jolanda, la figlia del Corsaro Nero», sayfa 9
Capitolo sedicesimo. Il governatore di Maracaybo
Non erano trascorsi cinque minuti, che tutto l’equipaggio, composto di sessanta uomini, sorpreso in gran parte nelle amache della camera comune di prora, si trovava prigioniero nel frapponte della nave, guardato da otto corsari armati d’archibugi.
Nessuno aveva osato opporre resistenza, tanto era il terrore che ispirano in quell’epoca i filibustieri della Tortue, che godevano fama di essere invincibili, perché uomini d’origine infernale. Qquella conquista non era costata che la perdita d’un uomo, del marinaio di guardia sul castello, ucciso da Pierre le Picard.
Il cambio della nave però non si rivelò così buono, come dapprima i filibustieri avevano sperato, quantunque quel veliero valesse infinitamente di più della sgangherata fregata destinata ormai a inabissarsi.
Anche la nave spagnola aveva assai sofferto per l’uragano e per il razzo di mare, che l’aveva sorpresa alcune ore dopo che si era rovesciato sulla fregata: essa aveva perduto il timone, tutta la murata poppiera e gli attrezzi sopra coperta. Per di più, l’equipaggio aveva affermato a Morgan che da otto ore la nave faceva acqua e che esso aveva pompato tutta la giornata per vuotare la sentina che si era riempita.
Comunque fosse, i corsari si ritenevano più sicuri su quel legno che sul rottame, avendo l’alberatura quasi intatta e legname sufficiente per costruire un nuovo timone.
«Signora» disse Morgan a Jolanda, che aveva lasciato il rottame assieme a Carmaux ed a Wan Stiller, salendo sul veliero. «Credevo di essere più fortunato, tuttavia non dispero di poter condurre questa nave alla Tortue. Abbiamo fra noi degli abili carpentieri, che non si troveranno imbarazzati a turare la falla ed a costrurre un nuovo timone o meglio a finire quello che gli spagnoli avevano cominciato».
«Ho sempre avuta piena fiducia in voi, signor Morgan» rispose la fanciulla «e questa fiducia non verrà meno neanche ora».
«Wan Stiller conduci la signora nel quadro, e tu, Carmaux, preparale la migliore cabina. I prigionieri ne faranno a meno e si accontenteranno del frapponte».
«Andiamo, compare» disse il francese, volgendosi verso l’amburghese. «Prepareremo alla signora di Ventimiglia un grazioso nido».
Erano appena scesi nel salotto del quadro che era rimasto illuminato, quando Jolanda si arrestò, mandando un grido di sorpresa.
Si era fermata dinanzi ad una miniatura sospesa ad una parete, che raffigurava la testa d’un vecchio dalla barba e dai capelli bianchi e dall’aspetto severo.
«Che cosa avete, signora?» chiese Carmaux.
«Io ho veduto nel mio castello di Ventimiglia una miniatura identica a questa!…» esclamò Jolanda.
«Ventre di pescecane!…» gridò Carmaux, facendo un passo indietro. «Lui!… Diciassette anni non me lo hanno fatto scordare!…»
«Tuoni d’Amburgo!…» esclamò Wan Stiller. «Sì, lui!… Come questa miniatura si trova qui?…»
«Avete visto quell’uomo?» chiese Jolanda con una certa agitazione.
«L’abbiamo conosciuto, signora» rispose Carmaux, con aria imbarazzata, facendo contemporaneamente a Wan Stiller un rapido cenno.
«Chi è?»
«Era un governatore spagnolo che diede molto da fare ai corsari della Tortue».
«E come si trova nel mio castello di Ventimiglia una miniatura precisa a questa?» chiese Jolanda. «Che l’aavesse portata dall’America mio padre?»
«Certo, signora» rispose Carmaux. «L’avrà avuta, nella divisione del bottino ricavato dal sacco di Vera Cruz».
«Strana combinazione!… Trovare qui la medesima miniatura!… Sì, sono i suoi occhi, le fattezze del suo viso sono identiche, l’espressione dura è la medesima. Io desidererei sapere a chi appartiene».
«Probabilmente al comandante della nave. Cercheremo d’interrogarlo. Andate a riposarvi, signora, è già la una del mattino».
Apersero varie cabine e trovatane una che pareva non fosse stata abitata da alcuno e arredata con una certa eleganza, la pregò di entrare e di coricarsi nel bianco lettuccio che ne occupava il centro.
Quando Carmaux e Wan Stiller furono tornati nel salotto, due esclamazioni sfuggirono simultaneamente dalle loro labbra:«Suo nonno!»
«Il duca di Wan Guld!»
«Compare Stiller, bisogna sapere come questo quadrettino si trova qui. Io sono certo di non ingannarmi, è lui!…»
«Mi pare di vedermelo ancora dinanzi, la notte che comparve sul cassero della sua nave, colla fiaccola in mano, fra i due barili di polvere» disse l’amburghese. «E mi pare ancora, nel mirarlo, di udire lo spaventevole rimbombo che ne seguì e di vedere la vampa alzarsi verso il cielo. Te ne ricordi, Carmaux?»
«Perbacco!… Mi sento correre ancora indosso un brivido tutte le volte che ci penso. Compare, cerchiamo di sapere a chi appartiene questa miniatura. Non sono meno curioso della signora di Ventimiglia».
«Andiamo a chiederlo al capitano del veliero».
«Sarà meglio interrogare qualcuno dell’equipaggio, il pilota per esempio».
«Andiamo Carmaux».
«Vuotiamo prima questi due bicchieri, che sono rimasti miracolosamente diritti e che il capitano ed i suoi ufficiali si sono dimenticati di tracannare.
I due compari, che ci tenevano a bagnarsi l’ugola quando si presentava l’occasione, vuotarono d’un fiato le due tazze, poi passarono nel frapponte dove si trovavano allineati su due ranghi e legati i prigionieri, guardati dagli otto corsari.
Carmaux s’accostò ai camerati, sussurrò loro qualche parola, poi s’accostò ad un vecchio marinaio dalla barba bianca, che supponeva fosse uno dei piloti e, dopo d’averlo slegato, lo trasse in un angolo, dicendogli:
«Ti prometto del tabacco e anche una bottiglia se mi darai una indicazione che mi urge» gli disse.
«Parlate» rispose lo spagnolo.
«Tu conosci il quadro della nave?»
«Vi sono sceso un centinaio di volte».
«A chi appartiene quella miniatura appesa a una delle pareti?»
«Una testa di vecchio?»
«Sì, sì» disse Carmaux.
«Al viaggiatore che abbiamo imbarcato nella baia di Macuira, all’uscita del golfo dei Caraibi».
«Mostratemelo».
«È il primo della seconda fila, quello che si trova presso il capitano. Un gran signore, a quanto pare, qualche gentiluomo di certo».
Carmaux fissò gli sguardi sull’uomo indicato, che era lo stesso che aveva spezzata la spada all’intimazione di arrendersi.
«Non lo conosco e non l’ho di certo mai veduto» mormorò Carmaux dopo un attento esame. «Eppure… guardalo anche tu, Wan Stiller».
«Il lampo di quegli occhi non ti è nuovo, è vero camerata?» chiese l’amburghese. «Ricorda il vecchio Wan Guld».
«Chi è quell’uomo?» chiese il francese, volgendosi verso lo spagnolo.
«Non lo so, signore».
«Quando lo avete imbarcato?»
«Otto settimane or sono».
«Era solo?»
«No, aveva con sé parecchi ufficiali che sono però rimasti a terra».
«Siete rimasti sempre in mare fino ad oggi?»
«Siamo stati a Cuba ed ora tornavamo sulle coste del Venezuela».
«Non sai dirmi da dove veniva quell’uomo, quando lo imbarcaste nella baia di Macuira?»
«Lo ignoro, ma sono certo che il capitano lo aspettava, essendo noi rimasti una settimana nascosti entro la baia, senza fare alcun carico. Vi dico però che deve essere qualche pezzo grosso, a giudicarlo dal modo con cui lo trattava il comandante. Era lui che dava gli ordini a bordo».
«Avrai il tabacco e la bottiglia» disse Carmaux, riconducendolo tra i prigionieri.
«Chi credi possa essere?» chiese Wan Stiller, quando risalirono in coperta, dove i filibustieri lavoravano a tutta lena alle pompe per vuotare la sentina, onde permettere ai carpentieri di scoprire la falla e di turarla.
«Deve essere lui!»
«Chi lui?»
«Cerchiamo don Raffaele e, se non parlerà, parola di marinaro, lo getterò in mare».
Si era messo a correre per la tolda, cercando fra i gruppi dei marinai e dei prigionieri della fregata che erano stati lasciati ancora liberi, il piantatore e lo trovò, finalmente, seduto su un rotolo di gomene, colla testa fra le mani e gli occhi fissi sul tavolato.
«Non è il momento di sognare questo, don Raffaele» gli disse Carmaux, scuotendolo.
«Non è ancora finita dunque la mia triste esistenza?» chiese il poveraccio con un sospirone. Che cosa volete?»
«Ditemi, se vi mostrassi il governatore di Maracaybo, il conte di Medina, lo riconoscereste?»
«Non sono ancora interamente imbecillito» rispose il piantatore.
«Egli è qui, sapete?»
Don Raffaele s’era alzato di colpo.
«Scherzate?» chiese. «È impossibile!…»
«Vi dico che è qui» ribatté Carmaux.
«Su questa nave?»
«Sì, e sono certo che, vedendolo, lo riconoscerete subito».
«Voi avete sognato?»
«Venite dunque, testardo».
«Andiamo» disse il piantatore. «Non ho ancora perduta la vista».
«Compare», disse Wan Stiller «ti devi essere ingannato».
«Aspetta, prima di pronunciarti» rispose il francese. «Io sono convinto di avere indovinato giusto. Un altro uomo che non fosse o suo figlio o qualche suo stretto parente, non potrebbe possedere la miniatura di Wan Guld. Siamo sulla buona strada, te lo dico io, ed il capitano Morgan rimarrà ben sorpreso quando apprenderà che valore ha la sua preda».
Il piantatore, un po’ trascinato da Carmaux e un po’ sospinto dall’amburghese, scese nel frapponte, dove si trovavano ancora i prigionieri, illuminati da due lanterne sospese al soffitto.
«Guardate il primo di quella fila, don Raffaele» disse Carmaux, spingendolo innanzi. «Guardatelo bene e, prima di dirmi se lo conoscete o no, pensateci due volte».
Il piantatore aveva appena fissati gli sguardi sul gentiluomo, quando un grido gli sfuggì:
«Voi siete uno stregone!».
«È lui?»
«Sì».
«Il conte di Medina?»
«E di Torres».
«Il bastardo del duca?»
«L’ho veduto cento volte e si è degnato di parlare con me».
«Lo sospettavo!» esclamò Carmaux. «Ecco una preda che ci consola di aver dato l’abbordaggio ad una nave che valeva ben poco.
«Il capitano Morgan ne sarà ben lieto».
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mentre Carmaux, tutto lieto della scoperta fatta, si recava ad informare il filibustiere, un uomo che nessuno dei due corsari e nemmeno don Raffaele avevano osservato, perché si era fino allora tenuto nascosto dietro il tronco inferiore dell’albero di trinchetto, presso la scassa, si era bruscamente alzato, mandando una sorda imprecazione.
Era il capitano Valera, il quale, sospettando qualche cosa, li aveva silenziosamente seguìti e si era collocato così vicino a loro, da non perdere una sola sillaba.
«Quella canaglia di piantatore lo ha tradito» mormorò. «Non mi ero ingannato, sospettando che fosse stato lui a condurli nel monastero. Ho fatto bene a sorvegliarlo. A suo tempo ti pagherò come meriti».
Si diresse verso i corsari di guardia, chiedendo loro:
«Permettete di salutare un mio compatriota?»
«Non abbiamo ordini per impedirvelo» rispose uno dei filibustieri. «Fate pure».
«Grazie» rispose il capitano. «Ho trovato qui una vecchia conoscenza».
Passò dietro la seconda fila dei prigionieri e si accostò al governatore di Maracaybo, che stava seduto su una curcuma, tutto concentrato in sé stesso.
«Ho molto dispiacere di trovarvi qui, signor conte» gli disse, sedendoglisi presso. «Sarete però anche voi molto sorpreso di vedermi».
Il governatore si volse vivamente, e fece un gesto di stupore.
«Voi, capitano!» esclamò. «Possibile!…»
«In carne ed ossa, signor conte» disse Valera. «Non sono stato più fortunato di voi, la fregata che montavo fu catturata da quel dannato Morgan, che il diavolo se lo porti all’inferno».
«Quale fregata?» chiese il conte.
«Ignorate dunque che, dei sei legni che dovevano distruggere i corsari, tre sono stati distrutti dai filibustieri?»
«E i nostri si sono lasciati fare a pezzi?» disse il governatore, con ira. «Sono dunque invincibili questi filibustieri!»
«Io li credo tali, signor conte» rispose il capitano.
«È vero che hanno saccheggiato anche Gibraltar?»
«Sì».
«E la figlia del Corsaro è sempre al sicuro?»
«No, signor conte, è in mano di Morgan».
Il governatore aveva fatto un soprassalto, accompagnato da un gesto di furore.
«In mano dei filibustieri!» mormorò con voce fremente. «Che cosa mi narrate voi?»
«Che è qui, a bordo di questa nave».
«Chi mi ha tradito?»
«Non io di certo, signor conte».
«Narratemi tutto, tutto!» disse il gentiluomo, mordendosi rabbiosamente le dita.
Il capitano non se lo fece dire due volte, e gli raccontò brevemente quanto gli era accaduto, dopo la presa di Maracaybo da parte dei filibustieri.
Il conte di Medina lo aveva ascoltato senza interromperlo, diventando, volta a volta, ora smorto ed ora rosso, come fosse lì lì per coglierlo un colpo.
«Maledetti!… Maledetti!…» mormorò coi denti stretti, quando il capitano ebbe finito. «Chi può avermi riconosciuto?»
«Quel piantatore, don Raffaele Caldara, che ho visto poco fa coi due filibustieri, Carmaux e Wan Stiller».
«Io ho udito ancora questi nomi».
«Erano i due fedeli che accompagnavano sempre il Corsaro Nero».
«Sì, mio padre mi aveva parlato di loro. Spero che quel traditore non vivrà a lungo».
«M’incarico io di farlo sparire», rispose il capitano, «tanto più che sospetto sia stato lui a guidare i due filibustieri al convento».
«Che fare ora? Morgan non accetterà alcun riscatto da me e mi terrà prigioniero, se conosce i miei progetti sulla figlia del Corsaro».
«Su vostra nipote, signor conte» corresse il capitano.
Il governatore gli lanciò un’occhiata feroce.
«No» disse «i miei progetti sulla figlia dell’uomo che fu fatale a mio padre e che mi tolse, sposando la duchessa, una immensa fortuna. La lotta però è appena cominciata e Morgan, giacché si è creato il protettore della signora di Ventimiglia, troverà in me un avversario implacabile!»
«Per questo occorre che voi siate libero, signore»
«Posso contare su di te?»
«Sempre, signore. Cosa devo fare?»
«Impedire che questa nave ci trasporti alla Tortue».
«Non sarà impresa facile».
Un sorriso contrasse le labbra del conte.
«Che cosa ci vuole per rovinare una nave? Una falla aperta al momento opportuno; un barile di polvere che accidentalmente prende fuoco e la rovina parzialmente; dei cannoni che spezzano i freni…»
«Ho già fatto questo giuoco, signore, per rovinare la fregata e sarebbe pericoloso ripeterlo» disse il capitano con un soffio di voce. «Ne so abbastanza; però metterò in esecuzione una mia idea».
«Hai amici su cui contare qui?»
«Due soldati della guarnigione di Maracaybo che mi sono fedeli».
«Prometti loro senza contare le piastre a nome mio…»
Una voce che risuonò all’estremità del frapponte che fece trasalire il capitano, lo interruppe.
Era Carmaux che gridava:
«Conducete nel quadro il gentiluomo. È aspettato».
«Morgan vuole parlarvi» disse il capitano. «Negate tutto e giuocate d’astuzia».
«Sarò un avversario degno di lui» disse il conte, alzandosi. «Vedremo chi proverà che io sia realmente il governatore di Maracaybo».
Capitolo diciassettesimo. Due rivali formidabili
Quando il conte di Medina entrò nel quadro, trovò Morgan solo, appoggiato alla tavola che occupava il centro del salotto, su cui stavano ancora i bicchieri vuotati da Carmaux e da Wan Stiller.
Il filibustiere, vedendolo entrare, aveva spinto innanzi due sedie, dicendo con voce secca:
«Sedete, signor conte; abbiamo da parlare di cose importanti».
«Conte!…» esclamò il governatore di Maracaybo, fingendo un gesto di stupore. «Ecco un titolo che sarei lieto di avere, ma per ora non lo possiedo. Vi siete ingannato, capitano Morgan, chiamandomi così».
«Ne siete ben convinto?» chiese il filibustiere con accento leggermente beffardo.
«Io sono don Diego Miranda, e null’altro. Non ho mai avuto alcun titolo nobiliare».
«Piantatore forse?»
«Fabbricante di cioccolatto a S. Domingo».
«Possibile che io mi sia ingannato o meglio che si siano ingannati coloro che avevano conosciuto in piena funzione il governatore di Maracaybo?» disse Morgan, sempre beffardo. «Signor conte di Medina, è meglio che giuochiamo a carte scoperte».
«Conte di Medina!» esclamò il figlio del duca. «È uno scherzo questo, capitano Morgan, per aumentare il prezzo del riscatto? Se si tratta di piastre, parlare pure. Sono abbastanza ricco per pagare e vi prego fin d’ora, di voler fissare la somma necessaria per riacquistare la mia libertà».
Morgan si mise a ridere; era però un riso secco, che non si udiva certo con piacere e che fece sussultare il conte.
«Un riscatto» disse. «Non vi ho fatto chiamare per spillarvi alcune migliaia di piastre. Non ho terre e castelli come quel grande gentiluomo che fu il Corsaro Nero, tuttavia sono oggi ricco a sufficienza. E poi che importa a me l’oro? Signor conte, figlio del duca di Wan Guld, sia pure nato da altra donna, gettate la maschera».
«Quale?» chiese il governatore con voce sardonica.
«Quella che cercate di applicarvi al viso per nascondere il vostro vero essere».
«Dunque io sarei?»
«Il conte di Medina e Torres, governatore di Maracaybo».
«Un bel nome ed un bel titolo» disse il gentiluomo. «Vi hanno ingannato per bene coloro che vi hanno detto ciò».
Morgan, che cominciava ad impazientirsi, tese una mano verso la miniatura appesa alla parete, che rappresentava il duca di Wan Guld.
«Ebbene, signor conte, negate ora, se l’osate, che quell’uomo non sia vostro padre. Lo conobbi troppo bene, quando lottava ferocemente contro il Corsaro Nero, a cui aveva prima ucciso nelle Fiandre il fratello maggiore, a tradimento e poi impiccati qui, in America, gli altri due: il Corsaro Verde ed il Rosso. Negatelo!…»
Il conte era rimasto silenzioso.
«Negatelo dunque» ripeté Morgan. «Quella miniatura vi appartiene».
«Chi ve lo ha detto?» chiese il conte. «Chi fu il miserabile che mi ha tradito? Maledizione su di lui. Ebbene sì, io sono il conte di Medina e Torres, figlio del duca di Wan Guld e della marchesa di Miranda, e governatore di Maracaybo… Che desiderate ora da me?»
«Sapere una sola cosa» disse Morgan.
«Quale?»
«Perché avete mandato delle navi ad impadronirsi della figlia del Corsaro, della signora Jolanda di Ventimiglia?»
«Voi volete sapere troppo, capitano Morgan» disse il conte. «Sono affari che riguardano me solo e non i filibustieri della Tortue».
«Voi avete dimenticato che il Corsaro Nero fu uno dei più grandi capitani della filibusteria e che, come tale, sua figlia ha diritto alla nostra protezione».
«La protezione di ladri di mare, di uomini posti fuori della legge!» disse il conte con un sorriso ironico. «Bei gentiluomini, in fede mia!…»
Una vampa d’ira era salita sul viso di Morgan. La sua destra si posò rapidamente sulla guardia della spada ed estrasse a metà il ferro dalla guaina.
«Uccidetemi, o meglio assassinatemi» disse il conte con voce pacata, aprendosi il giubetto e mostrando la bianca camicia di seta. «Il cuore batte qui».
Quella calma e quelle parole, furono come una doccia gelata per il filibustiere.
«Morgan si batte, ma non assassina» disse ringuainando il ferro. «Avete la lingua che taglia, signor conte».
«La mia spada taglierebbe di più» rispose arditamente il figlio di Wan Guld.
«Lo vedremo, se un giorno noi ci incontreremo l’uno di fronte all’altro, col ferro in pugno».
«Accetto fin d’ora la sfida».
«Volete rispondere alla mia domanda?»
«Vi ho detto che sono affari che riguardano la mia famiglia».
«Voi odiate la signora di Ventimiglia».
«È possibile che io possa odiare la figlia di colui che causò la morte di mio padre, il duca di Wan Guld».
«Il Corsaro Nero non lo uccise. Fu vostro padre che diede fuoco alle polveri, quando la Folgore abbordò la sua fregata. Io ero presente a quella tragica scena. D’altronde, il Corsaro aveva dei gravi motivi per odiare vostro padre, che gli aveva assassinati tre fratelli».
«Ma non di abbandonare sulle onde del Mare dei Caraibi, colla tempesta che stava per iscoppiare, la figlia legittima di mio padre, Honorata di Wan Guld».
«Il Corsaro Nero aveva giurato di sterminare tutti coloro che portavano quel nome nefasto e l’aveva giurato sulle salme dei suoi fratelli, il Corsaro Rosso ed il Verde. D’altronde Honorata, sfuggita miracolosamente alla tempesta, non solo gli perdonò, ma divenne persino sua moglie».
«Ebbene anch’io ho giurato… Ho raccolta l’eredità di mio padre».
«Nelle vene della signora di Ventimiglia scorre il sangue della vostra famiglia».
«Mia madre non era quella di Honorata; io non sono un Wan Guld, sono un bastardo» disse il conte, con amarezza.
Si passò una mano sulla fronte, come per scacciare un triste pensiero, poi disse, quasi con impazienza:
«Orsù, che cosa volete fare di me?»
«Promettetemi di rinunciare ai vostri disegni, che non possono essere se non malvagi, sulla signora di Ventimiglia e di lasciare per sempre le colonie spagnole dell’America, ed io vi porrò in libertà».
«Non sperate di strapparmi una simile promessa» disse il conte con voce energica.
«Allora vi condurrò alla Tortue e vi rimarrete prigioniero finché avrete cambiato idea».
«Fate pure».
«Vi avverto che, fino all’arrivo, voi rimarrete chiuso in una cabina e guardato a vista, non desiderando io che la signora di Ventimiglia sappia che voi siete a bordo».
«Ah!… Ella è qui!…» esclamò il conte, fingendo la più viva sorpresa.
«Non lo sapevate?»
«Nessuno me lo disse».
«Non createvi delle illusioni».
«Che cosa volete dire, signor Morgan».
«Lasciate ogni speranza di poter agire contro di lei».
Il conte alzò le spalle senza rispondere. Appena però Morgan gli ebbe voltato il dorso per chiamare gli uomini che vegliavano al di fuori in attesa del prigioniero, un sorriso sinistro gli apparve sulle labbra, mentre una cupa fiamma gli balenava negli occhi.
«Signor conte» disse Morgan, lasciando entrare i due corsari di guardia. «Seguìte questi uomini».
«Sta bene» rispose il governatore.
E uscì colla fronte alta, senza tradire la menoma apprensione e senza nemmeno salutare il suo nemico.
«Ecco un uomo capace di darmi molto da fare» mormorò Morgan, quando si trovò solo. «Sarà meglio affrettarci ad approdare alla Tortue. «In mare non dormirò tranquillo finché vi sarà a bordo costui. Carmaux!…»
Il francese, che forse s’aspettava quella chiamata e che fumava sull’ultimo gradino della scala in compagnia dell’inseparabile amburghese, fu lesto ad accorrere.
«Che cosa vuole il signor Morgan?»
«Affido a te ed all’amburghese la sorveglianza del conte. Non è necessario che ti dica che egli è un pericoloso personaggio».
«È il figlio di Wan Guld, del terribile vecchio che ha dati al Corsaro Nero tanti fastidi» disse Carmaux. «Io ed il mio compare Wan veglieremo a turno dinanzi alla sua cabina».
«E non una parola alla signora di Ventimiglia, sulla presenza del conte. Forse non vivrebbe più tranquilla, sapendolo a bordo».
«Non siamo che in quattro a conoscerlo, e se don Raffaele parla, lo butto ai pesci».
«Lavorano i carpentieri?»
«Sono tutti nella cala e pare che la falla sia più larga di quanto supponevano gli spagnoli.
«Non potremo rimetterci alla vela prima di domani a sera».
«Andrò io ad accelerare i lavori. Va’, Carmaux, e apri gli occhi».
Il francese raggiunse l’amburghese, che non aveva abbandonato il suo posto.
«Acqua in bocca, compare, su quanto è avvenuto. È l’ordine».
«Non parlerò».
«Hai veduto don Raffaele?»
«Mi pare di averlo scorto poco fa sul castello di prora».
«Andiamo a cercarlo».
Attraversarono la tolda, dove una parte dell’equipaggio, aiutato da parecchi prigionieri spagnoli della fregata, lavorava accanitamente alle pompe, per vuotare la sentina e salirono sul castello, ma non riuscirono a scorgerlo.
Percorsero nuovamente la coperta, guardando sotto le vele che erano state calate in coperta e fra i rotoli di cordami; poi scesero nelle batterie interrogando i loro camerati, visitando perfino la camera comune dell’equipaggio e le dispense senza trovarlo.
«Questa sparizione è misteriosa» disse l’amburghese. «Che quel pauroso, temendo qualche vendetta da parte del governatore, sia fuggito?»
«E dove?» chiese Carmaux. «È più probabile che si sia annegato. La desiderava tanto la morte!…»
«È impossibile che abbia presa una così disperata risoluzione; cerchiamolo ancora, compare».
Alcuni amici, informati della scomparsa del piantatore, si erano uniti a loro, visitando la nave dalla tolda alla cala; dovettero finalmente convincersi che quel povero uomo non si trovava più a bordo del veliero.
Uno dei prigionieri della fregata aveva detto loro che, trovandosi pochi minuti prima sul cassero, gli pareva di aver udito un tonfo, come se un corpo o qualche attrezzo fosse caduto in mare.
«Si è annegato» disse l’amburghese. «Mi rincresce, parola di marinaio, perché, quantunque spagnolo, era un buon uomo».
«O l’hanno invece annegato?» disse Carmaux.
«E chi?» chiese l’amburghese, che era stato profondamente colpito da quelle parole.
«Qualcuno che forse sospettava di lui».
«Il capitano Valera?»
«Chi lo sa?»
«Avrebbe gridato e opposta qualche resistenza».
«Possono averlo prima pugnalato a tradimento od imbavagliato».
«Eppure ho scorto poco fa il capitano giù nel frapponte, che chiacchierava tranquillamente col capitano del veliero» disse l’amburghese.
«Comunque sia, mi rattrista la miseranda fine di quel buon diavolo, che ci ha reso tanti servigi. In guardia, amburghese. Il governatore è affidato alla nostra sorveglianza e dobbiamo tenere gli occhi aperti. Quello è il più pericoloso di tutti!…»