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Kitabı oku: «La regina dei Caraibi», sayfa 10

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«Sta’ attento e saprai che specie d’uccello esso sia!… Guarda: si prepara a dare battaglia!…»

«A chi?»

«Aspetta, compare bianco.»

L’uccello in questione era un bel volatile, vivace, svelto, armato d’una specie di corno che si elevava sulla sua testa e colle ali robustissime, coperte di lunghe penne rigide e terminanti in sproni assai aguzzi.

Quell’uccello, un superstite dell’antica età, si era precipitato verso una macchia di canne, arruffando le penne e mandando un grido acuto, un grido di guerra senza dubbio.

Il Corsaro Nero e Yara si erano pure avanzati verso il margine della zattera guardando curiosamente quello strano volatile.

«Il kamiki si prepara ad assalire,» disse la giovane indiana. «È un uccello valoroso che non teme il veleno.»

«Chi sta per assalire?» chiese il Corsaro.

«Il serpente che si nasconde fra le canne,» rispose Yara.

«È un serpentario quel volatile?»

«Sì, mio signore. Lo vedrai all’opera.»

Il kamiki si era precipitato nuovamente fra i canneti, sbattendo vivamente le ali e cacciando innanzi la sua testa armata. Pareva deciso a scovare l’avversario che si teneva ostinatamente nascosto, sapendo già con quale pericoloso nemico aveva da fare.

Ad un tratto però fra le canne si vide rizzarsi un serpente, nero come l’ebano, grosso come un pugno e con la testa assai appiattita.

Era un serpente alligatore, rettile molto comune nelle paludi dell’America centrale.

Vedendo il kamiki risoluto a dargli battaglia, gli si era avventato contro con coraggio disperato, tentando di sorprenderlo e di morderlo.

L’uccello, non nuovo a quelle lotte, si era prontamente riparato dietro le ali armate di speroni, agitandole furiosamente per confondere l’avversario. Questi, furioso, sibilava e dardeggiava la linguetta forcuta, contorcendosi, abbassandosi per poi allungarsi nuovamente con uno scatto improvviso.

«Perbacco!… Che lotta!…» esclamò Carmaux, il quale seguiva attentamente le mosse dei due avversarii. «Come finirà?»

«Colla peggio del rettile,» rispose Yara.

«Possibile che quel volatile debba aver ragione?… E se venisse morso?»

«Non si lascerà cogliere.»

Il kamiki, dotato d’una agilità straordinaria, non rimaneva un solo istante fermo. Balzava innanzi minacciando il rettile col becco acuto, poi indietreggiava vivamente facendosi scudo colle ali, quindi tornava ad assalire. La lotta durava da qualche minuto, quando il kamiki, giudicando l’avversario sufficientemente stanco e disorientato, si slanciò risolutamente innanzi.

Afferrare col robusto becco il serpente alligatore, stordirlo con due poderosi colpi d’ala e portarlo in alto fu l’affare d’un istante.

Alzatosi a dieci o dodici metri, lo lasciò cadere bruscamente al suolo, poi piombatogli nuovamente addosso, con un colpo di becco gli sfondò il cranio.

Ciò fatto si mise tranquillamente a mangiarselo, come se si fosse trattato d’una innocua anguilla.

«Buon appetito,» gridò Carmaux.

Il coraggioso volatile, satollatosi, se n’era già andato, cercando nuove prede.

CAPITOLO XVI. UNA CACCIA AL LAMANTINO

Verso sera la zattera, la quale non era ancora riuscita a raggiungere la terra ferma, veniva legata presso la riva d’un isolotto coperto d’una fitta vegetazione.

Numerose palme di varie specie s’alzavano dietro ai paletuvieri ed alle canne palustri, spingendosi molto alte, mescolate a felci arborescenti d’aspetto imponente e ad acagiù dal legno prezioso.

I filibustieri, che avevano remato tutto il giorno sotto un sole implacabile, erano sfiniti e anche molto assetati, non avendo potuto ancora trovare una sola goccia d’acqua dolce. Assaggiata più volte quella della laguna l’avevano trovata sempre salmastra, facendosi sentire anche nei canali il flusso ed il riflusso del mare.

«Temo, miei bravi, che saremo costretti a passare questa notte senza bagnarci la bocca,» aveva risposto il Corsaro. «Finchè non giungeremo a qualche fiume non avremo acqua dolce.»

«Aspettate padrone» disse ad un tratto Moko, il quale da qualche istante guardava attentamente le piante dell’isolotto, ancora illuminate da un ultimo raggio di sole.

«Cosa speri di trovare; qualche sorgente forse?» chiese il Corsaro. «Non se ne troveranno fra queste terre fangose, sature d’acqua marina.»

«Mi sembra d’aver scorto una pianta che ci disseterà, padrone.»

«Un albero fontana?» chiese Carmaux, ridendo.

«Qualche cosa di simile, compare bianco.

I tre filibustieri e Yara sbarcarono, seguendo il negro, il quale si era già cacciato fra le piante, aprendosi faticosamente il passo fra le radici, le liane ed i rami dei cespugli.

Il suolo di quell’isolotto non era fangoso come quello degli altri. Non era un banco di sabbia coperto di vegetazione, bensì un vero brano di terra solida, molto probabilmente a fondo roccioso.

Le piante, sottratte all’umidità impregnata di sale marino, si erano sviluppate rigogliose, coprendo tutta la superficie dell’isolotto e raggiungendo dimensioni straordinarie.

Dopo d’aver percorso circa duecento passi, Moko si era arrestato dinanzi ad una pianta bellissima la quale cresceva solitaria in mezzo ad un piccolo spiazzo.

Era una specie di salice, alto più di sessanta piedi, con la cima rassomigliante ad una cupola immensa, formata da foglie oblunghe, larghe, non però così grandi come quelle delle palme.

Dai rami e dal tronco di quella strana pianta, l’acqua trasudava in così grande quantità da formare al basso una piccola palude. Era una pioggia continua, incessante e anche abbondante che cadeva al suolo con un rumore monotono, eguale.

«Una vera pianta fontana!» esclamò Carmaux, stupito. «Io non ho mai veduto una cosa simile.

«È realmente curiosissima,» disse il Corsaro, «che pianta è questa?»

«Un tamai-caspi() signore,» rispose il negro.

«E da dove proviene tutta quest’acqua?» chiese l’amburghese.

«Probabilmente quest’albero assorbe e condensa l’umidità dell’atmosfera per mezzo d’organi speciali,» disse il Corsaro. «Anche nelle Canarie vi sono delle piante che danno acqua in abbondanza.

«E piange sempre quest’albero?» chiese Carmaux.

«Non cessa mai,» rispose Moko. «Anzi emette maggior quantità d’acqua quando i fiumi sono scarsi e le fontane asciutte.»

«Approfittiamone,» disse Carmaux. «Quantunque Moko assicuri che quest’albero piange sempre, avrei paura che da un momento all’altro cessasse.»

Carmaux però non era solamente assetato; aveva anche molta fame e siccome le provviste erano state esaurite durante la giornata e non più rinnovate in causa dell’assoluta proibizione di far uso delle armi da fuoco, si rivolse nuovamente al suo compare sacco di carbone:

«L’acqua è una gran buona bevanda,» disse. «Però mi sono accorto che le lagrime di questo tamai-caspi non fanno altro che lavare i miei intestini. Se tu, Moko, sei veramente un brav’uomo, dovresti trovare qualche altro albero che ci fornisse anche qualche cosa di più solido.»

Proprio in quel momento dalla parte della laguna si udì a echeggiare un grido strano, che pareva fosse stato mandato da qualche grosso animale.

«Che è questo?» chiese Carmaux.

Il negro e anche Yara si erano voltati di colpo guardando attraverso gli alberi.

«Un manato!» esclamò la giovane indiana, guardando Moko.

«Sì,» rispose questi.

«Vuoi dire un lamantino?» chiese il Corsaro.»

«Sì, capitano. Una preda squisita.»

«Ma altrettanto difficile a prendersi.»

«Noi l’avremo, capitano.»

«Senza far uso dei fucili?»

«Basterà un arpione.»

«Se non ne abbiamo?»

«Ne faremo uno, signore. Compare bianco, hai una cordicella?»

«Anche dieci se ne vuoi,» rispose Carmaux. «Un marinaio non è mai sprovvisto di canapi.»

Un secondo grido era echeggiato più vicino. L’animale in questione doveva trovarsi presso le rive dell’isolotto. Il negro spezzò un lungo ramo quasi diritto, lo sbarazzò delle foglie, poi ad una estremità legò saldamente la sua navaja, formando così una specie di lancia lunga oltre tre metri.

Il negro si era diretto verso il luogo ove si trovava la zattera. Giunto presso i paletuvieri che costeggiavano l’isolotto, si era arrestato, osservando attentamente l’acqua del canale.

Le tenebre erano già calate, però non essendovi nebbia in quel luogo, si poteva scorgere benissimo quanto avveniva sulla laguna.

A breve distanza dalla zattera le piante acquatiche s’agitavano come se qualche grosso animale cercasse di aprirsi un passaggio.

«È là,» disse il negro, volgendosi verso i filibustieri. – Sta pascolando.

«Rimarremo nascosti qui?»

«Pel momento sì,»– rispose Moko, «Ah!… Eccolo!»

Il Corsaro Nero ed i suoi compagni si erano curvati sui paletuvieti. In mezzo alle erbe acquatiche era comparso un pesce enorme, rassomigliante un po’ ad una foca, col muso però allungato invece d’essere rotondo.»

«Il manato?» chiese Carmaux, sotto-voce.

«Sì,» rispose Moko.

«È ben grosso.»

«Non lasciamolo fuggire,» disse il Corsaro.

«Non muovetevi,» rispose il negro.

Aveva brandita la lancia e si era inoltrato lentamente fra i rami contorti dei paletuvieri, senza produrre il menomo rumore.

Il lamantino si teneva mezzo sommerso; però di quando in quando alzava la testa, come se cercasse di raccogliere qualche rumore. Si era forse accorto della presenza dei nemici? Era probabile, avendo interrotta la sua cena.

D’improvviso si vide Moko rizzarsi di colpo all’estremità dei paletuvieri. Si vide la lunga asta attraversare lo spazio e cadere proprio sul dorso del lamantino, immergendosi profondamente nelle carni.

«Alla zattera!» gridò il negro.

I tre filibustieri si erano precipitati verso il galleggiante assieme a Yara. Moko li aveva già preceduti, impugnando la scure.

Il lamantino, ferito forse mortalmente, si dibatteva furiosamente fra le piante acquatiche, mandando dei grugniti che diventavano rapidamente fiochi.

Balzava in mezzo alle canne spezzandole sotto il proprio peso, s’inabissava fragorosamente sollevando delle vere ondate le quali andavano ad infrangersi rumorosamente fra le radici dei paletuvieri, poi tornava a ricomparire sbuffando e soffiando.

Malgrado quegli sforzi disperati, la lancia rimaneva sempre infissa, cagionandogli anzi, con quelle scosse incessanti, maggior dolore ed aumentando la perdita del sangue.

«Addosso!… Addosso!…» aveva gridato il Corsaro, slanciandosi a prora colla spada in pugno.

La zattera, vigorosamente spinta innanzi da Carmaux e dall’amburghese, attraversò rapidamente il canale e raggiunse il disgraziato mammifero il quale si era imbarazzato fra le radici dei paletuvieri.

Moko aveva alzata la scure. Si udì un colpo sordo come se qualche cosa fosse stato sfondato, seguito da un lungo grugnito.

«È nostro!» si udì a gridare.

Il lamantino, colla testa spaccata da un tremendo colpo di scure, era andato ad arenarsi su di un banco di sabbia e colà aveva esalato l’ultimo sospiro.

«Ecco la cena,» disse Moko, preparandosi a fare a pezzi la preda.

«E che cena!» esclamò Carmaux. «Bisognerebbe essere in cento per mangiarla tutta.»

Il Corsaro si era curvato sul mammifero e lo osservava curiosamente. Quell’abitante dei fiumi e delle lagune dell’America Centrale e meridionale era lungo cinque metri, quindi non era dei più grossi, raggiungendo questi mammiferi anche i sette e talvolta gli otto metri.

Aveva la forma d’una foca, però il muso era allungato ed un po’ anche appiattito. Invece di pinne aveva due zampe larghe e la coda molto larga e sotto il petto aveva delle mammelle ben rigonfie di latte.

Questi mammiferi sono diventati piuttosto rari oggidì. Se ne trovano però ancora nell’Orenoco, nell’Amazzonia, presso le foci dei fiumi della Guiana e sulle rive dell’Honduras e qualcuno anche nel Messico. Sono assolutamente inoffensivi, non avendo armi di difesa e si nutrono esclusivamente di piante acquatiche. Al pari delle foche, vivono tanto in acqua quanto in terra, però di rado salgono le rive, sapendo che fuori dal loro elemento perdono la loro agilità, non essendo conformati per camminare.

Moko con pochi colpi di scure aveva troncata la parte inferiore del lamantino. Era un bel pezzo pesante una sessantina di libbre, più che sufficiente a nutrire abbondantemente i filibustieri per alcuni giorni. Il resto fu abbandonato sul banco, a pasto dei caimani.

Tornati sull’isolotto, i filibustieri accesero un bel fuoco e misero ad arrostire un pezzo di lamantino infilzato in una bacchetta di ferro d’un fucile. E così fecero una cena squisita. La notte trascorse senza allarmi, quantunque i caimani avessero più volte battagliato nei dintorni dell’isolotto.

All’indomani i filibustieri si imbarcavano, colla speranza di poter raggiungere la terra ferma prima che tramontasse il sole.

Essendo il vento favorevole, per accelerare maggiormente la marcia della zattera, al di sopra del casotto avevano collocati parecchi rami assai frondosi i quali, bene o male, potevano fare l’ufficio d’una vela. A mezzodì, dopo d’aver percorsi numerosi canali e d’aver oltrepassate molte isolette, il Corsaro che erasi seduto sulla tettoia per meglio dominare la laguna, scopriva una colonna di fumo la quale s’alzava fra gli alberi che coprivano la terra ferma.

«Saranno spagnuoli o indiani?» si chiese.

«Non devono essere spagnuoli,» rispose il gigante. «In questi dintorni, che io sappia, non vi sono città. Decono essere indiani.»

«E tu, Yara, che cosa mi consigli di fare?…»

«Di raggiungere quell’accampamento, mio signore,» rispose la giovanetta. «Dagli indiani nulla abbiamo da temere, anzi avremo forse delle informazioni preziose.»

«Andiamo adunque alla costa,» disse il Corsaro, dopo una breve indecisione.

La zattera aveva allora imboccato un vasto canale il quale pareva che si dirigesse precisamente verso quella colonna di fumo.

Essendo il vento favorevolissimo, il galleggiante s’avanzava con una certa velocità, lasciandosi a poppa una larga scia gorgogliante. Isole e isolotti si stendevano sempre a destra ed a sinistra del canale, alcuni coperti da canne e da paletuvieri ed altri da alberi altissimi e assai fronzuti. Sulle rive di quando in quando si vedevano famiglie di caimani, occupate a godersi il sole.

I piccoli giuocavano colle madri, inseguendosi, mordendosi, cacciandosi in acqua reciprocamente.

Alle due, solamente un mezzo chilometro separava la zattera della terra ferma. La spiaggia molto bassa era coperta da piante d’alto fusto. Si vedevano in gran numero palme di varie specie, acagiù, felci arborescenti splendidissime e anche non pochi cedri.

La colonna di fumo non si scorgeva più, nondimeno il Corsaro sperava di giungere egualmente al campo indiano, avendone rilevata la posizione.

«Un ultimo sforzo, amici,» diss’egli a Carmaux ed ai suoi due compagni, i quali puntavano faticosamente, non essendovi più vento favorevole. «Dopo vi riposerete fino a domani.»

«Andiamo subito in cerca dell’accampamento?» chiese Carmaux.

«Tu preferiresti invece riposarti, è vero marinaio?» disse il Corsaro.

«O meglio prepararci la cena, capitano,» rispose il filibustiere, ridendo. «Abbiamo ancora un bel pezzo di lamantino da mettere sul fuoco.»

«Vada per la cena,» disse il Corsaro. «Penseremo più tardi a cercare l’accampamento.»

«Compare sacco di carbone, tu puoi frugare la foresta. Ci saranno delle frutta fra queste piante.»

«E anche del miele,» rispose il negro, il quale da qualche istante guardava in mezzo agli alberi con viva attenzione.

«Del miele, hai detto!… Ventre di balena, hai scoperto qualche alveare?»

«No, dei formicai, compare bianco.»

«Dei formicai!» esclamò Carmaux, guardando il negro con stupore. «Cosa c’entrano le formiche col miele che mi prometti?»

«Seguimi, compare, e lo saprai.»

«Seguiamolo,» disse il Corsaro, che non era meno stupito di Carmaux.

Il negro era scivolato fra due fitti cespugli fermandosi dinanzi ad una piccola diga di sabbia lunga poco più d’un metro e alta otto o dieci centimetri, la quale s’estendeva dinanzi al tronco di un grosso palmizio.

«Cos’è quello?» chiese Carmaux.

«Un nido di formiche,» rispose il negro.

Da un buco aperto nel centro di quella piccola diga, foggiato a imbuto, uscivano in quel momento alcune formiche molto più grosse delle nostre e col ventre assai rigonfio, in modo da sembrare un piccolo grano d’uva.

Moko ne prese una, la schiacciò fra le dita e l’accostò alle labbra, succhiandola avidamente.

«Puah! – fece Carmaux.

«È piena di miele, – rispose Moko().

Poi colla navaja spezzò in due la diga e mise allo scoperto una serie di gallerie e di camerette divise da piccoli muri formati da sassolini impastati con fango. Continuando a scavare in direzione di quelle gallerie brulicanti di formiche, con un ultimo colpo sollevò una zolla di terra, mostrando ai filibustieri stupiti otto cellette di forma ovale, larghe cinque o sei pollici, lunghe quattro e alte circa uno nel centro. Quei ripostigli erano ripieni d’una materia oscura la quale tramandava un leggero odore acidulo.

«Il compare bianco intinga il dito e lo porti alle labbra,» disse Moko.

«Non mi fido,» rispose il marinaio.

«Proverò io,» disse il Corsaro.

Affondò un dito in quella materia e lo accostò alla bocca.

«È miele dolcissimo,» disse.

«Proprio miele, capitano?» chiese Carmaux.

«E buonissimo, Carmaux. È solamente un po’ acidulo, in causa dell’acido formico di questi insetti.»

«Chi crederebbe che in questo paese le formiche producono il miele come le api? Se me lo avessero raccontato, non vi avrei certamente prestato fede.»

«Assaggia, Carmaux,» disse Wan Stiller. «È proprio miele.»

«Raccogliamolo e ci servirà di dolce dopo l’arrosto,» disse il Corsaro.

Moko andò a prendere una foglia di palma molto larga e, fatto una specie di cartoccio, lo riempì.

«Ne abbiamo almeno quattro libbre,» disse il negro.

«Peccato non avere dei biscotti,» disse Carmaux.

«Li surrogheremo con banane,» rispose il negro. «Spero di trovarne.»

Saccheggiate tutte le celle, i filibustieri fecero ritorno al loro accampamento, attraversando numerose colonne di formiche.

I poveri insetti, cacciati dal loro nido, fuggivano in tutte le direzioni, come un esercito sconfitto. Probabilmente aspettavano la partenza dei saccheggiatori per ritornare nelle gallerie e ricominciare le costruzioni atterrate dal negro.

Queste laboriose formiche sono abbastanza numerose nell’America Centrale, particolarmente nel Messico e nel Nuovo Messico e lungo il Colorado.

Dobbiamo però aggiungere anche che sono molto perseguitate sia dagli uomini che dagli animali, specialmente dagli orsi formichieri, i quali oltre a divorare ingordamente il miele, divorano pure le produttrici. Il miele che depositano nelle loro celle di poco differisce da quello delle api, avendo un gusto molto gradevole, ma senza profumo. È una soluzione quasi pura di zucchero, senza però traccia di cristallizzazione. Solamente in estate è leggermente acidulo.

Quella materia la estraggono dalla gomma zuccherata della noce di galla prodotta dalla quercia ondulata e si calcola che siano necessarie oltre novecento formiche per produrne una libbra.

I messicani e sopratutto gl’indiani, ne fanno un grande consumo e sanno anche estrarne un liquore molto alcoolico e assai gustoso.

CAPITOLO XVII. VERA-CRUZ

Dopo di essersi riposati qualche ora e aver calmata la fame, i filibustieri si misero in marcia per cercare l’accampamento indiano.

Temendo però che invece d’indiani fossero spagnuoli, Moko che era il più lesto di tutti, fu mandato innanzi ad esplorare i dintorni. La foresta che attraversavano era fittissima e formata da piante diverse le quali crescevano così vicine le une alle altre, da rendere talvolta assai difficile il passo.

Vi erano splendidi banani, dalle foglie smisurate e che portavano enormi grappoli di frutta succolente; superbe felci arborescenti d’altezza prodigiosa; cedri colossali che spandevano profumi deliziosi, essendo in fiore; bellissime palme alte trenta e perfino quaranta piedi, coronate da lunghe foglie ricadenti elegantemente e ricche di spate d’una splendida tinta turchina a liste color del fuoco; poi acagiù dal legno prezioso, aranci, palme della cera e cento altre di specie svariate. Un numero infinito di liane circondava quelle piante, intrecciandosi in mille guise, serpeggiando a livello del suolo od attortigliandosi attorno ai tronchi ed ai rami degli alberi.

Numerosi volatili cicalavano in mezzo all’immensa volta di verzura. Erano per lo più pappagalli, ma non mancavano le splendide are dalle belle piume color del fuoco, nè i caninde dalle ali turchine ed il petto giallo.

Di quando in quando, lungo i tronchi, si vedevano fuggire quelle brutte lucertolone chiamate iguane o lagarti, lunghe quattro o cinque piedi, colla pelle nerastra a riflessi verdastri, rettili che fanno ribrezzo a vederli e che pure sono così ricercati per la delicatezza delle loro carni, le quali ricordano quella dei giovani polli, così almeno affermano i buongustai messicani e brasiliani.

Dopo aver marciato una buona ora, aprendosi faticosamente il passo fra quel caos di vegetali, i filibustieri s’incontrarono con Moko il quale li aveva preceduti di tre o quattrocento metri.

«Hai veduto gl’indiani?» chiese il Corsaro.

«Sì,» rispose il negro. «Il loro accampamento è vicino.»

«Sono molti?»

«Forse una cinquantina.»

«Ti hanno già veduto?»

«Ho parlato col loro capo.»

«Acconsentono a darci ospitalità?»

«Sì, avendo io detto loro che noi siamo nemici degli spagnuoli e che fra noi si trova una principessa indiana.»

«Hai veduto dei cavalli nel loro campo?»

«Ne hanno una ventina.»

«Spero che ce ne venderanno,» disse il Corsaro. «Andiamo, amici, e se tutto va bene vi prometto di condurvi domani a Vera-Cruz.»

Pochi minuti dopo i filibustieri giungevano all’accampamento indiano. Esso si componeva di una ventina di capanne, formate di frasche e di pali e abitate da una dozzina di famiglie.

Era una tribù minuscola, che aveva preferita la libertà nella foresta vergine al duro lavoro delle miniere a cui gli avidi conquistatori spagnuoli sottoponevano in quell’epoca tutte le pelli rosse.

Quei poveri indiani erano però assai miserabili. Non vivevano che di caccia e di pesca e tutta la loro ricchezza consisteva in una ventina di cavalli ed in pochi montoni. Avendo saputo che i filibustieri erano nemici degli spagnuoli, fecero al Corsaro ed ai suoi compagni una lieta accoglienza, mettendo a loro disposizione le migliori capanne ed offrendo un montone che fu subito sgozzato.

Dal capo, un vecchio che conosceva molto bene il paese, il Corsaro potè avere preziose informazioni sulla via da tenere per recarsi a Vera-Cruz. All’indomani, prima dell’alba, il drappello lasciava il villaggio, dopo d’aver compensata largamente l’ospitalità offerta da quei buoni indiani. Il Corsaro aveva potuto ottenere cinque vigorosi cavalli di razza andalusa, i quali promettevano di far molto cammino senza stancarsi.

A mezzodì, dopo una corsa indiavolata, i filibustieri che avevano presa la via costiera, giungevano già all’altezza di Jalapa, una piccola borgata di ben poca importanza a quell’epoca, ed oggi invece una delle più belle cittadine del Messico. Fecero una fermata d’un paio d’ore per lasciar riposare i cavalli che fumavano come zolfatare e alle due riprendevano la corsa, ansiosi di giungere finalmente nella città abitata dall’odiato Wan Guld.

Non fu che alle sette della sera che essi poterono scorgere, sul luminoso orizzonte, le torri merlate del forte di S. Giovanni di Luz che allora era armato di sessanta cannoni e che si reputava come imprendibile.

Scorgendolo, il Corsaro Nero aveva trattenuto il suo cavallo. Un lampo terribile balenava nei suoi sguardi ed i suoi lineamenti si erano alterati.

«Lo vedi, Yara?» chiese con voce cupa.

«Sì, mio signore,» rispose la giovane indiana.

«Tu lo credi imprendibile, è vero?»

«Si dice che sia la rocca più forte del Messico.»

«Ebbene fra pochi giorni noi abbasseremo lo stendardo di Spagna che sventola sulla grande torre.»

«Ed io sarò vendicata?»

«Sì, Yara.»

Ciò detto cacciò gli sproni nei fianchi del cavallo e partì a gran galoppo, attraversando le piantagioni di cacao che coprivano le pianure. Alle nove di sera, un poco prima che si chiudessero le porte, il drappello giungeva senza ostacoli in Vera-Cruz. Questa città ora è una delle più importanti e anche delle più popolose del Messico, ma in quell’epoca non aveva che la metà dei venticinquemila abitanti che conta oggidì. Tuttavia anche nel 1683 era reputata come uno dei migliori e dei più ricchi porti del Messico, sebbene anche allora godesse fama di essere uno dei più malsani del gran golfo e uno dei più battuti dalle tempeste. Gli spagnuoli ne avevano fatto un gran centro commerciale e vi avevano accumulate ricchezze immense, munendolo però di solide fortificazioni, onde metterlo al coperto da un possibile assalto da parte dei filibustieri.

Il Corsaro Nero, guidato da Yara, la quale conosceva benissimo la città avendovi soggiornato più di due anni, si fece condurre in una posada, ossia in un albergo, situato nelle vicinanze del forte di S. Giovanni di Luz. Più che un albergo era una modesta trattoria, frequentata da marinai e da mulattieri, dove si poteva avere un pessimo letto ed un magro pranzo per cinque piastre a testa.

Il padrone, un grosso andaluso, che doveva essere molto amante del generoso vino spagnuolo, a giudicarlo dalla tinta rubiconda del suo naso, fiutato nei nuovi arrivati dei buoni clienti, mise a loro disposizione le due uniche camere d’albergo e la sua cucina.

«Abbiamo molta fame,» disse Carmaux, che fungeva da maggiordomo. «Ti domandiamo un pranzo eccellente e soprattutto delle bottiglie squisite. Don Guzman de Soto, mio padrone, è uomo da non lesinare le piastre.»

«Sua Eccellenza non avrà da lamentarsi di me,» rispose l’andaluso, inchinandosi umilmente.

«Ah!… Mi dimenticavo una cosa,» disse Carmaux, assumendo l’aria d’un personaggio importante.

«Cosa desidera S. E.?»

«Mia eccellenza voleva chiederti una informazione.»

«Sono tutto orecchi.»

«Volevo chiederti come sta l’amico del mio signore, il duca di Wan Guld. È molto tempo che non l’abbiamo veduto.»

«Gode ottima salute, Eccellenza.»

«È sempre in Vera-Cruz?»

«Sempre, Eccellenza.»

«E dove abita?»

«Presso il governatore.»

«Grazie, amico: ti raccomando il pranzo e sopratutto bottiglie buone.»

«Del Xères e dell’Alicante autentico, Eccellenza.»

Carmaux lo congedò con un gesto maestoso e raggiunse il Corsaro il quale stava parlando animatamente con Yara, in una delle due stanze messe a sua disposizione dal trattore.

«Il fiammingo è qui, capitano,» gli disse. «Me l’ha confermato or ora l’oste.»

«Allora tu Yara mi condurrai dalla marchesa di Bermejo.»

«Questa sera istessa?»

«Forse domani i filibustieri saranno qui.»

«E se questa notte il duca non andasse dalla marchesa?» disse Yara.

«Andrò ad assalirlo nel suo palazzo e lo ucciderò egualmente.»

«Una impresa impossibile, capitano,» disse Carmaux.

«Perchè dici questo?»

«L’oste mi ha detto che il duca è ospite del governatore. Come vorreste entrare nel palazzo, che sarà guardato da numerose sentinelle?»

«È vero, Carmaux,» disse il Corsaro. «Però bisogna che io lo trovi prima che giungano qui i filibustieri.»

L’oste in quel momento entrò, seguito da due giovani negri, i quali portavano dei canestri ripieni di piatti e di bottiglie.

Deposero tutto su una tavola già apparecchiata, poi ad un cenno di Carmaux si ritirarono, chiudendo la porta.

«L’oste ha fatto dei veri miracoli,» disse Carmaux, il quale ispezionava le vivande e le bottiglie da uomo che se ne intende.

«Ecco qui una bell’anitra in salsa piccante.»

«Ed ecco qui una grossa iguana arrostita,» disse Moko. «Piatto da governatore.»

«E questo è un pezzo di manzo con fagiolini verdi.»

«E queste bottiglie!» esclamò Wan Stiller. «Capperi!… Xères del 1650!… Malaga del 1660 e Alicante del 1500!…»

I filibustieri, messi di buon umore da un eccellente bicchiere di Malaga molto vecchio, assalirono animosamente le vivande. Solamente il Corsaro, troppo preoccupato, fece poco onore al pasto, con grande rincrescimento di Carmaux il quale non finiva mai di lodare la squisitezza delle vivande e sopratutto la bontà dei vini.

Verso le dieci della sera, il Corsaro s’alzò, dicendo:

«È l’ora della vendetta: andiamo.

Vuotò d’un fiato un ultimo bicchiere di Xères, si cinse la spada, si avvolse nell’ampio mantello infioccato e aprì la porta. Tutti gli altri si erano alzati.

«Dobbiamo portare con noi anche i fucili?» chiese Carmaux.

«Basteranno le vostre pistole e le navaje,» rispose il Corsaro. «Vedendoci armati, gli spagnuoli potrebbero avere qualche sospetto su di noi.

Avvertirono il trattore che sarebbero tornati molto tardi, dovendo visitare molti amici e uscirono preceduti dalla giovane indiana. Le vie erano buie e pochissimo frequentate, avendo l’abitudine gli spagnuoli, in quell’epoca, di ritirarsi per tempo nelle loro case. Solamente su qualche terrazza si vedevano delle persone che stavano godendosi il fresco della notte.

Yara, a fianco del Corsaro, procedeva senza esitare. Quantunque mancasse da Vera-Cruz da qualche anno, conosceva ancora a menadito la città.

«Avremo da camminare molto?» le aveva chiesto il Corsaro.

«Non più d’un quarto d’ora,» aveva risposto la giovane.

Stavano per voltare l’angolo d’una via, quando il Corsaro fu violentemente urtato da un uomo avvolto in un ampio mantello e che veniva dalla parte opposta.

«Tonnerre de Dieu!» esclamò lo sconosciuto, facendo un balzo indietro e mettendosi sulla difensiva.

«Toh!… Un francese!» esclamò il Corsaro.

Lo sconosciuto udendo quella voce aveva aperto il mantello poi si era avvicinato rapidamente al Corsaro guardandolo attentamente.

«Il signor di Ventimiglia!» esclamò. «Ecco una fortuna inaspettata!…»

«Chi sei tu?» chiese il Corsaro mettendo la destra sull’impugnatura della spada.

«Un uomo di Grammont, cavaliere.»

«E come ti trovi qui?» chiese il signor di Ventimiglia con stupore.

«Venivo in cerca di voi, cavaliere.»

«Sapevi che ero qui?»

«Grammont lo sperava.»

«E cosa devi dirmi?»

«Vi venivo ad avvertire che i filibustieri sono già sbarcati a due leghe da Vera-Cruz.»

«E quando assaliranno la città?»

«Domani, all’alba.»

«Quando sei giunto qui?»

«Da sole tre ore, – rispose il francese.

«La mia Folgore s’è unita alla squadra?

«Sì, cavaliere, ed ha sbarcato buona parte del suo equipaggio.

«Devi ritornare da Grammont?

«Subito, cavaliere.

«Gli dirai allora che gli spagnuoli sono tranquilli e che non hanno finora alcun sospetto.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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