Kitabı oku: «La regina dei Caraibi», sayfa 19
CAPITOLO XXXI. GLI ANTROPOFAGHI DELLA FLORIDA
Per tre giorni i filibustieri s’avanzarono attraverso a foreste di pini e di cipressi, costeggiando vaste paludi dalle acque nere e fangose, pullulanti di caimani e di serpenti alligatori, poi al quarto, completamente privi di viveri, non avendo incontrato alcun animale da uccidere, si arrestavano sulle rive di un fiume che serpeggiava in mezzo ad una boscaglia. Da dodici ore non avevano mangiato che poche manate di tupelas, specie di prugne, piuttosto grosse, di forma oblunga, eccellenti a mangiarsi, ma non sufficientemente nutritive, specialmente per uomini che marciavano dall’alba al tramonto.
«Ci fermeremo qui tutta la giornata,» disse il Corsaro, vedendo che i suoi uomini non potevano più reggersi in piedi. – La baia già non deve essere molto lontana.
«E noi ci metteremo in caccia,» disse Carmaux, al negro. «Questo fiume non deve essere sprovvisto di pesci.»
«Non allontanatevi troppo,» disse il Corsaro, il quale, aiutato dall’amburghese, stava costruendo una capannuccia.
«Non batteremo che i dintorni,» rispose Carmaux. «Vieni compare, e speriamo di ritornare carichi di selvaggina e di pesci.»
Presero i loro randelli, vi attaccarono i loro pugnali onde servirsene come lance e si misero a costeggiare il fiume battendo le folte erbe ed i cespugli colla speranza di far uscire qualche tartaruga.
La foresta che si estendeva sulle due rive non era formata esclusivamente di pini e di cipressi. Qua e là si vedevano macchie d’alberi da cetriuoli, specie di magnolie dal tronco liscio e alte più di trenta metri, con foglie larghissime e una grande quantità di fiori d’una tinta bianco-turchiniccia che espandevano un soave profumo di violetta. Vengono chiamati alberi da cetriuoli, perchè le frutta ne hanno la forma e anche la grossezza. Sono però rossi a completa maturazione e vengono adoperati per metterli in infusione, rimedio eccellente per combattere le febbri intermittenti.
Si vedevano pure macchie di sassifraghi dal legno nero, il fogliame d’un verde appannato, di aspetto triste, di noci nere, piante d’aspetto maestoso, altissime, frondose, e di rododendri formanti cespi alti dieci metri, con rami grossi quanto la coscia d’un uomo e coperti di fiori porporini e di magnolie che espandevano profumi così acuti da stordire.
Numerosi uccelli si levavano da tutte le parti all’apparire dei due filibustieri, ma fuggivano così rapidamente da rendere vano ogni tentativo per abbatterli. Fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche, anitre, palombi dalla testa bianca volteggiavano in mezzo alle piante, mentre lungo le rive del fiume si vedevano fuggire dei bellissimi galli dal collare, uno dei volatili più ricercati per la squisitezza delle sue carni e che si pagano carissimi dai ghiottoni americani e non poche galline sultane, col becco e gli occhi rossi, la gola ed il petto purpurei, le ali e la coda turchine e verdi ed il groppone bianco.
«Guarda quelle gallinelle,» disse il negro, indicando parecchie coppie di uccelli somiglianti alle nostre pernici, grige di piume. «Sono eccellenti, compare.»
«E quell’uccellaccio là, tutto gambe, che ha le penne bruno-rossicce e la testa picchiettata di bianco? Come si chiama?»
«È un curlam, chiamato anche becco a lancetta.»
«E perchè, compare sacco di carbone?»
«Perchè il suo becco è così duro ed aguzzo da somigliare ad una lama d’acciaio. L’uccello se ne serve per tenere testa ai cani e anche ai cacciatori.»
«E quell’altro che rade le acque del fiume e che ha le penne verdi dorate sopra e bianche sotto e la coda mezza nera e mezza rossa?»
«È un jacamar, una specie di tordo marino, molto squisito.»
«E quella bestia là, accovacciata sulla riva del fiume? Cosa credi che sia compare?»
«Un orso lavatore.»
«Tuoni!… Un altro orso!» esclamò Carmaux, facendo un salto.
«Non pericoloso però, compare. Guardalo bene.»
Quell’animale, che il negro aveva chiamato un orso lavatore, non era più grosso di un cane barbone. Aveva il muso molto appuntito come quello dei sorci, la coda lunga e ricca di peli come quella d’una volpe, il pelame grigio-giallognolo a screziature nere.
Questi orsi, poichè appartengono alla famiglia dei plantigradi, quantunque non rassomiglino nè ai neri, nè ai grigi, nè ai bruni, si chiamano anche raccoon o procioni e sono affatto inoffensivi. Abitano le foreste ricche d’acqua e sono per lo più notturni, però non è raro incontrarli anche di giorno. La loro unica occupazione è la pesca. Passano delle lunghe ore sulle rive dei fiumi e degli stagni, cercando pesci, molluschi, gamberi e larve, che mettono poi da parte, avendo l’abitudine di non mangiare il cibo se prima non lo hanno ben lavato e parecchie volte.
L’animale scoperto da Carmaux, stava appunto preparandosi la colazione.
Aveva ammucchiati parecchi piccoli pesci, dei ranocchi e dei gamberi e colle zampe anteriori li manipolava lavandoli nella corrente.
«E quell’animaletto lo chiami un orso!» esclamò Carmaux, scoppiando in una risata.
«Lo è, compare,» rispose Moko.
«È mangiabile?»
«I negri hanno una vera passione per la carne di quegli animali.»
«Allora cerchiamo di catturarlo.»
«È quello che volevo proporti.»
Carmaux ed il negro si misero a strisciare in quella direzione, tenendosi sottovento onde l’orso non li fiutasse.
L’animale era però così occupato a lavare i cibi, da non accorgersi del grave pericolo che correva.
Dieci minuti dopo Carmaux ed il compagno giungevano a quindici passi, nascondendosi dietro un cespo di pontedeire.
«Tiri?» chiese Carmaux.
«E non lo sbaglierò,» rispose il negro, alzando la lancia.
Già stava per scagliare l’arma, quando si udì in aria un leggero sibilo. Una freccia era partita da una macchia di rododendri ed era andata a colpire il povero orso lavatore alla gola, attraversandogliela da parte a parte.
Carmaux e Moko erano balzati in piedi, esclamando:
«Gl’indiani!»
Quasi nell’istesso momento quattro pelli-rosse, di statura alta, semi-nudi, colla testa adorna di piume e armati di archi e di mazze pesantissime, balzarono fuori dal cespuglio, fermandosi dinanzi ai due filibustieri, stupiti da quella improvvisa comparsa.
«Carmaux!»
«Moko!»
«Fuggiamo!»
«Gambe, compare.»
Stavano per prendere la corsa, quando altri cinque indiani, armati come i primi, comparvero dietro ai due filibustieri, tagliando loro la ritirata.
«Che gli uomini bianchi si fermino,» disse uno di quegli indiani in cattivo spagnuolo.
«Moko, siamo presi,» disse Carmaux, arrestandosi.
«Prepariamoci a vendere cara la pelle,» rispose il negro, impugnando la lancia.
«Ci faremo uccidere inutilmente.»
«Che gli uomini bianchi depongano le armi,» disse l’indiano che aveva parlato e che doveva essere il capo del drappello, a giudicarlo dalle tre penne d’aquila che portava infisse nella capigliatura. «Se non obbediscono noi li uccideremo.»
Invece di deporre la lancia, Moko con un moto fulmineo si gettò contro il secondo drappello colla speranza di aprirsi il passo e di slanciarsi nella foresta. Gl’indiani, che forse si aspettavano quella mossa, in un baleno strinsero la loro linea e scagliatisi sul fuggiasco lo atterrarono, strappandogli la lancia.
Sei o sette mazze si alzarono su di lui, mentre il capo indiano diceva con voce minacciosa: «Arrenditi o sei morto!»
Ogni resistenza sarebbe stata vana, anzi pericolosa, poichè gl’indiani parevano disposti ad eseguire la minaccia. Il negro che si preparava a difendersi disperatamente coi pugni, si lasciò legare senza opporre resistenza, onde non uccidessero anche Carmaux, il quale ormai si era arreso.
«Compare,» disse questi al negro. «È meglio non farsi ammazzare pel momento; la speranza di poter sfuggire a questi birboni non è ancora perduta. Fingiamo di rassegnarci a servire loro da cena o da colazione.»
«Ed il capitano?»
«Non facciamo comprendere agl’indiani che abbiamo dei compagni. Il Corsaro e l’amburghese non potrebbero opporre maggior resistenza di noi.»
Mentre si scambiavano queste parole, le pelli-rosse, radunate presso la riva del fiume, pareva che tenessero consiglio.
Discutevano animatamente, si curvavano al suolo come se esaminassero le tracce lasciate sul terreno dai due prigionieri, poi giravano attorno ai cespugli ed alle macchie, quindi tornavano a radunarsi parlando a voce bassa.
«Moko,» disse Carmaux, che non li perdeva di vista. «Mi pare che sospettino che noi abbiamo dei compagni.»
«È vero, compare,» rispose il negro.
«Che riescano a sorprendere anche il capitano?»
«Lo temo, compare. I nostri compagni sono accampati a breve distanza da qui e forse hanno acceso il fuoco in attesa della colazione. Il fumo li tradirà.»
«Brutto affare se dovessero venire presi anch’essi,» disse Carmaux. «Sarebbe la nostra rovina.»
In quel momento il capo indiano si avvicinò a loro, dicendo sempre in un pessimo spagnuolo:
«Voi non siete soli.»
«T’inganni, capo,» rispose Carmaux. «Noi non abbiamo alcun compagno.»
«L’uomo bianco cerca di sviare le nostre ricerche, ma non vi riuscirà. Noi abbiamo veduto del fumo alzarsi in mezzo agli alberi.»
«Qualche indiano avrà acceso la legna per cucinarsi la colazione.»
«Qui non vi è che la nostra tribù,» disse il capo. «Quel fuoco è stato acceso dai tuoi compagni.»
«Allora va a cercarli.»
«È quello che faremo, uomo bianco. Voglio però sapere quanti sono.»
«Molti ed hanno delle armi che tuonano e che mandano fuoco.»
«Gli uomini rossi conoscono le armi degli spagnuoli e non le temono, – disse il capo con fierezza. – I nostri avi ci hanno insegnato ad affrontarle.»
Fece legare i prigionieri al tronco d’un albero, mise a guardia di loro due guerrieri di statura quasi gigantesca, armati di pesantissime mazze, poi si inoltrò sotto gli alberi seguito da tutti gli altri indiani.
«Tuoni d’inferno!» esclamò Carmaux, digrignando i denti. «Anche il capitano è perduto!…»
«Temo, compare, che non ci rimanga da vivere che poche ore. Gli spagnuoli, colle loro crudeltà, hanno resi quest’indiani feroci e perciò non ci risparmieranno.»
«La morte non mi fa paura, compare. Vorrei però sapere in quale modo ce la daranno. Si dice che tormentino atrocemente i prigionieri prima di spedirli all’altro mondo.»
«L’ho udito a raccontare anch’io,» rispose Moko.
«Proviamo ad interrogare questi due indiani, se ci comprendono.»
«Ditemi, uomini rossi, cosa vuol farne il capo di noi?» chiese Carmaux, volgendosi verso i due giganti che si erano seduti presso l’albero.
«Vi mangeremo,» rispose uno dei due indiani, con un sorriso atroce.
«Canaglie!» gridò Carmaux, con voce spezzata. «Ci volete mangiare!…»
«Tutti i prigionieri si arrostiscono.»
«Compare!» esclamò Carmaux, mentre un freddo sudore gli bagnava la fronte. «Se non troviamo un mezzo per fuggire per noi è finita.»
Il negro non rispose. Si era curvato per quanto glielo permettevano i legami e pareva che ascoltasse con estrema ansietà.
«Hai udito qualche grido?»
«Mi pare.»
«Che abbiano già sorpreso il capitano?»
«Tuoni!»
Un clamore assordante si era alzato in mezzo ai pini ed ai cipressi che si estendevano lungo il fiume.
«Assaltano il campo!» esclamò Carmaux con angoscia.
Le grida erano subito cessate. L’assalto doveva essere stato così improvviso da evitare qualsiasi resistenza da parte del Corsaro Nero e dell’amburghese.
I due guardiani si erano alzati e guardavano sotto gli alberi.
«Vengono?» chiese loro Carmaux.
«I vostri compagni sono presi,» rispose uno dei due giganti.
Diceva il vero poichè alcuni istanti dopo si videro comparire gl’indiani i quali trascinavano i due filibustieri.
Il Corsaro e anche l’amburghese avevano le vesti a brani, ma non pareva che avessero ricevute ferite. Certamente dopo una breve resistenza si erano arresi per non farsi accoppare a mazzate.
«Capitano!» gridò Carmaux, con voce strozzata.
«Anche tu, Carmaux!» esclamò il signor di Ventimiglia. «Mi ero immaginato che eravate stati presi.»
«Siamo nelle mani degli antropofaghi, signore!»
I due filibustieri furono legati con fibre vegetali e gettati dinanzi all’albero a cui stavano attaccati Carmaux ed il negro. Il capo indiano venne ad accoccolarsi dinanzi a loro, mentre i suoi uomini stavano tagliando dei rami per improvvisare forse delle barelle.
«Sei tu il capo di questi uomini?» chiese, volgendosi verso il Corsaro.
«Sì,» rispose questi.
«Come vi trovate qui? Gli uomini dalla pelle bianca non hanno mai abitato queste foreste.»
«Siamo naufragati.»
«Si è rotta una di quelle grandi case galleggianti?»
«Si è sfasciata sulle scogliere.»
Gli sguardi del capo ebbero un lampo di cupidigia.»
«Tu mi dirai dove si è spezzata. Io so che quelle grandi case galleggianti contengono sempre delle ricchezze.»
«Le onde hanno spazzato via ogni cosa,» rispose il Corsaro.
«Tu cerchi d’ingannarmi.»
«A quale scopo?»
«Per raccogliere tu quelle ricchezze, ma non le avrai perchè noi ti mangeremo.»
«Saremo un po’ duri,» disse il Corsaro con ironia.
«Andiamo,» disse il capo, alzandosi.
I suoi guerrieri avevano preparate le barelle formate con rami di pino legati con liane. Presero i quattro prigionieri e ve li coricarono sopra.
Il drappello, preceduto da quattro esploratori, si mise in marcia dirigendosi verso l’ovest, ossia in direzione del mare.
«Capitano,» disse Carmaux, il quale veniva dietro al Corsaro. «Che sia proprio finita per noi?»
«Tutto è nelle mani di Dio, Carmaux. Se la nostra ultima ora è giunta, sapremo morire da forti.
«Siamo sfuggiti all’esplosione ed alle ire del mare per finire nel ventre di questi ributtanti antropofaghi! Sarebbe stato meglio che ci avessero divorati gli squali.»
«Morire in un modo o nell’altro è tutt’uno, Carmaux. Anch’io avrei preferito cadere sul ponte della mia nave, fra il rombo delle artiglierie e le grida di guerra degli equipaggi… ma bah!… Si compia il mio destino.»
Intanto gl’indiani marciavano rapidamente, costeggiando la riva sinistra del fiume che era quasi sgombra di cespugli. Solamente di quando in quando dei macchioni di palme e di platani, avvolti fra un caos di cobee arrampicanti che formavano dei grandi festoni con ghirlande di fiori vivaci, si spingevano fino sulla riva, costringendo le pelli-rosse ad aprirsi il passo a gran colpi di mazza. A mezzogiorno il drappello si arrestava sul margine di un laghetto formato dal fiume. Arrostirono l’orso lavatore che non avevano dimenticato, aggiungendovi alcuni conigli che avevano uccisi lungo la via e delle prugne di tupelas.
I prigionieri non furono dimenticati, anzi ebbero una porzione molto abbondante.
«Hanno paura che dimagriamo,» disse Carmaux, con un comico sospiro. «Potessi diventare magro come un’aringa!»
«Non guadagneresti molto,» disse Wan Stiller. «Questi indiani sarebbero capaci d’ingrassarti a forza.»
«Come le anitre del mio paese.»
«Io però non ho ancora perduta la speranza di fuggire.» disse il corsaro
«Sognate la liberazione?» chiese Wan Stiller.
«La tenteremo.»
«In quale modo? Questi indiani non mi sembrano così sciocchi da permetterci di andarcene.»
«Ti dico che qualche cosa noi faremo.»
«Avete qualche piano, capitano?»
«Forse,» rispose il Corsaro. «Sapete che ho nascosta la misericordia?»
«Come, voi non l’avete data agli indiani?» chiesero Carmaux e Wan Stiller.
«No, ho avuto il tempo di cacciarmela sotto il panciotto.»
«Cosa potrete fare con quell’arma?» chiese Carmaux.
«Potrà servirci a tagliare le corde innanzi a tutto,» rispose il Corsaro.
«Non vale una pistola, capitano.»
«Può esserci ugualmente utile, mio bravo Carmaux. Una mano robusta che la sappia adoperare non si troverà imbarazzata a uccidere una sentinella. Amici, non disperiamo ancora. Questa sera sapremo se vi sarà qualche probabilità di prendere il largo.»
La loro conversazione fu interrotta dagli indiani. Terminato il pasto, s’erano rialzati ricollocando i prigionieri sulle barelle.
Fatto il giro del laghetto, il drappello si cacciò sotto una folta pineta, i cui tronchi però permettevano il passaggio senza dover ricorrere alle mazze, non essendo circondati da cespugli. Il capo pareva che avesse molta fretta di giungere al villaggio poichè incitava sovente i portatori delle barelle ad allungare il passo. Un po’ prima del tramonto il drappello giungeva improvvisamente sulla riva del mare. La costa in quel luogo formava un’ampia insenatura difesa da alcune file di scogliere e sulla spiaggia si vedevano numerose canoe scavate nei tronchi di pino, adorne a prora di teste di coccodrillo. All’estremità della baia i prigionieri scorsero due dozzine di capanne allineate su una doppia fila, formate con tronchi e coperte di foglie secche.
«Il tuo villaggio?» chiese il Corsaro al capo che gli camminava a fianco.
«Dei nostri pescatori,» rispose l’indiano. «Il grosso della tribù abita sui fianchi di quella montagna.»
Il Corsaro alzò gli occhi e vide dietro il bosco di pini ergersi una collina coperta di fitte piante, sulle cui pendici si scorgevano numerosi gruppi di capanne.
«È numerosa la tua tribù?» chiese il Corsaro.
«Numerosa e potente,» rispose l’indiano con orgoglio.
«Allora vi sarà un re.»
Il capo lo guardò, ma non rispose, anzi si allontanò per mettersi alla testa del drappello.
Una mezz’ora dopo i guerrieri giungevano al piccolo villaggio dei pescatori. Parecchi indiani, quasi interamente nudi, non avendo che un piccolo perizoma stretto ai fianchi e delle penne sulla testa, si erano precipitati verso i prigionieri mandando grida minacciose ed agitando le mazze, le lance e certi coltellacci di pietra molto affilati.
Il capo con un gesto li trattenne, poi fece condurre i quattro prigionieri dinanzi ad una grande gabbia costruita con solidissimi rami di noce hickorys e coperta, nella parte superiore, di quell’erba dura e amara che pullula nelle terre salate della Florida e che viene chiamata algochloa. I quattro corsari furono spinti dentro, facendoli passare per una stretta apertura, che fu poi subito chiusa con robuste traverse.
«Per ora rimarrete qui,» disse il capo, volgendosi verso il Corsaro.
«E quando ci mangerete?»
«La vostra vita dipende dal genio del mare.»
«Chi è questo genio del mare?»
«Ciò non ti riguarda,» rispose il capo volgendogli le spalle ed allontanandosi.
«Capitano,» chiese Carmaux. «Chi sarà questo genio?»
«Non ne so più di te,» rispose il signor di Ventimiglia. «Suppongo però che sia qualche grande capo, il comandante supremo della tribù o qualche stregone.»
«Se avesse un po’ di compassione per noi!»
«Non crearti delle illusioni, Carmaux.»
«Allora non ci resta che tentare la fuga.»
«È quello che faremo più tardi. Non vi sono che due sentinelle a guardia della gabbia.»
«Purchè più tardi non vengano raddoppiate.»
«Lo si vedrà, Carmaux. Orsù, corichiamoci e fingiamo di dormire. Più tardi, quando tutti gli abitanti del villaggio dormiranno profondamente, tenteremo qualche cosa. Moko!»
«Padrone.»
«Tu che possiedi una forza prodigiosa, saresti capace di spezzare queste sbarre?»
«Mi sembrano molto solide, capitano, però spero di riuscirvi.»
«Senza rumore.»
«Mi ci proverò.»
«Carmaux, tu devi tentare di rodere le tue corde.»
«I denti sono buoni, capitano, e con un po’ di pazienza taglierò i miei legami. Vedo che facendo qualche sforzo posso accostare le mani alle labbra.»
«Benissimo!»
«E le sentinelle?» chiese Wan Stiller.
«Le sorprenderemo e le pugnaleremo.»
«E dopo? Avremo addosso tutti gli abitanti del villaggio.»
«Le scialuppe non sono lontane e fuggiremo subito in mare. Chiudete gli occhi ed aspettate il mio segnale.»
CAPITOLO XXXII. LA FUGA DEI CORSARI
A poco a poco i rumori erano cessati nel villaggio dei pescatori ed i fuochi accesi presso le capanne si erano spenti. Non si udiva altro che il monotono e regolare fragore delle onde, spinte dalla marea, che venivano ad infrangersi sulla sponda.
Gli indiani che dovevano aver pescato tutta la giornata, a giudicare dalla straordinaria quantità di pesce messo a seccare su certe graticole di legno rizzate sulla riva, si erano addormentati ed il drappello dei cacciatori, che aveva camminato dall’alba al tramonto, non aveva tardato ad imitarli.
Solamente le due sentinelle che erano state collocate presso la gabbia, vegliavano ancora, sedute presso un falò già quasi semispento, ma non dovevano tardare a chiudere gli occhi. La loro conversazione languiva ed il Corsaro, che non le perdeva di vista, si era accorto che facevano sforzi straordinarii per non abbandonarsi in braccio a Morfeo.
Doveva essere la mezzanotte quando gli ultimi tizzoni del falò, non più ravvivati, si spensero completamente. Per alcuni minuti ancora le braci proiettarono verso la gabbia qualche po’ di luce sanguigna, poi anche quelle si coprirono di cenere e l’oscurità piombò in quel luogo.
Le due sentinelle si erano sdraiate l’una presso all’altra e russavano.
«È il momento,» disse il Corsaro, dopo essersi assicurato che nessun altro indiano vegliava attorno alla gabbia.
«Si sono addormentati?» chiese Carmaux.
«Non li odi a russare?»
«Purchè non fingano di dormire, capitano! Non mi fido affatto di questi indiani.»
«Rompi le corde, Carmaux.»
«Le ho rose così bene che si spezzeranno subito, capitano.»
«Allora affrettati.»
Il marinaio contrasse le braccia più che potè, poi le fece scattare allargandole di colpo. Le corde vegetali, già intaccate in varii punti dai suoi acuti denti, si spezzarono.
«Ecco fatto, capitano,» disse.
«Frugami nel petto,» disse il signor di Ventimiglia. – La misericordia l’ho nascosta qui.
Il filibustiere cacciò una mano sotto il panciotto di seta nera del Corsaro e trovò il pugnale, un’arma affilatissima, d’una robustezza eccezionale, di acciaio di Toledo, il migliore che si conoscesse in quei tempi.
«Ora recidi le nostre corde,» disse il signor di Ventimiglia. «Adagio, non far rumore.»
Carmaux, dopo d’essersi assicurato che le sentinelle non si erano mosse, s’accostò ai suoi compagni e tagliò destramente i loro legami.
«Almeno potremo morire difendendoci,» disse il Corsaro stiracchiandosi le membra indolenzite da quelle legature.
«Cosa devo fare capitano?» chiese il negro.
«Levare due traverse della gabbia.»
Il negro ed il marinaio passarono dalla parte opposta onde essere più lontani dalle due sentinelle ed intaccarono risolutamente una delle sbarre.
Il legno era durissimo, essendo di noce nero, ma Moko aveva il pugno solido ed il pugnale tagliava come un rasoio. Bastarono cinque minuti per recidere parte della traversa.
Afferrarono la sbarra e facendo forza insieme la staccarono. S’udì un leggero scricchiolìo, poi più nulla.
«Fermi!» mormorò il Corsaro.
Quantunque il rumore fosse stato leggierissimo, uno dei due indiani si era alzato brontolando.
I quattro filibustieri s’erano sdraiati prontamente l’uno vicino all’altro, mettendosi a russare.
L’indiano, sospettoso come tutti i suoi compatriotti, rimosse coll’estremità della lancia i tizzoni, alzando qualche scintilla, poi sempre brontolando fece il giro della gabbia e ritornò presso il compagno senza essersi accorto che una sbarra era stata già levata.
Rimase qualche minuto ritto, guardando la luna che allora cominciava ad alzarsi specchiandosi nel mare poi, rassicurato dal continuo e regolare russare dei prigionieri, tornò a sdraiarsi.
I quattro filibustieri rimasero per un buon quarto d’ora immobili, temendo che il sospettoso indiano li spiasse, poi s’alzarono silenziosamente e Moko e Carmaux ripresero il lavoro intaccando la seconda sbarra.
Onde evitare lo scricchiolìo, la recisero completamente alla base ed in alto e poi la fecero cadere.
«Capitano, possiamo andarcene,» disse Carmaux, con un filo di voce.
Diedero un ultimo sguardo ai due indiani i quali non si erano più mossi, poi uno alla volta abbandonarono la gabbia.
«Dove fuggiremo?» chiese Wan Stiller.
«Verso il mare,» rispose il signor di Ventimiglia. «C’impadroniremo d’una scialuppa e prenderemo il largo.»
«Andiamo,» disse Carmaux. «Ho la febbre indosso.»
Fecero il giro della gabbia e si slanciarono verso la spiaggia la quale non era lontana più di duecento passi.
Colà vi erano due dozzine di scialuppe o meglio di canoe, molto pesanti essendo scavate nel tronco d’un albero e munite di pagaie col manico corto e la pala assai larga.
I filibustieri unendo i loro sforzi ne spinsero una in acqua. Già stavano per balzarvi dentro, quando si videro piombare addosso le due sentinelle.
Il primo arrivato si scagliò contro il negro, alzando la mazza e gridando:
«Arrenditi o ti uccido!»
Il negro con una mossa fulminea evitò il colpo che doveva fracassargli il capo poi, afferrato l’indiano attraverso il corpo lo sollevò come che fosse una piuma e lo scagliò dieci passi lontano facendogli fare un superbo volteggio.
Il secondo indiano, spaventato dalla forza erculea del gigante e anche dalla misericordia che brillava nelle mani del Corsaro, fuggì verso il villaggio urlando a squarciagola.
«Presto, imbarchiamoci!» gridò il Corsaro, slanciandosi verso la canoa.
I tre filibustieri l’avevano seguito, afferrando subito le pagaie.
Nel villaggio si udivano delle grida furiose e si vedevano agitarsi delle ombre umane. Gl’indiani, ormai avvertiti della fuga dei prigionieri, si preparavano a dare la caccia.
«Forza, amici, – disse il Corsaro che si era pure impadronito d’una pagaia. – Se fra mezz’ora non siamo fuori della baia verremo ripresi.
La canoa, spinta velocemente, si era staccata dalla spiaggia, dirigendosi verso le scogliere che difendevano la baia contro la furia dei marosi. I filibustieri arrancavano con lena disperata, tendendo i muscoli fino a farli quasi scoppiare. Soprattutto Moko, il cui vigore era colossale, imprimeva tali colpi alla sua pagaia, da sbandare la canoa fino al bordo superiore. Gl’indiani, passato il primo momento di confusione, si erano rovesciati verso la spiaggia, gettando in acqua cinque o sei imbarcazioni, fornite ognuna di sei remi.
Vedendo i fuggiaschi dirigersi verso le scogliere, arrancarono celeremente verso l’uscita della baia per impedire loro di prendere il largo. Avendo maggior numero di remi, quella manovra doveva riuscire senza troppe difficoltà.
«Tuoni d’Amburgo!» esclamò Wan Stiller, che si era accorto delle intenzioni dei nemici. «Fra poco avremo la via chiusa.»
«Vento d’inferno!» gridò Carmaux. «Stiamo per venire presi, capitano.»
Il Corsaro aveva abbandonato per un momento il remo, guardando le scialuppe indiane, le quali stavano già per giungere all’uscita della baia.
«Non possiamo più prendere il largo,» disse.
«Cerchiamo di approdare su quella spiaggia,» disse Carmaux, indicando il lato sud della baia. «Vi sono alberi e cespugli e potremo forse far perdere le nostre tracce.»
«Animo!… Date dentro ai remi!»
La canoa virò di bordo sul posto e riprese la corsa, mentre gl’indiani, credendo che i fuggiaschi volessero sforzare l’uscita della baia, si stendevano fra le scogliere per chiudere il passo.
Accortisi però della intenzione dei filibustieri, lasciarono tre scialuppe a guardia del passaggio e colle altre si misero in caccia per catturarli prima che potessero toccare terra.
Erano troppo lontani per avere qualche speranza di riuscire. Il Corsaro approfittò subito del vantaggio per guidare la canoa dietro una scogliera onde sottrarla agli occhi degli indiani.
«Li costringeremo a dividersi,» disse. «Forza, amici!… La riva è vicina!»
Con pochi colpi di remo superarono la distanza che li separava dalla costa ed arenarono l’imbarcazione su di un banco di sabbia.
Essendo riparati dalla scogliera, giunsero inosservati sotto i primi alberi, partendo a tutta corsa. Dove andavano? Non lo sapevano, nè pel momento si preoccupavano della direzione. A loro bastava di guadagnare via e di cercare un rifugio. La foresta era fitta, essendo composta d’immensi noci neri, di tapelas, grandissime piante colle foglie fittissime raggruppate in rosette, di enormi grandiflore e di ammassi di rododendri i quali formavano dei cespi enormi e così folti da impedire quasi il passo.
I fuggiaschi percorsero un chilometro tutto d’un fiato, e s’arrestarono dinanzi ad un noce colossale, il cui tronco era coperto da liane e da cobee ricadenti in festoni.
«Lassù,» disse il Corsaro. «Il rifugio è trovato.»
Aggrappandosi alle liane ed alle cobee, i quattro filibustieri raggiunsero i rami superiori, nascondendosi in mezzo al fitto fogliame.
Gli indiani giungevano urlando come indemoniati. Avevano acceso dei rami di pino e frugavano le macchie, minacciando, imprecando ed avventando dovunque colpi di lancia e di mazza. Essi passarono presso l’albero senza nemmeno arrestarsi e scomparvero in mezzo alla foresta, sempre urlando e tutto fracassando sul loro passaggio.
«Buon viaggio,» disse loro Carmaux. «Vi auguro di non tornare più mai.»
«Non li aspetteremo di certo,» disse Wan Stiller. «Cosa ne dite, capitano?»
«Che ce ne andremo,» rispose il signor di Ventimiglia.
«Da qual parte?» chiese Carmaux.
«Verso la spiaggia.»
Stavano per abbandonare i rami ed aggrapparsi alle liane, quando videro due forme massicce sbucare da un cespuglio ed accostarsi rapidamente all’albero. Non regnando che una luce molto debole sotto la gigantesca pianta, quantunque la luna brillasse in tutto il suo splendore, lì per lì non seppero con quali esseri avevano da fare.
«Non mi pare che siano indiani,» disse Carmaux, il quale si era subito arrestato.
«Mi sembrano due orsi,» disse Moko, rabbrividendo.
«Vento d’inferno! Non ci mancherebbe altro! Dopo gl’indiani gli orsi!»
«Vediamo,» disse il capitano, curvandosi innanzi ed aggrappandosi solidamente alle liane.
«Abbiamo da fare con due veri orsi, signori,» disse Wan Stiller, il quale era disceso di qualche metro. «Mi pare anzi che abbiano intenzione di dare la scalata all’albero.»
«Gli indiani devono averli spaventati e cercheranno anch’essi di rifugiarsi quassù,» disse il Corsaro.
«O che vengano per mangiarci?» chiese Carmaux. «E non abbiamo che un pugnale per difenderci!»
«La legna non manca qui. Ehi, Moko, spezza qualche grosso ramo.»
Mentre il negro stava per obbedire, i due orsi, dopo una breve esitazione, s’erano aggrappati alle liane, cacciando i loro unghioni, solidi come l’acciaio, nel tronco dell’albero.
Come si sa, tutti gli orsi, eccettuati i bianchi, sono ottimi arrampicatori. Ordinariamente vivono a terra, ma quando le bacche cominciano a scarseggiare nei boschi, salgono sugli alberi per divorarne le frutta. I due orsi non dovevano quindi incontrare molte difficoltà per dare la scalata alla noce, tanto più che il tronco era coperto di piante arrampicanti le quali dovevano facilitare loro molto la salita.