Kitabı oku: «La favorita del Mahdi», sayfa 24
CAPITOLO VIII. Notis in trappola
El-Obeid, quartiere generale del Mahdi, è la città più bella, più popolosa e più fortificata del Kordofan, di cui è pure la capitale.
Essa sorge nel mezzo di una immensa pianura ondulata, ed è difesa da bastioni di terra e di mattoni cotti al sole, ma in gran parte ruinati in seguito ai ripetuti assalti che dovettero sostenere nell›ultimo assedio.
È divisa in cinque differenti quartieri abitati da una popolazione che supera le 35,000 anime; uno è abitato dai dongolesi, l’altro dai mercanti esteri, il terzo dai coloni di Barnou, il quarto dei nativi di Darfur e così via.
Il principale quartiere chiamato El-Orfa, contiene gli edifizi governativi, delle piccole moschee, una casa ad un piano abitata prima dal governatore egiziano, una caserma, un magazzino di polvere ed una filiale dello missioni cattoliche di Chartum, tutta ruinata dai guerrieri del Mahdi che la saccheggiarono dopo la presa della città.
Tutte le altre case sono misere capanne circolari di venti piedi di diametro, con mura in argilla alte quattro o cinque piedi e sormontate da un tetto conico di paglia disposto in istrati regolari e impenetrabili alla pioggia. Ogni famiglia ne possiede di queste capanne, chiamate tokles, quel numero che è sufficiente ai suoi bisogni ed il gruppo è quasi sempre circondato da una siepe di spine e ombreggiato da palmizi che danno alla città un pittoresco aspetto.
Il Mahdi se ne era impossessato il 15 gennaio 1883 e ne aveva fatto il suo quartier generale, fortificandola alla meglio che aveva potuto e facendola occupare da una parte delle sue orde che bivaccavano nelle vie e nelle piazze sotto tugul improvvisati e sotto tende.
Quando Abù-el-Nèmr e quelli che lo seguivano scambiate alcune parole coi guerrieri che vegliavano dinanzi alla porta, entrarono, la città era ancora addormentata.
Nè per le vie, nè per le piazze scorgevasi anima viva; nè da alcuna capanna trapelava un raggio di luce che desse indizio che entro si vegliava.
Persino i guerrieri del Mahdi che accampavano all’aperto, russavano sotto i tugul di paglia o sotto le tende curvate per la pioggia che cadeva a torrenti allagando le polverose strade.
Il silenzio funebre che regnava nella città, era rotto di quando in quando da un colpo di tuono secco secco che faceva tremare i tugul e dal lugubre scricchiolar delle palme violentemente scosse dal vento del sud-est.
Abù-el-Nèmr, dopo di aver esitato alcuni istanti, prese la via che menava al quartiere di El-Orfa, spingendo il cavallo al piccolo trotto. Notis e il suo compagno, tirato il fiato, gli si misero bravamente dietro, determinati a sapere dove andasse a finire e sicuri di scoprire qualche cosa di nuovo che li riguardava.
Venti minuti dopo lo scièk si arrestava dinanzi a una capanna piuttosto malandata, situata all’estremità del quartiere e circondata da un orticello nel quale crescevano superbi tamarindi. Dalle fessure delle pareti trapelavano dei raggi di luce.
— Oh! fe’ Notis, arrestandosi di botto e aprendo bene bene gli occhi. Il birbante ha delle persone che lo aspettano. Ira di Dio! Qui sotto gatta ci cova.
Abù-el-Nèmr spostò un lembo di siepe che racchiudeva l’orticello, condusse il cavallo sotto una piccola tettoia poi battè tre volte le mani.
La porta della capanna si aprì lasciando vedere un gran fascio di luce, poi si rinchiuse dietro lo scièk.
— Medinek, disse Notis, volgendosi al compagno. Chi abita in quel tugurio?
— Non lo so, rispose il guerriero. Una volta quella capanna era deserta.
— Bisogna sapere a qualsiasi costo chi la abita.
— Uhm! Non è cosa tanto facile. Non trovo altro mezzo che quello di salire sul tetto e di appoggiare gli occhi alle canne.
— Andiamo sul tetto, Medinek.
— Noi corriamo il rischio di venire scoperti.
— Hai il tuo jatagan? -
— Sì.
— Hai paura?
— Non lo credo.
— Allora andiamo concluse il greco.
In pochi minuti raggiunsero l’orticello e vi entrarono. Medinek appoggiò un orecchio alla parete per udire se giungeva fino a lui qualche parola, ma non udì che un mormorio indistinto.
— Saliamo, mormorò egli.
— Sta saldo, rispose il greco.
S’arrampicò sulle spalle del guerriero, si aggrappò ai travicelli che formavano l’ossatura del tetto e con un salto giunse in cima.
Stendere le mani al compagno e tirarlo su, fu l’affare di un istante.
— Là, così, borbottò il greco soddisfatto. Ora apriremo un pertugio che ci permetterà di vedere senza essere veduti. Ci bagneremo fino alle ossa, ma ciò che udremo compenserà largamente il bagno.
Trasse l’jatagan, lo cacciò senza far rumore tra le canne inzuppate d’acqua, e lentamente, con infinite precauzioni, praticò un forellino appena capace di lasciar passare due dita. Ciò fatto si distese sul ventre, accostò l’orecchio al pertugio e guardò attentamente, nell’interno della capanna, senza occuparsi della pioggia che lo innondava.
Due uomini erano seduti presso un braciere che spandeva all’intorno una vivissima luce. In uno di essi, Notis conobbe lo scièk Abù-el-Nèmr, ma l’altro non fu capace di vederlo in volto pel motivo che volgevagli le spalle, ma si accorse che era un negro.
— Non monta, bisbigliò il birbante. Lo saprò più tardi chi esso sia. Zitto ora, e non perdiamo una parola.
La conversazione fra lo scièk e il padrone della capanna era di già cominciata.
— Come ti dissi, diceva Abù-el-Nèmr, mi sono presentato questa sera istessa a Mohammed Ahmed. Egli mi ha accolto con molta gioia e mi ha subito parlato dell’uomo che noi cerchiamo.
— Oh! esclamò il suo compagno, facendo un balzo sull’angareb. È proprio vero quello che tu dici?
— Te lo giuro. Egli mi parlò di Abd-el-Kerim.
— E dunque?
— Mi narrò che lo aveva dato in mano ad un uomo che aveva molto insistito per averlo.
— In mano ad un uomo?
–Sì.
— Era un bianco quell’uomo? chiese il negro con viva emozione.
— No, un beduino.
— Respiro, Abù-el-Nèmr. Avevo paura che fosse.
— Chi mai? Forse il rivale di Abd-el-Kerim?
— Appunto credevo che fosse il greco Notis. Ma quale interesse poteva avere quel beduino per averlo in sua mano? Qui sotto ci deve essere qualche raggiro, qualche mistero che bisogna svelare.
— È quello che penso pur io, tanto più che quel beduino scomparve dal campo, nè fu possibile scoprirlo.
— Che sia il greco dipinto? Non so ma il cuore mi batte forte forte e mi sento assalire da forti sospetti.
Notis, che non avea perduto sillaba di quel colloquio, involontariamente rabbrividì.
— Ira di Dio! borbottò. Che mi abbiano scoperto? Chi può essere mai quel negro d’inferno che indovina le cose tanto bene? Ragazzo mio, se posso averti sotto le unghie non ti risparmierò. Udiamo la fine.
— Ad ogni modo, ripigliò il negro, staremo in guardia. Non credo che quel birbante sia ancora vivo nè abbia avuto tanto fegato da spingersi fino a El-Obeid. E che ti disse Ahmed?
— Egli mi promise di cercare attivamente quel beduino. Per ogni precauzione, sarà bene che avvisiamo Fathma di stare in guardia.
— Non mancherò di farla avvisare.
— L’hai condotta dove ti dissi?
— Sì, rispose il negro. All’estremità della zeribak dei prigionieri le ho costruito una bella capanna.
Notis si rizzò sulle ginocchia così in furia che il tetto gemette. Fu con grande fatica che rattenne il grido di sorpresa e di gioa che stava per isfuggirgli dalle labbra.
— Nella zeribak dei prigionieri! esclamò, tremando per l’emozione. Fathma fra i prigionieri!… Per Dio!…
— Che hai? chiese Medinek.
— Scappiamo!
— Siamo stati scoperti?
— No, ho saputo ove si trova la donna che cerco.
— Ah!… E dov’è?
— Nella zeribak dei prigionieri.
— I furbi!
— Andiamocene Medinek. Non bisogna perder tempo.
Il guerriero si alzò in furia. Quella brusca mossa tornò a far gemere il tetto.
— Ira di Dio! brontolò il greco. Fa piano, animale.
— Chi va là? chiese in quell’istante Abù-el-Nemr.
Notis, quantunque fosse coraggioso, provò un brivido e rimase immobile. Medinek invece saltò giù dal tetto cadendo sopra una tavola di legno che si spezzò con fracasso.
La porta della capanna si aprì e lo scièk e il suo compagno comparvero con dei tizzoni accesi.
— Alto là! gridò lo scièk, vedendo il guerriero che scalava rapidamente il recinto dell’orticello.
Medinek invece di arrestarsi precipitossi nella via allontanandosi a tutte gambe.
— Ah! razza di un cane! gridò lo scièk, sparandogli dietro un colpo di pistola.
— Che abbia udito i nostri discorsi? chiese il suo compagno. Se lo inseguissimo?
— A quest’ora deve essere assai lontano poichè correva come un cervo. Chi può essere e quale scopo lo spinse a salire sul tetto della capanna? amico mio, non vedo chiaro in questa faccenda,
— E neppur io se vuoi che te lo dica francamente. Era almeno solo?
— Non ne ho visto che uno, ma faremo bene a dare un’occhiata sul tetto. Chissà, potrebbe darsi che lassù, si tenesse celato qualche altro curioso. Fammi la scala che io salga.
— Prendi l’altra pistola e armala. Non si sa mai quello che può accadere.
— Hai ragione, amico mio. Orsù, sta fermo che salgo sulle tue spalle.
In quella sul tetto s’udì una voce che bestemmiava. Lo scièk e il suo compagno si guardarono in faccia tirando nel medesimo tempo le scimitarre.
— Oh! oh! esclamò Abù-el-Nèmr. Lassù c’è qualcuno. Aspetta un po’ canaglia che ti acconcierò io come si deve.
— Afferralo pei piedi e gettalo giù. Bisogna che cada a qualunque costo nelle nostre mani per vedere con che razza di gente abbiamo da fare, disse il suo compagno, appoggiandosi alla parete della capanna, Per Allàh! Anche questa è bella!
Uno, due....
Abù-el-Nèmr saltò sulle spalle del negro a si aggrappò alla sporgenza del tetto non ostante i torrenti d’acqua che gli cadevano addosso. Prima cosa che vide fu una pistola che lo toglieva di mira a un passo di distanza. Afferrò lestamente la mano che la stringeva e l’attirò violentemente a sè. Un corpo umano scivolò giù dal tetto e cadde pesantemente a terra rimanendo immobile.
Il negro si precipitò sul greco e lo trascinò in fretta nella capanna lasciandolo cadere presso il fuoco.
— L’abbiamo ucciso? chiese lo scièk. Mi dispiacerebbe.
— Perdio! esclamò il negro che si era curvato su quel corpo inanimato. Che vedo?… Sogno forse?… È impossibile!
— Che hai? disse Abù. Conosci, forse, questo mariuolo?
Il negro non rispose. Curvo innanzi, colle pugna strette, gli occhi sbarrati, contemplava il greco. Pareva sorpreso e spaventato.
— Di’ su, lo conosci? ripetè lo scièk.
— Ma sicuro, balbettò il negro. Non mi inganno no, è lui, proprio lui, il birbante, il rapitore, l’assassino… eh! mio caro non mi fuggirai più, te lo dico io. Perdio! Quale incontro! Non me lo aspettavo così presto!
— Lui! Ma chi lui?
— Il nostro mortale nemico, il rivale di Abd-el-Kerim, il greco Notis infine.
— Eh! Sei sicuro di non prendere un granchio? Guardalo bene, amico mio, fissalo ancora.
— Lo guardo, lo fisso, e più che lo guardo più mi assicuro che è lui. Abù, bisogna farlo rinvenire e farlo parlare. Abd-el-Kerim non può essere che in sua mano.
— Ma… e parlerà?
— Vedrai che canterà e molto alto.
Abù-el-Nèmr staccò dal suo turbante una penna d’airone l’abbrustolò al fuoco poi la mise sotto il naso allo svenuto. Un trasalimento nervoso scosse il corpo del greco; distese le braccia, aprì le mani convulsivamente chiuse, emise un sospirone e sbarrò gli occhi arrestandoli sul volto del negro. Un «oh!» di sorpresa e di terrore gli uscì tosto dalle labbra.
Si stropicciò gli occhi più volte, poi gli riaprì tornando a fissare il negro che era sempre curvo su di lui. Divenne pallido come uno spettro e portò le mani alla cintura come se cercasse qualche arma.
— Omar! Omar! esclamò egli a più riprese.
Lo schiavo di Abd-el-Kerim, poichè era proprio lui, proruppe in uno scroscio di risa.
— Si vede, padron Notis, che avete buon occhio, diss’egli. Vi sorprende di trovarmi ancor vivo? Anch’io sono sorpreso di trovarvi qui. Eppure, sul Bar-el-Abiad Fathma vi aveva mandata una palla nelle reni… Perdio! Si vede che avete l’anima incavigliata, padron mio!
Il greco si morse le labbra, e cercò, con un moto repentino, di levarsi in piedi, forse per gettarsi sui due uomini, ma la fredda canna di una pistola che lo scièk gli appoggiò alla fronte lo fece ricadere per terra.
— Sono perduto, pensò il greco.
— Padron mio, ripigliò Omar, col medesimo tono beffardo. Non tentate di fare resistenza se non volete che il mio amico Abù vi scarichi la sua pistola in faccia. State cheto e rispondete alle nostre domande.
— Se speri che io parli, t’inganni di molto, Omar, rispose Notis col tono calmo d’un uomo che nulla teme.
— In tal caso ricorreremo agli estremi espedienti. Che direste se il mio buon amico Abù vi pigliasse i piedi e ve li arrostisse sui carboni accesi.
— Miserabile!
— Potete fare a meno di dispensare dei titoli che non ci fanno nè caldo nè freddo. Orsù, padron Notis, carte in tavola: che avete fatto di Abd-el-Kerim?
— Ah! tu vuoi sapere che feci del tuo padrone? Ebbene ti dirò che egli è morto. Le sue ossa spolpate dai denti delle jene e degli sciacalli, giacciono sulle ardenti sabbie di Kasseg.
— Tu menti! urlò Omar.
— Se non vuoi credermi fa di meno.
— Notis, disse Abù-el-Nèmr. Giochi una partita pericolosissima. Ieri sera parlai con Ahmed, ed egli mi disse che Abd-el-Kerim era in mano tua ed ancor vivo. Come vedi, sappiamo qualche cosa.
Il greco strinse i denti.
— Maledetto Ahmed! esclamò egli.
— Non insultare l’inviato di Dio, se ti è cara la vita. Parla: dove hai nascosto Abd-el-Kerim?
— Non lo saprete nè oggi, nè domani, nè mai!
— Sta bene, disse lo scièk.
Afferrò il prigioniero per le braccia, e lo trascinò accanto al fuoco non ostante la sua disperata resistenza. Omar gli prese i piedi e li accostò alla fiamma.
Notis cacciò fuori un urlo di dolore. La pelle delle piante, al contatto dei carboni accesi s’annerì e si screpolò mostrando la viva carne.
— Basta!..... basta!..... ruggì il greco pazzo di dolore.
— Parlerai? gli chiese le scièk.
— Sì..... basta ira di Dio! Mille tuoni! Volete bruciarmi vivo?
— Vi brucieremo se non sciogliete la lingua, disse Omar, tirandolo indietro.
Il greco, col volto contraffatto per lo spasimo, rotolò al suolo bestemmiando, gemendo e contorcendosi come un serpente.
— Parlate, padron Notis, riprese lo schiavo.
— No, cane maledetto, rettile schifoso. No, e poi no!
— Come vi piace. Abù, rimettiamolo sul fuoco. Gli consumeremo i piedi fino all’osso.
A quell’atroce minaccia, il greco si sentì mancarsi le forze per resistere oltre. Con un gesto della mano arrestò i due tormentatori che si disponevano ad accostarlo al braciere.
— Parlerò… parlerò, balbettò egli. Ma… ad una condizione… Ira di Dio! Mi avete rovinati i piedi! Sentite, ho una sorella… la mia povera Elenka… voi sapete ciò che è avvenuto di lei… non potete negarlo… Ah! cani di negri!
— Avanti, disse Omar.
— Se voi mi direte dove trovasi… Elenka, vi giuro che parlerò… che vi darò in mano… quel maledetto Abd-el-Kerim.
— Ve lo dirò.
— Giuralo.
— Lo giuro sulla barba di mio padre, lo giuro su Allàh, lo giuro sull’Alcorano.
— Parlate, ma non cercate d’ingannarci. Rimarrete qui prigioniero, e se ci avrete ingannati ve ne pentirete.
Il greco per alcuni istanti rimase muto e pensieroso. Perdere Abd-el-Kerim che tanta fatica gli era costato, che tanti pericoli aveva sfidato per averlo in sua mano, e perderlo proprio nel momento in cui credeva di avere in mano anche Fathma, era per lui un terribilissimo colpo. Si vedeva completamente rovinato, vedeva sfasciarsi il progetto, con tanta arditezza e con tanta pazienza condotto quasi a termine. Nondimeno, vedendo che non vi era più scampo di sorta, che non era più possibile giuocare d’astuzia, e smanioso di sapere qualche cosa sulla sorte di sua sorella Elenka, che infine tanto e tanto amava, prese l’eroica risoluzione — se così può dirsi — di confessare ogni cosa, riservandosi a tempi più propizi di riparare al mal fatto e di vendicarsi.
— Uditemi, diss’egli, facendo uno sforzo supremo, Abd-el-Kerim, da parecchi giorni si trova in mia mano. Lo tradii e Ahmed pagò il tradimento cedendomelo. Ieri sera, sospettando qualche cosa d’insolito, lasciai il campo e lo feci trasportare in una capanna che trovasi all’estremità meridionale del Mercato. Quattro uomini lo guardano e non ve lo cederanno che dopo essersi fatti uccidere.... e ora parlatemi di Elenka che più nulla ho da dirvi su Abd-El-Kerim.
— Posso prestar fede alle vostre parole, disse Omar, che fremeva di gioia e d’impazienza.
— A che pro ingannarvi? Non sono in vostra mano?
— Avete ragione. Voi volete sapere che accadde a Elenka, adunque. Mi dispiace sinceramente, ma devo darvi una brutta notizia.
Il greco si levò sulle ginocchia; una viva ansietà era dipinta sul suo volto. Egli guardò Omar con occhi supplichevoli e portò le mani al cuore che battevagli forte forte. Un terribile dubbio gli balenò in mente.
— Oh! Dio… balbettò.
— Devo parlare?
— Sì… lo voglio.
Omar esitò. Pareva che fosse commosso, e chissà, forse lo era veramente.
— Ma parla, ma parla, ripetè con impeto quasi feroce Notis.
— Ebbene, Elenka è morta. Fu uccisa dai ribelli a Kassegh!
Il greco divenne spaventosamente pallido; un urlo gli lacerò il petto.
— Morta! Morta!… ripetè egli con voce rotta, e quell’uomo dall’animo così fiero, così forte, nascose il volto fra le mani e pianse come un fanciullo.
CAPITOLO IX. La zeribak dei prigionieri
Mentre il greco, messo colle spalle al muro e torturato, confessava tutto ciò che i suoi nemici volevano sapere, Medinek, sfuggito miracolosamente alla pistolettata dello scièk Abù-el-Nèmr, trottava come un cavallo per le oscure e fangose vie della città, cercando la capanna dello scièk El-Mactud.
La paura di venir inseguito, preso e forse fucilato, e la paura di giungere troppo tardi dal suo capo gli mettevano le ali ai piedi. Ogni qual tratto però si arrestava colla dritta sull’impugnatura dell’jatagan, e rattenendo il respiro tendeva ansiosamente l’orecchio, parendogli sempre di udire fra gli urli della burrasca che scatenavasi ognor più violentemente, la voce dello scièk Abù-el-Nèmr e i passi di lui, indi ripigliava la sfrenata corsa, tuffandosi fino alle ginocchia nelle pozze d’acqua e sollevando sprazzi fangosi.
Per sua disgrazia faceva tanto oscuro che non gli riusciva di mantenersi sulla retta via. Ora infilava una stradicciuola che non aveva sbocco, ora andava a dare il naso contro una zeribak o contro il recinto d’un giardino e ora batteva vie che non aveva mai percorse.
Non fu che dopo una buona ora di continua corsa che giunse nella gran piazza del Mercato, tutta cinta di capanne e di capannuccie e di piccoli recinti destinati a ricevere i cammelli delle carovane.
Al livido chiaror di un lampo scorse il tugul che cercava, dalle cui fessure trapelavano dei raggi di luce. In pochi salti lo raggiunse, applicando, alla porta semi-sgangherata, un formidabile pugno.
— Chi va là? chiese una voce, appena distinta fra i ruggiti della tempesta,
— Aprite! urlò. Sono Medinek.
La porta si spalancò e apparve sulla soglia lo scièk El-Mactud con una scimitarra in pugno. Scorgendo Medinek egli indietreggiò mandando un grido di sorpresa e di terrore. Aveva indovinato subito che qualche cosa di grave era accaduto.
— Che hai?… perchè sei qui solo? Che è accaduto? chiese egli tutto d’un fiato, trascinandolo accanto al fuoco che ardeva in un angolo del tugul.
— Una disgrazia, El-Mactud. Notis è caduto nelle mani di Abù-el-Nèmr!
Lo scièk tirò un tremendo pugno contro la parete della capanna.
— Tu vuoi burlarti di me! esclamò egli con collera. È impossibile, non lo posso credere. Come! lui, un uomo come lui, forte e coraggioso come un leone, astuto come un serpente, cadere prigioniero! Tu sei pazzo! Tu vuoi spaventarmi.
— Ti giuro sull’Alcorano, scièk, che ho detto la verità.
La collera di El-Mactud cangiossi in profonda costernazione. Il suo volto divenne cenerognolo e la sua fronte si corrugò.
— Tu giuri, mormorò egli con voce tremante. Ma come si lasciò prendere? Di’ su, narra, che sono sui carboni ardenti. B’Allai! Sono tutto scombussolato!
Medinek non si fece pregare. Egli gli raccontò per filo e per segno ogni cosa. La conversazione tenuta fra Abù-el-Nèmr ed il suo compagno, il luogo ove essi avevano nascosta la donna tanto cercata da Notis e infine la presa di quest’ultimo.
— Ma allora è perduto! esclamò lo scièk quando ebbe tutto udito.
— Lo credo anch’io.
— Che hanno fatto del mio povero amico?
— L’ignoro. Ho avuto paura e sono fuggito
— La faccenda è seria, e grave.
— Lo so bene. Che facciamo? Fra pochi minuti lo scièk sarà qui, ne sono sicuro. Egli avrà tormentato il greco per fargli confessare dove ha nascosto Abd-el-Kerim.
— Certamente.
— Se si resistesse colle armi?
— Sarebbe una pazzia. Basta che Abù alzi la voce perchè tutta la guarnigione di El-Obeid accorra a prestargli man forte. Una sua parola sarà sufficiente perchè io lasci la testa in mano al carnefice.
— E dunque? Bisogna prendere una seria decisione.
El-Mactud non rispose. Immobile, curvo, colla fronte stretta fra le mani, pareva annichilito dallo sforzo eccessivo del pensiero. Ad un tratto si raddrizzò. Nei suoi sguardi lampeggiava allora l’imperturbabile audacia di un generale che si risolve ad un cambiamento di fronte sotto la grandine del fuoco nemico.
— Partiamo, diss’egli risolutamente.
— Dove si va?
— Intanto andremo al baobab a nascondervi Abd-el-Kerim, dopo ci recheremo alla zeribak a rapire la donna. Al greco penseremo più tardi, poichè ora è assolutamente impossibile il salvarlo. Andiamo!
Essi passarono nella stanza attigua. Colà, disteso su di un angareb, stava Abd-el-Kerim, ancora in preda al potente narcotico fattogli bere da Notis. Quattro guerrieri armati fino ai denti vegliavano presso di lui.
Ad un cenno di El-Mactud essi alzarono l’angareb con suvvi l’arabo ed uscirono silenziosamente dalla capanna. Medinek si mise dinanzi colla scimitarra sguainata e lo sceicco di dietro col remington sotto il braccio.
All’oriente cominciava ad apparire, fra le tempestose nubi, un po’ di chiaro.
La pioggia andava a poco a poco decrescendo, ma il vento continuava a soffiare con estrema violenza, ingolfandosi con mille gemiti attraverso le fessure dei tugul e contorcendo i rami degli alberi e le grandi foglie delle palme e dei banani. Le vie erano ancora deserte, ma non dovevano tardare a popolarsi. Già alle strette finestre delle capanne cominciava apparire qualche volto color dell’ebano, interrogando, con occhi ancora assonnati, lo stato del cielo.
La comitiva aveva già attraversata la piazza e stava per cacciarsi in una oscura e puzzolente viuzza, quando agli orecchi dello sceicco pervenne un lontano rumore che lo fece trasalire.
Era un brusìo di voci, un calpestìo precipitato, al quale univasi talvolta un tintinnar di scimitarre che battevano la via.
— Alto! comandò egli imbracciando il remington.
— Che succede? chiese ansiosamente Medinek.
— Siamo inseguiti.
Un istante dopo sbucava nella piazza un drappello di guerrieri armati di moschettoni e di lancie. Alla sua testa trottava lo sceicco Abù-el-Nèmr colla scimitarra nella dritta e una pistola nella sinistra.
Tre colpi di fuoco echeggiarono. Un guerriero di El-Mactud gettò un acutissimo grido e precipitò a terra colla testa attraversata da una palla. L’angareb cadde rovesciando Abd-el-Kerim in mezzo al fango della viuzza.
— Fuggite! fuggite! gridò El-Mactud, dandone lo esempio.
Altre tre fucilate rintronarono seguite da un secondo urlo di dolore. Un altro guerriero cadde fulminato. Gli altri, vista la mala parata, si slanciarono dietro El-Mactud che trottava furiosamente.
Abù-el-Nèmr e i suoi guerrieri non si diedero la cura d’inseguirli, e si fermarono presso Abd-el-Kerim; i fuggiaschi invece proseguirono la vertiginosa loro fuga, battendo l’una dietro l’altra sei o sette strade. Non si arrestarono che sotto le mura della città.
El-Mactud, fuori di sè, aveva la spuma alle labbra. Egli sfogava la sua ira con torrenti d’ingiurie all’indirizzo di Abù-el-Nèmr e con una interminabile sfilza di bestemmie, senza pensare che se il Mahdi avesse udito o saputo, non avrebbe esitato un sol momento a fargli saltare la testa con un colpo di scimitarra.
Calmatosi un momento, si diede seriamente a pensare sul da farsi. Egli si trovava in un grande imbarazzo. Perduto Abd-el-Kerim, preso Notis, non rimaneva che battersela al campo e lasciare che le acque corressero pel loro verso. La smania però di vendicarsi dello scacco subìto, gli suggerì una eccellente idea.
— Vi è la donna, pensò egli. Questa donna deve interessare vivamente Abù-el-Nèmr e Abd-el-Kerim. Colpiamoli ambedue in mezzo al cuore facendola sparire. Saprò ben io dopo trovare i mezzi per salvare Notis e riavere l’arabo.
Questo ardito piano calmò la sua ira. Si sdraiò sotto ad un tamarindo, si coprì la faccia col mantello, e attese pazientemente che arrivasse l’ora di operare. I suoi compagni credettero bene di accocolarsi ai suoi fianchi.
Il sole alzavasi allora sull’orizzonte, illuminando vivamente i minareti, sui quali strillavano i muezzin o medin, invitando i fedeli all’es-sobh o preghiera del mattino.
Le piazze, le vie, le viuzze rapidamente si popolavano. Per di qua e per di là sfilavan drappelli di negri appartenenti a tutte le tribù dell’Africa centrale, chi nudi e chi vestiti con svolazzanti mantelli dalle vivaci tinte; turbe di guerrieri colle darabùke in testa che rullavano furiosamente, turbe di cammellieri che si tiravano dietro i lenti animali, raccogliendo la bava che usciva dalle bocche di essi e fregandosi la barba esclamando: «hadgi baba! hadgi baba!»; ondate di allegre ragazze cariche di giarre piene di merissak, o di canestri impilati sulle loro teste mantenuti in equilibrio con quello strano talento di equilibrista che posseggono le donne africane; attruppamenti di beduini, di mercanti, di ricchi contadini montati su asinelli o su buoi e accompagnati da piccoli negri affatto nudi, che servono a loro di paggi, facendosi largo fra la folla a colpi di bastone somministrati senza riguardi di sorta.
Dalle porte della città entravano carovane di cammelli carichi di durah, di gomma, di datteri, di avorio, che si recavano nella piazza del mercato dove i venditori avevano di già rizzato le loro baracche, dove le almee davano i loro spettacoli, dove gli incantatori di serpenti e gl’indovini chiamavano i curiosi suonando certi pifferi dal suono acuto e di una forma tutta affatto speciale. E dietro a loro si affollavano cacciatori di elefanti, feroce gente ai servigi di questo o di quel mercante, che approfittano delle loro scorrerie per rubare fanciulli e donne, per saccheggiare, per abbruciare, scannando chi a loro si oppone; poi giallàba conducenti lunghe file di asini carichi di viveri, e infine bande di schiavi, ignudi, affamati, insanguinati, solidamente legati, spinti innanzi dai loro guardiani a colpi di staffile, a pugni, a calci e che venivano accumulati in orribili tuguri, veri immondezzai, veri focolari di epidemie.
El-Mactud attese che il sole fosse ben alto, le vie affollate, poi si mise in cammino coi suoi tre compagni. Percorse quattro o cinque viuzze, ingombre di cammelli, di asini e di mercanti, e sbucò sulla piazza del Mercato, in un angolo della quale rizzavasi una grande baracca coperta di stuoie, guardata da una diecina di baggàra armati di lance e difesi da scudi di pelle di rinoceronte.
Lì presso era aggruppata moltissima gente ad assistere al supplizio della sferza applicato ad un greco perchè sorpreso a fumare una spagnoletta. In un canto vi era un gruppo di pellegrini venuti chissà mai da qual paese dell’Africa centrale; alcuni pregavano con tale raccoglimento che nulla valeva a distrarli, colla faccia volta alla Mecca, senza fare il minimo gesto onde non correre il rischio che entrasse nel loro corpo il diavolo; altri invece si purificavano ad una fonte lavandosi le mani, le braccia fino al gomito, il viso, gli orecchi, i piedi, risciaquandosi la bocca e assorbendo l’acqua per le nari.
El-Mactud s’aggirò per qualche po’ intorno alla zeribak spingendo lo sguardo al disopra delle stuoie che formavano il recinto, poi, date alcune istruzioni a Medinek, presentossi al capo della guardia baggàra.
Bastò che pronunciasse il proprio nome perchè gli venisse fatto largo. Si calò il taub in modo da nascondere gran parte della faccia e, dopo aver un po’ esitato, entrò.
Là, dispersi pel recinto, sotto un sole torrido che li arrostiva c’erano quaranta o cinquanta egiziani seminudi, spaventosamente sparuti, coperti di ferite non ancora cicatrizzate e di larghe macchie di sangue. Quei poveri soldati erano i prigionieri di Kasghill, appartenenti all’esercito di Hicks.
El-Mactud, girato lo sguardo attorno, si diresse verso un gruppo formato da alcuni vecchi sergenti che sembravano agli estremi.
— Chi di voi sa indicarmi ove nascondesi una donna? chiese egli, urtandoli colla punta del piede.
— Lasciaci dormire, disse uno di quei sciagurati.
— Cane di un egiziano! esclamò lo sceicco, assestandogli un potente calcio. Se non ti affretti a parlare ti taglio ambe le orecchie.
— Lasciaci in pace, brutto negro, urlò l’egiziano.
Lo sceicco, furibondo, aveva tratto l’jatagan e stava per scagliarsi su quel gruppo di persone inermi, quando improvvisamente si arrestò cogli occhi sbarrati, le braccia tese all’indietro, istupidito, trasognato.
Da una piccola capanna era uscita una donna di bellezza superba, dalla tinta bruna, ma di un bruno caldo, alta, robusta, dalle forme tondeggianti e stupendamente sviluppate. Un piccolo tarbusch coprivale il capo, lasciando sfuggire una nerissima chioma, cosparsa di monetuccie d’oro; un giubbettino azzurro di seta chiudevale armonicamente il turgido seno, e una gonnella a frange d’oro scendevale fino alle ginocchia cariche di aurei cerchietti che graziosamente tintinnavano.
El-Mactud fece sei o sette passi indietro fissando quell’ammirabile creatura. Il suo volto impallidì e i suoi occhi si sbarrarono smisuratamente.
— Gran Allàh! esclamò egli. Fathma!…