Kitabı oku: «La perla sanguinosa»
PARTE PRIMA. I FORZATI DI PORT-CORNWALLIS
1. La spia del penitenziario
«Spia!»
«A me spia!»
«Bandito!»
«Taci, brutto malabaro!»
«Negalo, se l’osi!»
«Ah! A me della spia!»
«Confidente dei sorveglianti! Assassino che ci fai somministrare il gatto a nove code senza averne colpa.»
«La vuoi finire?»
«No, e lo ripeterò finché avrò soffio di vita. Spia! Spia! Spia!»
«Vuoi dunque che ti rompa le ossa?»
«Provati.»
«È perché hai l›uomo bianco dalla tua? Vi affronto tutti e due e vi riduco in una poltiglia. Nessuno ha mai tenuto testa al Guercio, il più formidabile lottatore di Ceylon.»
«Basterò io solo: un malabaro non teme cento cingalesi.»
«Ma il Guercio sì.»
«Sarò io che ti fracasserò il muso e che manderò i tuoi denti a passeggiare nella foresta, a formare la delizia dei cobra capelo.»
«Non la vuoi finire, malabaro?»
«No, perché sei una spia, la spia del bagno.»
Una spaventosa bestemmia sfuggì dalle labbra del cingalese.
«Che Budda sia maledetto se non t›ucciderò. È troppo, basta!»
«Tu ascoltavi i nostri discorsi!»
«Tu menti!».
«E ti sei accostato a me ed all›uomo bianco, strisciando come un serpente. Tutti sanno che sei il beniamino dei sorveglianti e del comandante, e che mai hai assaggiato la doppia catena, cane d’un cingalese.»
«Ti uccido! Bisogna che ti uccida! Spia! Ebbene sì, io ti tenevo d›occhio e ti dirò anche che ho udito tutto quello che hai detto al forzato bianco. Ah! Ah! L›europeo che sdegna di parlare con me, come se non fosse anche lui un galeotto, vorrebbe andarsene? No, ci sarò io là, al momento opportuno, per impedirglielo.»
Una salva di bestemmie e di ululati fecero eco alle audaci e compromettenti parole del cingalese.
«Dagli a quella spia, malabaro!» gridano in coro quindici o venti voci.
«È ora di finirla con quel briccone.»
«Giù, dalle, malabaro!»
«Ah! Tutti contro me, – ghignò il Guercio, furioso. – Ebbene la vedremo, brutti sciacalli. Ad ognuno il suo ed a suo tempo. Vi farò sentire se pesano i pugni cingalesi.»
«Ebbene, comincia da me, – gridò il malabaro. – Vedremo se fra cinque minuti urlerai tanto. Spicciati: l›affare deve essere finito prima che giungano i guardiani.»
«Ecco, prendi!» ruggì il cingalese, avanzandosi coi pugni raccolti sul largo petto.
Quella scena aveva luogo in una piccola radura che s’apriva in mezzo alle foreste che circondano il penitenziario inglese di Port-Cornwallis, fondato dal governo anglo-indiano, pei forzati pericolosi, sulle coste orientali dell’isola Nord-Andamana, nel golfo del Bengala, stabilimento che dopo una diecina di anni doveva venire soppresso, a causa del clima micidiale che faceva strage dei condannati e dei sorveglianti, ed a causa anche delle ostilità degli indigeni; ma che nel 1850 era ancora floridissimo.
Una ventina d’uomini, per la maggior parte indiani e cingalesi, si erano raccolti in quella radura, approfittando del riposo del mezzodì e dell’assenza dei guardiani, che avevano preferito schiacciare un sonnellino nelle amache della tettoia, sicuri che nessuno dei sorvegliati avrebbe approfittato per prendere il largo date le pessime disposizioni che fino allora avevano dimostrato gl’indigeni, nemici risoluti d’ogni straniero.
I due uomini che s’erano assaliti prima a parole e che ora si preparavano a demolirsi le costole a vicenda, nonostante i rigorosi regolamenti del bagno e la paura di venire premiati con una solenne fustigazione del terribile gatto a nove code, terrore dei marinai inglesi, erano due campioni capaci di disputarsi lungamente la vittoria.
Colui che aveva sollevato la questione e che veniva chiamato il malabaro, era un indiano di forme atletiche, alto quasi sei piedi, con un torso da gorilla, braccia muscolose senza essere esageratamente grosse: aveva lo sguardo franco ed ardito ed i lineamenti piuttosto fini, che indicavano in lui un discendente delle caste privilegiate della grande penisola indostana.
Il suo avversario, che si faceva chiamare il Guercio, perché mancava effettivamente d’un occhio, del sinistro, e che si era dichiarato cingalese, era assai più basso di statura, ma lo sviluppo del suo corpo era veramente enorme, assai superiore a quello dell’altro. Aveva una testa massiccia, forse troppo grossa, cogli occhi leggermente obliqui, che tradivano un miscuglio di razza; il viso butterato dal vaiuolo in modo da sembrare una vera schiumarola; un collo da toro, spalle da gigante e braccia formidabilmente muscolose, che finivano con certi pugni grossi come mazze da fucina.
Entrambi non avevano che un paio di pantaloni di tela bigia, essendosi sbarazzati delle giacche e degli zoccoli che l’amministrazione del penitenziario fornisce a quei disgraziati, e mostravano così i numerosi e bizzarri tatuaggi che screziavano i loro petti, rappresentanti serpenti e foglie, idoli ed animali.
«Dàlli, malabaro! – gridarono per la seconda volta gli spettatori. – Merita una correzione quello spione.»
Il cingalese gettò sui forzati, col suo unico occhio, uno sguardo da tigre, mentre il malabaro allargava le gambe coprendosi il petto ed il viso colle braccia.
Stavano per precipitarsi l’uno contro l’altro, quando il cerchio formato dagli spettatori fu violentemente aperto ed un nuovo personaggio si mise a fianco del malabaro, dicendogli:
«Lascia fare a me, Palicur. Anch›io ho un vecchio conto da saldare con quel cingalese.»
Mentre tutti gli altri erano indiani o cingalesi, il nuovo venuto era invece un europeo di circa trent’anni, colla pelle abbronzata nelle varie sfumature che si scorgono sui visi della gente di mare, dovute ai calori del sole tropicale ed ai venti salsi degli oceani, con due occhi d’un azzurro profondo dai quali trapelava un non so che di profonda tristezza. La sua taglia non era così alta come quella dei due avversari, era anzi appena al di sopra della media, piuttosto slanciata pur essendo vigorosa, nondimeno le sue braccia mostravano dei muscoli poderosi, che dovevano sviluppare, in certi momenti, una forza poco comune.
Pronunciando quelle parole, aveva gettato l’ampio cappello di paglia che lo riparava dagli ardenti raggi del sole, mostrando una bella fronte ampia, solcata da qualche ruga precoce, ed una folta capigliatura molto bruna.
«Lascia fare a me, Palicur, – ripeté, prendendo la classica posa dei pugilatori inglesi. – Il cingalese non mi fa paura.»
«No, signore, – rispose il malabaro. – Non compromettetevi con quella canaglia.»
«Signore! – ghignò il Guercio. – Quanto ti dà al mese, malabaro? Non sapevo che tu fossi il suo servo.»
L’europeo gettò sul miserabile uno sguardo sprezzante e fece atto di avventarglisi addosso; ma il malabaro fu pronto a metterglisi dinanzi.
«No, mai, non voglio che vi misuriate con quest›uomo che è il più forte del bagno e che solo in me può trovare un rivale capace di tenergli testa. Voi un giorno mi avete salvato, strappandomi dalle mascelle d’un gaviale, quindi vi devo la vita ed è mio dovere proteggervi. Se quest’uomo mi ucciderà, poco monta.»
«Sì, lasciate fare al malabaro, signore,» dissero in coro gli spettatori, che pareva professassero un certo rispetto per quell’uomo, quantunque fosse un condannato al pari di loro.
L’europeo ebbe una breve esitazione, poi fece due passi indietro, dicendo: «Aspetterò il mio turno; quella spia oggi deve avere una solenne correzione e l’avrà o da Palicur o da me.»
«Avete finito con le vostre chiacchiere? – chiese il cingalese, che cominciava a perdere la pazienza. – O aspettate che i sorveglianti aprano gli occhi?»
«Eccomi,» disse il malabaro, rizzandosi d›un colpo, e menò un pugno formidabile che cadde nel vuoto, avendo fatto il cingalese un rapido salto indietro.
Il circolo formato dagli spettatori si era subito allargato, onde lasciare ai due pugilatori spazio maggiore.
Un silenzio profondo era succeduto a quella pioggia d’invettive, rotto solo dal grido lamentevole e noioso d’una coppia di scimmie appollaiate fra i rami d’un fico baniano. Pareva che tutti trattenessero perfino il respiro, per non perdere nulla di quella lotta, che prometteva di diventare terribile e che poteva finire colla morte dell’uno o dell’altro avversario.
Palicur, mancatogli il primo colpo, si era affrettato a rimettersi in guardia e si teneva diritto, mostrando la sua superba statura d’atleta, mentre il cingalese invece, che doveva meditare qualche tiro a sorpresa, si era come ripiegato su se stesso, in modo da coprirsi tutto il corpo coi pugni e colle braccia.
Per qualche istante i due avversari si guardarono, poi il malabaro si piegò a sua volta bruscamente, dicendo:
«Ti ho compreso, Guercio: prendi!»
Il suo formidabile pugno scattò colpendo il cingalese in mezzo al petto, il quale risuonò come una grancassa. Se quel corpo non fosse stato più che robusto, avrebbe certamente ceduto sotto il colpo poderoso. Il Guercio fece una brutta smorfia e strinse le labbra per non lasciarsi sfuggire un grido di dolore, poi a sua volta si slanciò, menando uno dopo l’altro sette od otto pugni, che il malabaro ricevette sugli avambracci senza scuotersi.
«Ah! Perdi la flemma! – esclamò l›indiano con voce tranquilla. – Le braccia dei pescatori di perle possono resistere anche alle martellate e perdi inutilmente il tuo tempo, Guercio, se batti qui.»
Un urlo di rabbia era sfuggito alla spia.
«Che non ti possa demolire, brutto malabaro! – ruggì. – Eppure devi cadere.»
Fece tre passi indietro, tornando a ripiegarsi su se stesso. Il malabaro, che non voleva lasciargli il tempo di preparare qualche altro gioco, spiccò un salto innanzi per investirlo subito, ma ricevette un pugno in pieno viso che lo fece traballare e gli fece sprizzare sangue dal naso.
L’europeo mandò un grido credendolo perduto, ma il pescatore di perle si riebbe prontamente. Piombò sul cingalese, che stava in quel momento per rialzarsi, e l’abbracciò a mezzo corpo, alzandolo da terra e scuotendolo vigorosamente.
Il Guercio, non essendosi aspettato quell’attacco che convertiva il pugilato in una partita di lotta, dapprima non oppose resistenza; poi, comprendendo che stava per venire atterrato, puntò le ginocchia sul ventre del malabaro il quale fu costretto a deporlo.
Allora fra i due atleti s’impegnò una lotta disperata. Si afferravano a vicenda, si urtavano poderosamente, si abbassavano e si alzavano tentando di atterrarsi. Ansavano, grondavano sudore, e non mandavano alcun grido per non svegliare i sorveglianti che dormivano non molto lontano, sotto la tettoia del deposito dei legnami.
Il cingalese opponeva una resistenza furiosa, tuttavia si capiva facilmente che avrebbe finito per cedere. Le sue forze si esaurivano rapidamente, mentre il malabaro conservava le sue per l’ultimo momento.
L’europeo seguiva attentamente col più vivo interesse le diverse fasi della lotta, incoraggiando di quando in quando il pescatore di perle con uno sguardo o con un gesto della mano. Gli altri scommettevano sottovoce, non già denari, bensì le loro magre razioni.
La lotta durava da quattro o cinque minuti, sempre più ostinata, quando il malabaro, che era riuscito a liberarsi la destra, scaricò un pugno terribile sul cranio dell’avversario. Questi si piegò bruscamente, sbalordito da quel colpo che gli aveva rintronato il cervello.
Bastò quell’attimo di interruzione perché il pescatore di perle ne approfittasse. Sollevò il Guercio fra le poderose braccia, lo tenne un momento sospeso, poi lo scaraventò dieci passi lontano, nel bel mezzo d’un cespuglio.
«Dagli il resto, malabaro! – esclamarono gli spettatori. – Concialo per bene.»
Palicur era già sopra alla spia ed aveva alzato nuovamente il pugno per dargli una tremenda lezione, quando una voce minacciosa risuonò a breve distanza: «Ferma o ti brucio le cervella!»
Un uomo vestito di tela bianca, con un elmo di sughero in testa coperto d’una fascia di flanella, si era aperto violentemente il passo fra gli spettatori, tenendo nella destra una pistola a doppia canna, che puntò risolutamente sul malabaro. Era uno dei sorveglianti della colonia penale, il quale era stato probabilmente svegliato dalle ultime grida dei forzati.
Palicur, udendo quella voce minacciosa, abbassò il pugno e si voltò verso il guardiano, dicendogli:
«Non abbiamo fatto nulla di male. Abbiamo semplicemente provato le nostre forze in una partita di lotta.»
Il Guercio aveva approfittato dell’intervento per sgusciare fra il cespuglio e mettersi in salvo presso il sorvegliante.
«Quel cane d›un malabaro ha mentito! – gridò. – Egli mi voleva accoppare, sospettando in me una spia.»
«Buffone! – gridò l’europeo. – Sei più vile d’uno sciacallo.»
«Taci tu, Will, – disse il guardiano ruvidamente. – Tu non hai maggior diritto di parlare degli altri ed io non ti ho interrogato.»
«Ma sì, il Guercio ha mentito!» urlarono in coro gli spettatori.
«E perché sanguina allora il naso di Palicur?» chiese il sorvegliante.
«Perché sono caduto,» rispose il malabaro.
«Non è vero, – urlò il cingalese. – Mi ha aggredito e nel difendermi gli ho dato un pugno, e vi era con lui anche l’europeo. Vi consiglio anzi di tenerli d’occhio, signor Bek, perché li ho sorpresi mentre ordivano la fuga. Ecco il movente della loro aggressione.»
Un urlìo di collera accolse le parole del briccone. Tutti i forzati tesero i pugni verso di lui e si fecero innanzi minacciosi, pronti ad accopparlo. Il sorvegliante si gettò prontamente dinanzi al cingalese, poi estrasse la daga che portava appesa alla cintura, mentre impugnava la pistola colla sinistra.
«Fermi, furfanti!– gridò. – Il primo che si accosta è uomo spacciato.»
Poi mandò un lungo fischio, il fischio di allarme e di richiamo dei poliziotti inglesi. Tosto altri quattro sorveglianti armati di fucile sbucarono dalle vicine macchie, collocandosi ai fianchi del loro compagno. I forzati, che parevano disposti a scagliarsi contro il cingalese ed il suo protettore, vedendo giungere quel rinforzo si fermarono. Solo l’europeo fece qualche passo innanzi, dicendo con voce grave:
«Spero, signor Bek, che voi non crederete a quello che ha detto quel miserabile cingalese. Nessuno lo ha aggredito, potete credere alla parola leale d›un uomo di mare.»
«Tu sei un forzato al pari degli altri e la tua parola non ha maggior valore della loro, quantunque tu sia un inglese al pari di me,» rispose il sorvegliante.
Una viva fiamma balenò negli sguardi di Will, mentre un pallore mortale gli copriva il volto.
«Un giorno, – disse con voce alterata, fremente di collera e d›indignazione, – fui un uomo d’onore. Se io ho ucciso il mio sergente d’armi lo feci perché costrettovi e spintovi in un momento di follia, e voi lo sapete. Mi hanno condannato e sia pure, ma questa condanna non ha guastato la lealtà dell’antico quartiermastro della Britannia.»
L’espressione dura, quasi sprezzante, che si leggeva sul volto del guardiano, si era a poco a poco dileguata.
«Ti credo, – disse, con accento un po› raddolcito. – Sono però costretto a rinchiudervi tutti e tre nella cella di rigore, finché i fatti saranno chiariti. Io non posso trasgredire i regolamenti.»
«Fate pure, – rispose asciuttamente l›ex quartiermastro della Britannia, porgendo i polsi. – Ammanettatemi.»
Il sorvegliante fece un segno ai suoi uomini, i quali s’affrettarono ad incatenare le braccia all’europeo, al malabaro ed al cingalese
«Al deposito, – disse, – e fate fuoco su chi tenta di fuggire.»
Poi rivolgendosi agli altri forzati, aggiunse con un tono che non ammetteva replica:
«Al lavoro, voi: l›ora del riposo è trascorsa.»
E mentre nella foresta rimbombavano i colpi di scure dei galeotti ed i tronchi resinosi dei darmar precipitavano al suolo con gran fragore, i tre prigionieri, scortati da due guardiani, venivano condotti a Port-Cornwallis.
2. Un dramma cingalese
Il penitenziario di Port-Cornwallis, che fu chiamato più tardi il cimitero degli europei, a causa del clima micidialissimo dovuto alle grandi e continue piogge e alle immense foreste che coprono quelle isole, non fu veramente mai una grande colonia penale come quelle australiane e quella di Norfolk.
Fondato sulla costa orientale dell’isola più settentrionale del gruppo delle Andamane, sulle rive d’una profonda e sicura baia, difesa da numerosi isolotti, vivacchiò senza poter mai ingrandirsi, sia per la vicinanza della costa birmana con delle isole di fronte alle bocche dell’Irawaddy, ciò che permetteva facili fughe ai galeotti, sia per la violenza dei monsoni del sud-ovest che rendevano difficile l’approdo ai trasporti dello Stato, sia pei grandi calori alternati da acquazzoni furiosi che in breve tempo riducevano i sorveglianti in tale stato, da costringerli a rimpatriare più che presto.
Nel 1850 lo stabilimento, quantunque fondato da parecchi anni, si componeva ancora di poche baracche pei forzati, di una caserma, di una prigione e d’un ospedale che era sempre il più popolato; e la sua guarnigione non superava i cinquanta uomini incaricati della vigilanza di tre o quattrocento galeotti, quasi tutti indiani e cingalesi.
Unico lavoro di quei miserabili era il dissodamento delle immense foreste che coprivano l’isola, per preparare dei campi ai futuri coloni; unica ricchezza che ne traeva il governo anglo-indiano era il commercio dei legnami più pregiati, che di quando in quando venivano imbarcati per la madre patria; legnami che abbondavano, specialmente quelli adatti per la costruzione delle navi. Con gl’indigeni nessun contatto, nonostante gli sforzi dei governatori della colonia penale per indurli a costruire le loro dimore intorno alla baia. Quegli isolani, per natura diffidenti, si erano ostinatamente mantenuti inaccessibili a tutti i tentativi d’incivilimento e d’amicizia, rimanendo selvaggi e colle armi sempre pronte.
Non davano fastidi alla colonia, quantunque non vedessero di buon occhio quegli stranieri insediati sulla loro isola, ma si tenevano celati nelle loro umide foreste, pronti a respingerli se si fossero inoltrati verso l’interno e a dare addosso ai forzati i quali, sapendo che presso quei bruti non avrebbero trovato grazia, si guardavano bene dal fuggire entro terra.
Così la colonia vivacchiava, senza una speranza di diventare un giorno florida, al pari delle colonie penali australiane, con nessun altro successo che quello di aumentare le croci del piccolo cimitero dove forzati e sorveglianti andavano a riposare per sempre, con una frequenza tale da dare molto pensiero al governo inglese e da indurlo, più tardi, a lasciar di nuovo l’isola ai suoi primitivi padroni.
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Il quartiermastro della Britannia ed il malabaro, mezz’ora dopo la scena svoltasi nella foresta, si trovavano chiusi insieme in una cella del penitenziario, una specie di cabina di due metri quadrati, che l’ardente sole aveva già tramutato in vero forno, incatenati l’uno presso all’altro sul nudo tavolaccio, in modo da non potersi nemmeno mettere a sedere.
I guardiani, dopo aver posto a portata delle loro mani una brocca di terra piena d’acqua e due mezze pagnotte di pane bigio, se n’erano andati salutandoli con un ironico «buon riposo, giovanotti» e chiudendo accuratamente la porta di grosse tavole di tek, che solo un petardo avrebbe potuto sfondare.
«Peccato non averlo potuto accoppare, – disse il malabaro, quando il rumore dei passi si spense in fondo al corridoio. – Quell›uomo, signor Will, intralcerà tutti i nostri piani e la fuga diverrà ormai quasi impossibile.»
«Eppure bisogna che io me ne vada da questo inferno: è necessario.»
«E se io non avessi la speranza di poter un giorno o l›altro andarmene, mi ucciderei spaccandomi la testa contro qualche roccia.»
«Si direbbe che tu hai più premura di me, – rispose il quartiermastro. – Eppure ho osservato che gl›indiani sono quelli che tentano meno la fuga e si rassegnano più facilmente di tutti alla loro sorte.»
«È vero, signor Will, – rispose il malabaro – ma a quelli forse manca un motivo imperioso.»
L’europeo voltò la testa guardando fisso il pescatore di perle e rimase sorpreso dall’intenso dolore che traspariva in quell’istante dal viso dell’ercole.
«È l›ardente desiderio di ritornare fra i pescatori di perle a respirare la libera brezza del mare, o qualche motivo più grave ciò che ti spinge a tentare l’evasione? – chiese. – Tu non mi hai detto perché ti tormenta così insistentemente il sogno della libertà.»
«Ve l›avrei narrato, signor Will, se quel dannato cingalese non avesse interrotto la nostra conversazione colla sua improvvisa comparsa. Mi ero deciso a raccontarvi la mia storia, che voi avete sempre ignorato.»
«Mi hanno detto che ti hanno cacciato in questo bagno perché hai ucciso un sacerdote buddista nella baia d’Aripo. È vero?»
«È vero, – rispose il malabaro con voce triste. – L›ho ucciso sui gradini della pagoda con tre colpi di coltello e, se ho un rincrescimento, è quello di non aver potuto vibrargliene cinquanta, perché quell›uomo meritava cinquanta volte la morte.»
«Indovino una storia dolorosa nella tua vita, – disse il quartiermastro. – Qualche terribile dramma deve aver avvelenato la tua esistenza.»
«È vero, signore, – ripeté il pescatore di perle. – Sognarla, vederla sempre, udire sempre il suo grido, ed essere qui, in questo inferno! È impossibile che io possa resistere! È troppo! Bisogna che me ne vada!»
Un rauco singhiozzo soffocò l’ultima parola del pescatore di perle, mentre i suoi occhi si inumidivano. Pareva che un dolore immenso straziasse in quell’istante il cuore del disgraziato galeotto.
«Oh mia Juga! Mia Juga! – esclamò poi con uno scoppio di pianto. – E non poter avere la libertà e la perla sanguinosa!»
«Calmati, Palicur, – disse il quartiermastro, che pareva profondamente commosso dal dolore del malabaro. – Chi è quella Juga? Che cos’è quella perla sanguinosa? Quale terribile dramma vi è nella tua vita? Quantunque tu sia indiano ed io europeo, puoi considerarmi come tuo fratello. Te ne ho dato la prova quando otto giorni or sono ti strappai dalle fauci del coccodrillo che stava per mozzarti le gambe.»
«Sì, è vero, voi siete troppo buono, signor Will, – rispose il pescatore di perle; – vi devo la vita, siete per me come un secondo padre e perciò devo narrarvi tutto, purché mi promettiate di unire i vostri sforzi ai miei per fuggire da questo luogo infame.»
«Non ho meno desiderio di te d›andarmene, mio povero Palicur, – rispose l›europeo. – Gli uomini di mare male si adattano a vivere nei penitenziari e ne ho abbastanza di questa esistenza che trascino da tredici mesi. Anch’io ho sete di libertà, d’aria pura e non vedo l’ora di ritornare sul mare.»
«Allora ascoltatemi, signor Will. Quantunque non ci conosciamo che da otto giorni, ho piena fiducia in voi e sono certo che non tradirete il mio segreto. Qui i cingalesi non mancano e sarebbero capaci d’informare i sacerdoti di Candy della mia fuga e di metterli in guardia.»
«Che storia stai per narrarmi tu?» chiese il quartiermastro, che s›interessava straordinariamente ed a cui quel preambolo aveva aguzzato la curiosità.
«Non crediate, innanzi tutto, che io sia un semplice pescatore di perle. I miei padri furono un tempo i sovrani di Calicut, che la Compagnia delle Indie disperse dopo averli vinti e spodestati, per non aver essi voluto accettare il suo protettorato che privava il Malabar d’ogni libertà.
«Derubati delle loro fortune e dei loro possessi, emigrarono nell›India meridionale, rotolando giù dagli ultimi gradini della loro grandezza, finché l’ultimo principe, che fu mio padre, dovette diventare un povero pescatore di perle per campare la vita.»
«Mi accorsi che tu dovevi appartenere a qualche alta casta, dalla purezza dei tuoi lineamenti, – disse il quartiermastro della Britannia. – Continua.»
«Morto mio padre, tagliato in due da uno squalo mentre raccoglieva perle nello stretto di Manaar, presi il comando della sua barca, trasferendomi sulle coste di Ceylon, ove si diceva che si trovassero le più belle perle e che si celasse la famosa perla sanguinosa, rubata anni or sono nella gran pagoda di Candy, dove serviva di terzo occhio alla gigantesca statua di Godama.»
«Una perla sanguinosa!» esclamò Will.
«Sì, ma di ciò vi parlerò in seguito, – disse il malabaro. – Fu al Nigamuwa che conobbi per la prima volta Juga, mentre stavo esplorando quei banchi perliferi.»
«Chi era costei?»
«La più bella fanciulla cingalese che io avessi veduto fino allora, così bella che tutti la invidiavano. Suo padre era pure un pescatore di perle e quando s›accorse che i nostri cuori si erano compresi e che battevano insieme d’egual affetto, non oppose ostacoli e lasciò che ella diventasse la mia fidanzata, purché m’impegnassi a versargli duecento rupie come prezzo del matrimonio.»
«Avevo già raggranellato la somma e credevo di essere ormai vicino alla realizzazione del mio sogno, quando un avvenimento inaspettato distrusse d’un colpo tutte le mie speranze.»
«Si celebrava a Candy la festa di Godama e tutti gli abitanti delle coste partivano in pellegrinaggio pel monte Hamales, sulla cui cima, come voi sapete, esiste un albero consacrato al dio dei cingalesi e dove si vede l’impronta d’un piede gigantesco che si suppone lasciato da lui, slanciatosi di lassù in cielo, dopo le novecento e novantanove sue metamorfosi.»
«E che noi europei riteniamo sia un’orma lasciata da Adamo prima di abbandonare quell’isola meravigliosa, ritenuta il famoso paradiso terrestre, e di passare in India,» disse il quartiermastro sorridendo.
«Il padre di Juga, – continuò il malabaro, – fervente buddista, mi aveva chiesto il permesso di condurre a Candy la mia fidanzata perché assistesse alla grande processione e ricevesse la benedizione del dio ed io glielo avevo concesso, non prevedendo che quella gita sarebbe stata fatale a me ed alla fanciulla. Ahimè! Non doveva più tornare la diletta del mio cuore.»
«Te la rapirono?»
«Sì, ma ascoltatemi, signor Will. Dopo le feste di Candy, suo padre volle seguire i pellegrini che si recavano a visitare il famoso albero di Annarodgburro, che secondo le tradizioni antiche un uragano trasportò da lontani paesi, e che sprofondò colà le sue radici per servire di ricovero a Godama. In quel luogo vi è una pagoda celebre, dove riposano gli antichi rajah di Candy che hanno meritato di essere ammessi in quella terra santa per aver innalzato templi e statue in onore del dio protettore dell’isola, e che è abitata da sacerdoti e da sacerdotesse che vengono scelte fra le più belle fanciulle cingalesi.»
«Per procurarsi quelle sacerdotesse, i monaci attendono il giorno in cui viene condotta in processione la statua colossale di Godama, quindi si cacciano fra gli spettatori, scegliendo le fanciulle che meglio a loro talenta, e che sono destinate a diventare le spose del dio.»
«Nessuno può resistere loro, né le rapite, né i parenti e nessuna protesta varrebbe a salvarle. Una volta afferrate da quei monaci sono perdute. D’altronde i parenti si tengono anzi onorati che le loro figlie vadano a servire il dio, credendo di assicurarsi la protezione del cielo, la remissione dei peccati ed un posto nel nirwana dopo la morte.»
«Sfortuna volle che uno di quei tiruvamska – così si chiamano i sacerdoti cingalesi – adocchiasse Juga, che stava a fianco di suo padre. La sua bellezza e la sua giovinezza avevano già attirato l’attenzione dei vicini, sicché, ad un gesto del tiruvamska, quattro o cinque pellegrini si gettarono sulla mia fidanzata, trascinandola verso un carro dove già si trovavano altre future spose di Godama.»
«Alla sera era già prigioniera nella pagoda. Suo padre, spaventato dagli orribili castighi che i sacerdoti gli minacciavano in questa e nell’altra vita, aveva dovuto dare il suo consenso. Quando tornò alla costa per informarmi di quanto era avvenuto, non era più che un’ombra di se stesso, tanto era stato il suo dolore nel vedersi privare della sua unica figlia che amava alla follia, e tanto soffriva di doversi presentare a me con quella terribile notizia. Morì tre giorni dopo di crepacuore ed io fui lì lì per smarrire la ragione. Caddi ammalato e rimasi parecchi giorni fra la vita e la morte.»
«Appena guarito partii per Annarodgburro, risoluto a strappare a quei monaci la mia Juga. Riuscii infatti una notte, mentre sulla montagna imperversava una furiosa bufera, ad introdurmi nella pagoda e a trovare la fanciulla amata.»
«Credendo che nessuno mi avesse veduto, la trassi fuori dal tempio dove ci aspettavano due veloci cavalli, quando fu dato l’allarme. In meno che non si dica mi vidi piombare addosso una dozzina di monaci, che mi strapparono a viva forza la fanciulla.»
«Cieco di rabbia, trassi dalla fascia il mio coltello di pescatore di perle. Colpii due o tre volte, all’impazzata, ma fui ben presto atterrato, disarmato e legato.»
«Quindici giorni dopo venivo consegnato alle autorità inglesi di Colombo, sotto l›imputazione d›aver ucciso un sacerdote e di averne feriti altri due. Ogni difesa fu vana. Fui condannato a dodici anni di relegazione e condotto in questo inferno.»
Il quartiermastro l’aveva ascoltato senza interromperlo. Posò una mano sulla spalla del povero malabaro, che si era accasciato e piangeva in silenzio, dicendogli con voce dolce:
«Noi fuggiremo, Palicur, e andremo a liberare la fanciulla.»
«Sarà un›impresa difficile, signore, – rispose il malabaro con voce spezzata. – Bisognerebbe che io ricuperassi la perla sanguinosa.»
«Ma che cos’è quella perla? E che cosa c’entra in questa storia?» Palicur stava per rispondere, quando in fondo al corridoio si udirono dei passi pesanti che s’avvicinavano.
«I guardiani, – disse il quartiermastro. – Brutto segno.»
In quel momento la porta si aprì e tre sorveglianti guidati da un sergente, armati tutti di fucili colle baionette inastate, entrarono nella cella. Dall’aspetto severo e dal volto accigliato del sergente, i due forzati capirono subito che non spirava buona aria per loro e che quella partita di pugni non doveva essersi arrestata al capitombolo del Guercio.»
«Pigliate quell›uomo,» disse il capo, indicando il malabaro.
«Dove volete condurmi?» chiese Palicur, con voce tranquilla e guardando ironicamente i quattro guardiani.
«A farti assaggiare le delizie del gatto a nove code, – rispose il capo. – Venticinque colpi che ti accarezzeranno le spalle, e ti insegneranno a rispettare i tuoi compagni di lavoro.»