Kitabı oku: «La regina dei Caraibi», sayfa 8
CAPITOLO XII. UN TERRIBILE ABBORDAGGIO
Le sei baleniere guidate da Morgan, appena abbandonata la Folgore, si erano portate al largo, muovendo lentamente verso la nave spagnuola.
La profonda oscurità favoriva quell’audace manovra poichè i nemici non potevano nemmeno sospettare la presenza di quella minuscola flottiglia navigante su quei flutti neri come l’inchiostro.
Allo scopo di non correre il pericolo di farsi urtare dall’una o dall’altra nave, cosa non improbabile, non avendo quei due velieri una rotta ben prefissa e che poteva di momento in momento modificarsi secondo le vicende del combattimento, dopo aver percorso un miglio, Morgan aveva dato il segnale di arrestarsi. La nave spagnuola non era lontana più di sette od ottocento metri, spazio brevissimo che quelle rapide baleniere potevano attraversare in pochi minuti.
Essendo il mare tranquillissimo, Morgan poteva udire distintamente i comandi che si davano a bordo della nave nemica, perciò aveva raccomandato ai suoi uomini il silenzio più profondo onde non tradire la loro presenza a così breve distanza.
La fregata, dopo l’inutile tentativo per prendere il largo e fuggire verso le coste del Messico, come già narrammo, aveva impegnata risolutamente la lotta, contando sulla supremazia delle proprie artiglierie e anche sul numero dei proprii uomini. I filibustieri avevano così assistito a quel primo duello d’artiglieria, più rumoroso che dannoso, non potendo i due avversarii scorgersi perfettamente, ma con quanta ansietà per quegli uomini di sangue caldo cresciuti in mezzo alle stragi, agli abbordaggi ed al rimbombo delle artiglierie!
Ad ogni scarica della Folgore balzavano in piedi, cogli archibugi in pugno, frenando a gran pena gli hurrà che stavano per irrompere, tremendi, dalle loro labbra. Ad ogni bordata della fregata spagnuola digrignavano i denti come fiere in gabbia, imprecando e minacciando colle armi e coi pugni.
«Andiamo, signor Morgan!…» si chiedeva su tutte le baleniere. «Non possiamo più frenarci.»
«Non ancora,» rispondeva con voce tranquilla il futuro conquistatore di Panama.
La battaglia intanto continuava con crescente furore d’ambe le parti. Dai sabordi delle due navi uscivano vampate e nuvoloni di fumo i quali alzandosi lentamente celavano le alberature ed i ponti.
Quando Morgan vide che la fregata era completamente avvolta dal fumo, diede il segnale di avanzare colla massima velocità, raccomandando di non far fuoco senza suo ordine.
Era il momento opportuno per tentare l’abbordaggio. Se gli spagnuoli non s’accorgevano della presenza di quella flottiglia, potevano considerarsi perduti.
«Avanti!…» ripeteva Morgan, il quale dirigeva la prima baleniera. «Tenetevi sempre sotto-vento così il fumo impedirà agli spagnuoli di vederci.»
Arrancando con gran lena, in pochi momenti la squadriglia giunse a pochi metri dalla nave, tuffandosi fra i nuvoloni di fumo che la brezza notturna spingeva sul mare.
Gli spagnuoli, occupati a rispondere alle incessanti bordate della Folgore, non si erano avveduti del gravissimo pericolo che li minacciava, tanto più che volgevano le spalle alla flottiglia.
Morgan accortosi di essere giunto sotto la nave, si era alzato di scatto colla spada in pugno. Colla sinistra s’aggrappò allo sportello d’un sabordo, poi con una spinta raggiunse una bancazza tenendosi stretto ad un paterazzo. I quattordici uomini della sua baleniera lo avevano seguito inerpicandosi come scimmie.
Già stavano per balzare sopra la murata quando un gabbiere della fregata che scendeva lungo le griselle li vide:
«All’armi!…» gridò. «Ci abbordano!…»
«Su, filibustieri!…» tuonò Morgan. «Fuoco quelli delle scialuppe!…»
Una scarica terribile accoglie gli spagnuoli gettandone a terra più di mezzi. Gli altri, spaventati e sorpresi da quell’inaspettato attacco, si ripiegano confusamente disperdendosi per la tolda.
«I filibustieri!… I filibustieri!…» si urla dappertutto.
Il comandante della fregata ha veduto il pericolo. Senza perdersi d’animo fa girare sui loro perni i due cannoni da caccia del cassero che erano già caricati a mitraglia e che stavano per infilare il ponte della Folgore:
«Fuoco sul babordo!…»
Un uragano di ferro e di piombo spazza la murata recidendo contemporaneamente paterazzi, sartie e bracci di manovra e fracassando due imbarcazioni che stavano sospese alle grue. Alcuni filibustieri che erano già a cavalcioni del capo di banda cadono in mare fulminati o storpiati, ma gli altri, punto atterriti, scavalcano rapidamente le murate e si scagliano sul ponte urlando spaventosamente.
Morgan, sfuggito miracolosamente alla mitraglia, è alla loro testa. Nella destra stringe la spada e colla sinistra impugna una pistola.
«A me filibustieri!» urla.
Gli uomini delle scialuppe scalano a loro volta la nave. Si aggrappano agli sportelli delle batterie, alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi, alle grue e saltano sulle murate. Quindici o venti, i migliori bersaglieri, sono rimasti nelle baleniere e fanno scariche tremende verso il cassero e sul castello di prora, cercando di abbattere gli artiglieri addetti al servizio dei pezzi da caccia.
Gli spagnuoli, alle grida dei loro ufficiali, si radunano presso il cassero e presso il castello di prora e fanno impeto contro i filibustieri, però la loro posizione si manifesta subito pericolosissima poichè anche la Folgore si avanza per abbordarli dal lato opposto.
«Avanti!» urla Morgan che è sempre in prima fila.
L’urto è sanguinosissimo. Molti uomini cadono da una parte e dall’altra morti o feriti, ma il grosso non retrocede, anzi torna alla carica con maggior impeto. Dai boccaporti del frapponte salgono nuovi uomini. Gli artiglieri hanno abbandonati i loro pezzi, diventati ormai quasi inutili ed accorrono per ricacciare in mare i filibustieri di Morgan e per respingere l’imminente abbordaggio della Folgore.
Le urla dei feriti, gli spari dei moschetti e delle pistole, gli hurrà dei filibustieri, le grida di Viva España degli spagnuoli ed il rimbombo dei cannoni formano un baccano assordante, orribile.
Tutti gli uomini delle scialuppe sono già sulla tolda della fregata. Mentre i più valorosi fanno argine all’irrompere degli spagnuoli, disputando ferocemente il terreno palmo a palmo, gli altri salgono sulle sartie e di là aprono un fuoco di moschetteria tremendo che fa dei grandi vuoti fra il nemico quattro volte più numeroso.
La nave filibustiera, abilmente guidata, va a spingere il suo albero di bompresso fra le sartie del trinchetto della spagnuola, poi, spinta dal vento che fa pressione sulle rande, s’appoggia al bordo della nave avversaria con un cupo rimbombo. Il Corsaro Nero, abbandonata la ribolla del timone, balza in coperta colla spada in pugno, gridando con voce tuonante:
«A me, uomini del mare!»
I suoi filibustieri lo seguono correndo, pronti a farsi uccidere per il loro valoroso capo. Non ostante le scariche degli spagnuoli balzano sopra le murate urlando a tutta voce per sparger maggior terrore e per far credere di essere tre volte più numerosi, poi si precipitano sul campo della pugna come una banda di lupi affamati.
La terribile spada del Corsaro Nero apre un solco sanguinoso fra la massa dei combattenti. Nessuno può parare i colpi fulminei di quel pugno di ferro: i nemici cadono a destra ed a manca, morti o moribondi.
«Coraggio, miei prodi!» urla. «A me, Morgan!»
Gli spagnuoli presi fra due fuochi e sconcertati dalla rapidità di quell’assalto, esitano, poi cominciano a retrocedere parte verso poppa e parte verso prora. Il terrore che incutevano in quell’epoca i corsari della Tortue, reputati figli dell’inferno e perciò uomini invincibili, era tale che sovente gli spagnuoli si lasciavano trucidar senza resistenza, credendo inutile ogni tentativo di lotta. Non era quindi da stupirsi se anche l’equipaggio della fregata, dopo d’aver accettata la lotta e cercata la vittoria, cominciasse a sbandarsi dinanzi all’impeto tremendo degli avversarii.
Gli uomini di Morgan e quelli del Corsaro, riunitisi in mezzo alla tolda, fra gli alberi di trinchetto, di maestra e di mezzana, dopo un breve respiro, si slanciano nuovamente alla conquista delle due estremità della nave, mentre alcuni di loro si spingono fino alle coffe ed alle crocette, per scagliare granate in mezzo agli spagnuoli.
Alle intimazioni di resa, gli spagnuoli rispondono con scariche d’archibugi; però tutti comprendono che l’ultima ora sta per suonare pel grande stendardo di Spagna, che sventola ancora gloriosamente sopra il coronamento di poppa.
Già gran parte degli ufficiali della fregata sono caduti sotto l’infallibile tiro dei bucanieri di Morgan ed anche il comandante, dopo una eroica resistenza, è stramazzato alla base dell’albero di mezzana, spento dalla spada terribile del fiero Corsaro.
«Uno sforzo ancora,» si grida da tutte le parti.
Il Corsaro Nero attacca a fondo gli spagnuoli del cassero, deciso ad ammainare lo stendardo di Spagna. Nessuno osa affrontarlo, tanto è il terrore che ispira la sua formidabile spada. La sua sola presenza vale venti uomini. Gli spagnuoli battono in ritirata, prima ancora che i suoi uomini siano giunti dinanzi alle scale del cassero e fuggono nel quadro, mentre i loro camerati che difendevano la prora si riparano nella camera dell’equipaggio invadendo le corsie del frapponte e delle batterie.
Il Corsaro con un colpo di spada taglia il gherlino e lo stendardo di Spagna, trasportato dal vento, cade in mare, scomparendo sotto le onde del Golfo del Messico. Un hurrà immenso, che si ripercuote anche nella profondità della stiva, saluta quella caduta che segnala un nuovo trionfo per la filibusteria.
«È finita,» disse Morgan accostandosi al Corsaro, il quale contempla, con uno sguardo ripieno di cupa tristezza, i cadaveri che coprivano la tolda della fregata.
«Sì, ma quanto sangue!» mormorò il Corsaro con un sospiro. «È terribile dover uccidere uomini che non si odiano.»
«Noi vendichiamo le stragi commesse da Cortez, da Pizzarro e dai primi conquistatori sui poveri indiani dell’America, signore» risponde Morgan.
Il Corsaro crollò silenziosamente il capo, poi dopo alcuni istanti di silenzio disse:
«Sono ancora numerosi e non hanno gettate le loro armi.
«Una quarantina dei nostri sono già morti e altri quindici sono stati portati nell’infermeria.»
«Fortunatamente ne troveremo facilmente altrettanti anche senza tornare alla Tortue. Voi già sapete che tutti i filibustieri sono desiderosi d’imbarcarsi sulla vostra Folgore e che aspirano a combattere sotto i vostri ordini. Che decidete, cavaliere?»
«Cerchiamo d’evitare un nuovo spargimento di sangue.»
«Le vostre condizioni, cavaliere?»
«Salva la vita a tutti e nessun riscatto.»
Mentre il Corsaro Nero ed il suo luogotenente s’accordavano sul da farsi onde evitare una nuova e forse più sanguinosa battaglia, i filibustieri avevano occupate tutte le uscite del quadro e della camera comune di prora, onde impedire agli spagnuoli d’irrompere sulla tolda.
Questi dal canto loro avevano prese delle precauzioni per evitare una sorpresa da parte dei vincitori.
Avevano puntati alcuni cannoni verso la estremità delle corsie, poi avevano inalzate rapidamente delle trincee formate con botti piene di zavorra, con barili contenenti palle, con lastroni di piombo, con materassi e con pennoni ed attrezzi di ricambio.
Erano ancora un’ottantina e anche durante la precipitosa ritirata non avevano abbandonate le armi. A quanto pareva non avevano pel momento alcuna intenzione di arrendersi, fidando certamente nel loro numero e nelle loro artiglierie. Disgraziatamente non avevano ancora pensato che sopra di loro s’apriva il boccaporto maestro, dal quale i filibustieri potevano irrompere o cominciare un fuoco infernale. E su quel boccaporto il Corsaro Nero e Morgan avevano molto contato.
Il luogotenente si guardò bene, pel momento, di parlamentare attraverso a quell’ampia apertura. Scese nel quadro e giunto all’estremità della corsia s’avanzò intrepidamente nel frapponte.
Subito quattro soldati spagnuoli che stavano a guardia della barricata lo presero di mira coi loro archibugi.
«Abbasso le armi!» gridò Morgan, incrociando le braccia sul petto. «Io non vengo come nemico, bensì come parlamentario.»
«Cosa volete?» chiese un soldato.
«Parlare coi vostri capi.»
Un tenente di vascello che si teneva nascosto dietro la barricata si era prontamente alzato.
«Chi vi manda?» chiese con voce irata.
«Il Corsaro Nero,» rispose Morgan.
«Voi siete il suo luogotenente, è vero?»
«Ho questo onore.»
«E desiderate?»
«Vengo a intimarvi la resa in nome del cavaliere di Ventimiglia.»
«Dite al Corsaro Nero che gli spagnuoli muoiono, ma che non si arrendono mai.»
«Voi avete già fieramente combattuto ed il vostro onore è salvo,» rispose Morgan.»
«Noi siamo pronti a riprendere la lotta, signore.»
«Siete già prigionieri.»
«Abbiamo ancora le nostre armi e siamo in molti.»
«Vi concediamo salva la vita senza alcun riscatto pecuniario.
«Grazie, ma noi combatteremo fino alla fine,» rispose fieramente lo spagnuolo.
«Allora vi uccideremo tutti,» disse Morgan con voce minacciosa.
«Basta, signore: ritiratevi o comando il fuoco.»
Morgan abbandonò la corsia e rientrò nel quadro. Il Corsaro Nero lo aspettava dinanzi al cassero.
«Rifiutano, è vero?» chiese questi, scorgendolo.
«Sì, cavaliere.»
«Li ammiro e se non fossi certo che mi tradirebbero li lascerei liberi.
«Andrebbero subito a dare l’allarme a Vera-Cruz, cavaliere.»
«Lo so, Morgan. Intanto fate portare sul ponte alcune casse di granate.»
Quindi alzando la voce gridò:
«Coraggio, miei prodi! Preparatevi al combattimento.»
CAPITOLO XIII. LA RESA DELLA FREGATA
Pochi minuti dopo, due colonne, formate ognuna di venti uomini scelti fra i migliori bersaglieri dell’equipaggio, scendevano tacitamente nel quadro e nella camera comune, trincerandosi dietro i mobili e le casse che erano state ammucchiate all’estremità delle corsie.
Come si può facilmente comprendere, il Corsaro Nero non aveva alcuna intenzione di sacrificarli in un nuovo attacco, specialmente contro forze più che doppie; dovevano fare una semplice dimostrazione per richiamare dalla loro parte l’attenzione degli spagnuoli. Il colpo decisivo doveva venire dato dalla parte del boccaporto maestro, attorno a cui si erano già radunati tutti gli altri filibustieri.
«Fate molto baccano sopratutto, – aveva detto il Corsaro.
Ed il baccano era cominciato subito con un crescendo formidabile, assordante. I due drappelli, appena appostatisi, avevano subito aperto il fuoco contro le barricate spagnuole, fra urla tremende, per far credere che si incoraggiavano per un assalto generale.
Gli spagnuoli avevano subito risposto vivamente, facendo tuonare i pezzi che avevano collocati in mezzo al frapponte. L’effetto di quelle scariche a così breve distanza era stato disastroso per la nave.
Le palle e la mitraglia fracassarono in pochi momenti le tramezze, massacrando i mobili del quadro e della camera comune. Cadevano specchi, cristalli e porcellane con un rovinio assordante e precipitavano quadri e lampadari. I filibustieri, coricati al suolo, quantunque si sentissero piovere addosso tutti quei rottami, non si muovevano ed alle cannonate rispondevano colle archibugiate sparate però a casaccio, essendo ormai le corsie invase da un fumo denso, soffocante.
Ad un tratto il Corsaro Nero quando già il fumo cominciava ad irrompere attraverso le fessure del ponte, si volse verso i suoi uomini che rodevano il freno, impazienti di prender parte anche essi alla battaglia che si combatteva sotto i loro piedi, dicendo:
«Preparate le granate.»
«Sono pronte, signore,» rispose un quartier-mastro.
«Alzate il boccaporto e non fate risparmio di proiettili.»
Quattro marinai levarono le due sbarre di ferro ed il boccaporto fu aperto. Subito una fitta nube di fumo bianco sfuggì, alzandosi verso i pennoni dell’albero maestro. Al di sotto di quella nuvolaglia si vedevano guizzare lampi e si udivano assordanti detonazioni. Erano i pezzi delle batterie che tuonavano demolendo e fracassando le due estremità della nave.
Senza attendere che il fumo si dissipasse, i marinai si diedero a lanciare granate nel frapponte, e specialmente là dove vedevano fiammeggiare i pezzi d’artiglieria.
Gli spagnuoli dapprima non si erano accorti dell’apertura del boccaporto in causa del densissimo fumo che circolava nel frapponte, ma quando udirono lo scoppio delle granate e videro cadere al suolo, fulminati dalle schegge di quei proiettili mortali, parecchi camerati, abbandonarono precipitosamente le artiglierie, correndo all’impazzata attraverso la batteria.
Quell’inaspettato attacco aveva ormai provocato un panico gravissimo fra le loro file. Anche i più animosi avevano abbandonati i loro posti malgrado le grida dei pochi ufficiali sfuggiti alla strage ed i sagrati dei mastri e dei sott’ufficiali. I filibustieri intanto non si erano arrestati. Mentre i due drappelli del quadro e della camera comune continuavano le loro scariche spargendo maggior terrore e confusione, quelli della coperta scagliavano granate in tutte le direzioni, col pericolo di provocare un disastroso incendio.
In mezzo alle urla dei combattenti, alle grida dei feriti, agli scoppi delle granate ed al rombo delle scariche, si levò poderosa la voce del Corsaro Nero.
«Arrendetevi o vi stermineremo tutti!…»
«Basta!… Basta!…» urlarono cinquanta voci.
La pioggia di bombe cessò, come pure cessarono le scariche dei due drappelli nascosti nel cassero e nella camera comune.
Il Corsaro Nero si curvò sul boccaporto, ripetendo:
«Arrendetevi o vi stermineremo tutti!»
Una voce s’alzò in mezzo al fumo che ondeggiava nel frapponte:
«Deponiamo le armi.»
«Mi si mandi un parlamentario.»
Pochi istanti dopo un uomo saliva sul ponte. Era un ufficiale, l’unico superstite di tutto lo stato maggiore della grande nave. Quel disgraziato era pallido, commosso ed aveva le vesti a brani ed un braccio spezzato da una scheggia di granata.
Egli consegnò la sua spada al Corsaro Nero, dicendogli con voce semi-spenta: «Siamo stati vinti.»
Il signor di Ventimiglia respinse l’arma che gli veniva offerta, dicendo con nobiltà:
«Conservate la vostra spada per una migliore occasione, signor tenente. Voi siete un valoroso!»
«Grazie, cavaliere,» rispose lo spagnuolo. «Dal Corsaro Nero m’aspettavo una simile cortesia.»
«Sono un gentiluomo, signore.»
«Lo so, cavaliere. Ed ora cosa farete di noi?»
«Rimarrete prigionieri sulla mia nave fino al termine della nostra spedizione, poi vi sbarcheremo su qualche punto della costa messicana senza chiedere alcun riscatto.
«Voi dunque state per intraprendere una spedizione contro le nostre città del Messico?» chiese l’ufficiale, con doloroso stupore.
«A questa domanda non vi posso rispondere,» rispose il Corsaro. «È un segreto che non appartiene a me solo.»
Poi prendendolo per un braccio e conducendolo verso poppa, gli chiese con accento cupo:
«Voi conoscete il duca Wan Guld, è vero?»
«Sì, cavaliere.»
«Egli si trova a Vera-Cruz?»
Lo spagnuolo lo guardò in volto senza rispondere.
«Io vi ho donata la vita, mentre per diritto di guerra avrei potuto cacciarvi in mare assieme a tutti i vostri uomini ed alla vostra nave, potete quindi rendere ad un gentiluomo un così lieve favore.»
«Ebbene, sì, il duca si trova a Vera-Cruz,» rispose lo spagnuolo, dopo una breve esitazione.
«Grazie, signore,» rispose il Corsaro. «Sono lieto di essermi mostrato generoso verso di voi.»
L’ufficiale tornò verso il boccaporto e gridò:
«Deponete le armi: il cavaliere di Ventimiglia concede la vita a tutti!»
I due drappelli di filibustieri guidati da Morgan erano subito entrati nel frapponte per ricevere le armi.
Quale orribile spettacolo offriva l’interno della fregata! Dappertutto rottami fumanti, tavoloni sfondati, puntelli infranti, cannoni rovesciati, poi uomini orrendamente scarnati dalle schegge delle granate, o privi delle membra o della testa e dovunque sangue e frammenti di proiettili. Alcuni feriti si trascinavano per le corsie agitando le braccia orrendamente mutilate e sanguinanti e mandando lugubri gemiti.
In mezzo a quel caos, cinquanta spagnuoli, muti, pallidi, colle vesti a brani, attendevano i filibustieri. Tutti gli altri erano caduti sotto quella tremenda pioggia di granate.
Morgan ricevette le loro armi, comandò ad alcuni dei suoi d’incaricarsi dei feriti e condusse gli altri a bordo della Folgore facendoli rinchiudere nella stiva e mettendo alcune sentinelle alle porte.
Visitata la nave, s’avvide subito che non vi era più nulla da sperare da essa. Le scasse degli alberi erano state distrutte, i tronchi erano ormai carbonizzati, il quadro e la camera comune erano stati ridotti ad un ammasso di rottami e nella stiva si era sviluppato il fuoco il quale già prendeva proporzioni gravissime.
«Signore,» disse presentandosi al Corsaro Nero. «La fregata è perduta.»
Al primo colpo di vento l’alberatura rovinerà in coperta e per di più l’incendio guadagna rapidamente.
«Fate portare a bordo della nostra nave quanto può esserci utile, poi abbandoniamola al suo destino, – rispose il Corsaro. – Già per noi ci sarebbe stata più d’impiccio che d’utilità.
Il saccheggio della nave non diede grandi frutti, essendo le artiglierie rovinate. Armi e munizioni furono però imbarcate in gran numero a bordo della Folgore assieme alla cassa del capitano contenente ventimila piastre che furono divise fra l’equipaggio della filibustiera.
A mezzodì la Folgore si rimetteva alla vela, frettolosa di raggiungere le coste del Golfo del Messico. La fregata ormai ardeva con rapidità incredibile. Lingue di fuoco e densi nuvoloni di fumo sfuggivano attraverso gli sportelli delle batterie ed ai boccaporti minacciando l’alberatura.
Il catrame, liquefatto dal calore che si sprigionava sotto il ponte, scorreva per la tolda, colando in mare attraverso gli ombrinali.
«Peccato che una così bella nave se ne vada,» disse il Corsaro che guardava la fregata dall’alto del cassero della Folgore. «Avrebbe potuto rendere preziosi servigi alla filibusteria.»
«Andrà a picco?» chiese una voce dietro di lui e che aveva un accento terribile.
Il Corsaro si volse e vide la giovane indiana.
«Tu, Yara?» le disse.
«Sì, mio signore. Sono salita per assistere all’agonia di quella nave, che poco prima apparteneva agli uccisori di mio padre.»
«Quant’odio implacabile vedo scintillare nei tuoi occhi!» disse il Corsaro con un sorriso. «Il tuo odio è pari al mio.»
«Ma tu non odii questi spagnuoli, mio signore.»
«È vero, Yara.»
«Se li avessi vinti, io li avrei uccisi tutti,» disse la fanciulla con accento terribile.
«Hanno già perfino troppi nemici, Yara,» rispose il Corsaro. «Le atrocità che hanno commesso i primi conquistatori americani sono state in gran parte vendicate.»
«Sì, ma l’uomo che ha distrutto la mia tribù vive ancora.»
«Quell’uomo è già un moribondo,» disse il Corsaro con voce cupa. «Il destino lo ha già condannato.»
Si era poi appoggiato alla murata e guardava la fregata la quale ormai bruciava come un fastello di legna ben secca. Le fiamme, diventate giganti, s’alzavano fino ai contropappafichi, come una cortina immensa. Tutto ormai avevano avvolto: da prora a poppa era un mare di fuoco che si agitava burrascosamente.
Una nuvola immensa, nerissima, ondeggiava sopra la povera nave, come un enorme ombrello e dai suoi margini cadevano miriadi di scintille che il vento faceva volteggiare disordinatamente.
Ad un tratto una sorda detonazione rimbombò al largo. Un turbine di scintille, di legni ardenti, di rottami s’alzò sulla nave sibilando in aria, ricadendo in mare a grande distanza.
Qualche deposito di granate, sfuggito alle ricerche dei filibustieri, doveva essere scoppiato in fondo alla stiva.
L’esplosione, violentissima senza dubbio, aveva sfondati i fianchi della nave, già ormai carbonizzata e l’acqua si era precipitata attraverso quegli squarci.
«È finita,» disse il Corsaro, volgendosi verso Yara.
La fregata affondava a vista d’occhio, con un largo dondolìo. L’acqua ed il fuoco combattevano attorno al legno, facendo ribollire il mare. Nubi di vapore s’alzavano fischiando. Il vascello intanto continuava a sommergersi, inclinandosi sempre più a prora, mentre l’alta poppa s’innalzava. La campana del cassero, sotto le crescenti ondulazioni della nave, suonava cupamente come se annunciasse la prossima fine del grandioso galleggiante.
«Si direbbe che suona la rovina della marina spagnuola,» mormorò il Corsaro.
D’improvviso la prora del vascello, già piena d’acqua, s’immerse. La poppa mostrava già la chiglia. L’enorme massa, ritta quasi verticalmente, affondava rapida. Sparvero le grue di cappone, poi il troncone fiammeggiante ancora dell’albero maestro, quindi l’intera massa scomparve mandando in aria un’ultima nuvola di vapore ed un ultimo getto di scintille. Una muraglia liquida circolare, simile ad un gorgo immenso, si distese sul mare, perdendosi in lontananza.
Tutto era finito. Il poderoso vascello da guerra, mutilato prima dalle palle, semi-divorato poi dal fuoco e finalmente sventrato dall’esplosione, scendeva attraverso le limpide acque del Golfo, in fondo ai baratri paurosi.
Il Corsaro Nero s’era voltato verso Yara, la quale pareva che cercasse ancora, nel gorgo, di scoprire la nave affondante.
«Non è terribile tutto ciò?» le chiese.
«Sì, mio signore,» rispose la giovanetta, «ma io non sono ancora vendicata.»
«Lo sarai presto,» rispose il Corsaro, dirigendosi verso la scaletta che metteva sul ponte di comando, ove si trovava già Morgan.
Il luogotenente, che stava seduto su di una comoda sedia, scorgendo il Corsaro si era alzato, mostrandogli una carta del golfo.
«Dove dovrò sbarcarvi, cavaliere?» chiese. «Questa sera noi avvisteremo le coste del Messico.»
«Voi conoscete Vera-Cruz?»
«Sì, cavaliere.»
«Vi sono crociere?»
«Mi hanno detto che tutta la costa, fino a Tuxpam, è guardata onde coprire Jalapa da una possibile sorpresa.»
«Allora uno sbarco potrebbe riuscire difficile.»
«Dite impossibile, cavaliere. Appena sbarcato vi prenderebbero.»
«Cosa mi consigliereste di fare?»
«Scegliere un luogo deserto, sia pure lontano da Vera-Cruz e avanzarsi poi a piccole tappe vestiti da mulattieri o da cacciatori.»
«Conoscete un luogo ove lo sbarco possa effettuarsi senza pericolo di farci scoprire?»
«Vi consiglierei di sbarcare al sud di Tampico, nella vasta laguna di Tamiahua. Colà non vi sarà alcun posto di guardia, regnando la febbre gialla in quest’epoca.»
«La laguna è lontana da Vera-Cruz?»
«In quattro o cinque giorni di marcia, vi potreste arrivare e senza molta fretta.»
«Questo è vero, tanto più che la squadra non giungerà a Vera-Cruz prima di una diecina di giorni.»
«Sicchè?»
«Noi andremo alla laguna,» rispose il Corsaro, dopo qualche istante. «Non troverò grandi difficoltà a entrare in Vera-Cruz.»
Quattro ore dopo quel colloquio la Folgore, che aveva mantenuta la rotta verso il nord, onde passare molto al largo da Vera-Cruz, piegava ad occidente per accostarsi alle spiagge messicane.
Il Corsaro non abbandonò un solo momento il ponte di comando, volendo accertarsi coi propri occhi che nessun pericolo minacciava la sua nave. Fortunatamente durante quella corsa verso occidente, nessun punto luminoso, annunciante la vicinanza di qualche nave nemica, fu scorto sul fosco orizzonte. All’indomani la Folgore avvistava la lunghissima penisola che serve di barriera alla grande laguna di Tamiahua, la quale si prolunga fino a poche miglia da Tuxpam. Non essendo prudente accostarsi in pieno giorno, la Folgore riprese sollecitamente il largo, rimontando la penisola in direzione di Tampico. Per meglio ingannare le navi spagnuole che potevansi incontrare, il Corsaro aveva fatto ritirare parte dei cannoni, celare una buona metà dell’equipaggio e spiegare sulla poppa lo stendardo di Castiglia.
La spiaggia appariva deserta, però non del tutto arida. Di quando in quando dei folti boschi si vedevano delinearsi lungo la costa, formati per lo più da palme di splendido aspetto, e molte piante si vedevano pure in acqua, colle foglie però gialle e pendenti.
«Si direbbe che quella costa abbia subìto qualche improvvisa sommersione,» disse Morgan, che la esaminava con un cannocchiale. «Non ho mai veduto delle palme sorgere dal mare al pari delle alghe.»
«Queste spiagge vanno soggette a delle brusche modificazioni,» disse il Corsaro. «I terremoti abbassano sovente dei tratti considerevoli di coste, facendole sommergere.»
«Volete dire che fanno loro subire degli abbassamenti.»
«E talvolta anche degli innalzamenti, signor Morgan.»
«La cosa mi sembra molto strana.»
«Eppure, signor Morgan, non è solamente qui che simili cose avvengono. Anche moltissime coste dell’Europa, senza essere percosse dai terremoti ed anche lontane dai vulcani, subiscono degli alteramenti considerevoli di livello.
Non dico che quei sollevamenti od abbassamenti avvengano da un momento all’altro; anzi sono così lenti che occorrono dei secoli prima di accorgersene. Nella mia Italia, per esempio, in poche decine d’anni si sono potuti verificare dei dislivelli notevolissimi: specialmente in Sicilia ed in Calabria le coste tendono ad alzarsi, mentre invece nel Veneto si abbassano sempre.
«Devono però essere lentissimi questi dislivelli.»
«Sono così lievi da non doversi spaventare, signor Morgan. Le nostre terre del Veneto, per esempio, si abbassano in ragione di tre o quattro centimetri ogni anno, mentre le coste della Sicilia, hanno impiegato la bagatella di milleduecento anni per un sollevamento che va dai quattro ai sei metri.»
«Allora non vi è pericolo che certe regioni finiscano col sommergersi.»
«Immediato no, signor Morgan, però se l’abbassamento di certe terre dovesse continuare, è certo che fra molti secoli dovrebbero trovarsi sott’acqua.»
«E da che cosa derivano questi abbassamenti e questi sollevamenti?» chiese il luogotenente.
«I sollevamenti sono prodotti dai terremoti regionali, gli abbassamenti invece pare che si debbano attribuire a mutamenti chimici o molecolari delle masse rocciose, all’imbibizione o al prosciugamento di tali masse, o al scivolamento lento della parte superficiale, ed anche alla formazione di vuoti sotterranei dovuti alla eliminazione di materie solubili. Comunque sia però, noi non vedremo quelle coste a sommergersi, nè le altre a diventate tanto alte da sfidare le montagne. Signor Morgan, date ordine di portarci maggiormente al largo e di preparare la mia baleniera.»