Kitabı oku: «La riconquista di Monpracem», sayfa 15
18. L’assalto dei rajaputi
Anche se John Foster era caduto per non risollevarsi più mai, il pericolo non era cessato, poiché i pachidermi superstiti correvano sfrenatamente attraverso lo sterpeto, per raggiungere i cacciatori.
Yanez, formato il drappello, colla bella olandese al centro, si era sollecitamente diretto verso il margine della grande foresta, per ripararsi sotto le piante d’alto fusto.
Di quando in quando, pur ritirandosi rapidamente, sparavano qualche colpo tentando di cacciare quegli ostinati bestioni che pareva avessero giurato la perdita di quel gruppo di persone.
Il portoghese si era messo a fianco del Sultano e lo sorvegliava attentamente: Kammamuri teneva d’occhio il capo degli scikari, che dal canto suo pareva che avesse voglia di tornarsene al campo.
Per un quarto d’ora il drappello continuò la sua marcia sempre dietro la fronte della foresta, poi Yanez diede il segnale della fermata.
Erano giunti sulle rive d’un corso d’acqua interrotto da numerosi isolotti bassi, e proprio di fronte al maggiore avevano scoperto una roccia alta un centinaio di metri, assolutamente inaccessibile ai pesantissimi pachidermi.
– Ecco una magnifica posizione strategica – disse Yanez, quando ebbero raggiunta la cima.
Da questo posto noi sorveglieremo le mosse sospette degli scikari che non mi rassicurano affatto.
– Temete un tradimento, signore? – chiese l’indiano sotto voce.
– Che cosa dice il tuo cuore?
– Che quell’inglese ha spezzata la tregua che regnava tra noi ed il Sultano.
Questo è il momento di prendere una grande decisione o nessuno di noi uscirà vivo da queste foreste, che si prestano così meravigliosamente agli agguati.
Gettiamoci su Varauni, solleviamo i cinesi e mettiamo tutto a ferro ed a fuoco, signor Yanez.
– Se avessi sottomano la scorta di Sandokan, a quest’ora mi sarei gettato anche contro gli uomini del Sultano.
– Che vogliano farci prigionieri?
– È quello che sospetto. La faccia del Sultano non mi rassicura affatto.
– In questo momento siamo troppo pochi per impegnare una lotta a fondo.
– Non vi è che una cosa sola da fare. Mandare Mati al campo del Sultano affinché mi riconduca tutta la mia scorta.
– E gli elefanti, signore?
– Pare che si siano calmati, Kammamuri. —
Infatti i pachidermi, quantunque fossero riusciti finalmente ad attraversare lo sterpeto, dopo una breve esplorazione si erano spinti verso il fiume, probabilmente coll’idea di salvarsi su qualche isola.
Di tratto in tratto qualche proiettile li raggiungeva, anche se lontani e faceva far loro dei balzi, accompagnati da un concerto assordante di barriti.
Pareva quasi che dalla grande foresta fossero accorsi altri colossi a prendere parte al combattimento iniziato dal povero capo-grigio.
– Altezza, – disse Yanez, accostandosi al Sultano il quale si teneva ben vicino al capo dei battitori – sapreste dirmi come finirà questa partita di caccia?
– Come tante e tante altre – rispose il monarca con voce un po’ beffarda. – Ne avete già abbastanza degli elefanti? Eppure, come avete veduto, non sono poi così pericolosi.
– Io non parlo dei colossi – ribatté Yanez con voce acre – bensì dei vostri scikari che non vedo più.
– Essi continuano la battuta, milord.
Vi ho detto che volevo andare alle cime dei Monti del Cristallo per verificare una voce che corre insistente al campo.
– Ossia? – disse il portoghese trasalendo e facendo appello a tutto il suo sangue freddo per non tradirsi.
– Che delle bande di guerrieri dayachi armati di fucili hanno lasciato il lago Kini Balù e marciano verso la mia frontiera.
– Guidate da chi?
– Da un guerriero famoso, che è riuscito a stabilirsi un trono quasi accanto al mio.
È lui che ha pienamente debellate le orde sanguinarie di quel terribile rajah del lago, contro il quale mi sono provato ad armeggiare più volte, prendendo più legnate che allori, e lasciando nelle mani dei cacciatori di teste un numero spaventevole di crani.
– Non avete delle kotte sulla vostra frontiera? – chiese Yanez.
– Certamente vi sono dei fortini scaglionati nei burroni delle montagne ed anche sulle cime.
– Lasciate allora che le guarnigioni se la cavino come meglio potranno. —
Il Sultano scosse il capo, poi disse con voce triste:
– I miei guerrieri non valgono niente, milord, quando manca loro l’aiuto della mia guardia indiana.
– Dove l’avete mandata quella colonna che non si è più veduta?
– Alla frontiera; se quello sconosciuto scende attraverso i miei Stati, è capace di portarmi la guerra in casa.
Ben lo sa quel terribile e misterioso rajah del Kini Balù, che lo aveva accolto da amico nella sua capitale.
– Ha perduto il trono?
– Anche la vita, milord, poiché quando si è visto nell’impossibilità di difendersi, ha dato fuoco alle polveri, ed è saltato in aria insieme con la sua famiglia.
– Ho udito parlare vagamente di questa storia – disse Yanez. – E che cosa contate di farci fare?
– Una corsa verso i Monti del Cristallo – rispose il Sultano. – Sotto quelle immense foreste noi avremo selvaggina d’ogni specie da abbattere.
– Ed intanto?
– Io preferirei, per mio conto, tornarmene al mio campo per riposarmi sotto la mia tenda e sotto la fida sorveglianza della mia guardia.
Che cosa dovremmo fare qui tutta la notte, esposti all’umidità del fiume e senza cena?
– Ebbene, Altezza, – disse Yanez risolutamente – io vi avverto che sono pronto ad andare innanzi, ma fra i vostri uomini non mi sento più al sicuro dopo il tradimento ordito dall’inglese. —
Il Sultano fece un gesto d’impazienza e guardò a lungo il capo di battitori, che gli stava sempre ritto dinanzi, ma sotto la stretta sorveglianza di Kammamuri.
– Milord, – disse finalmente – voi mi avete date troppe seccature e dopo d’aver tanto desiderato un ambasciatore della grande Inghilterra, ora sento che ne farei a meno.
– E se fosse troppo tardi?
– Che cosa volete dire, milord? – chiese il Sultano spaventato.
– Che se la guerra rumoreggia ai vostri confini, delle flottiglie sono pronte, ad un mio ordine, ad entrare nella baia per aprire il fuoco.
– Voi fareste questo?
– Certo, Altezza.
– Con qual diritto?
– Col diritto dell’uomo che difende la propria pelle.
– Voi vedete delle congiure dovunque, milord!
– Io non vedo niente: le intuisco.
– Allora, milord, è ora di farvi sapere che qui vi è un Sultano, a cui tutti debbono obbedienza.
– Spiegatevi meglio, Altezza.
– Sequestro voi e la donna e vi conduco al mio campo come ostaggi.
– Con quali forze? – chiese il portoghese ironicamente. – Forse col capo degli scikari che è già mezzo morto di paura?
Ci vuole ben altro per gente come noi!
– Non volete venire?
– No – rispose Yanez. – Anzi vi avverto che bruceremo tutte le nostre cartucce.
Il capo degli scikari, obbedendo ad un gesto del suo signore, prese la carabina e puntò la bocca verso il petto della bella olandese dicendo:
– O mi seguite o faccio fuoco! —
Yanez, che già sospettava qualche tradimento, si era precipitato sul Sultano strappandogli l’arma e l’aveva atterrato, mentre Mati, Kammamuri e la bella olandese tenevano in freno il capo degli scikari.
– Altezza, – disse il portoghese con voce terribile – se uccidete quella donna, vi farò saltare le cervella. —
Aveva gettata via la carabina tolta al traditore e armato rapidamente le sue pistole.
– Volete uccidermi? – chiese il monarca, con voce tremante.
– Non ne ho alcun desiderio, se voi nulla tenterete contro di noi finché non saremo giunti fra le Montagne del Cristallo.
Lassù farete quello che vorrete. —
Il Sultano digrignò i denti come una giovane tigre, poi con una mossa di fianco si sottrasse al tiro immediato delle pistole.
– Me lo avevano detto che voi eravate un pirata qualunque, invece d’un ambasciatore d’una grande potenza che io rispetto.
Ho avuto torto di non prestare orecchio ai consigli dei miei ministri.
– Dei vostri diplomatici! – disse Yanez ironicamente. – Quella gente finirà per succhiarvi tutte le rendite del Sultanato. —
Vi fu un breve silenzio. Il Sultano, coricato a terra, tremava verga a verga, e faceva invano dei segni misteriosi al capo degli scikari, il quale, vedendosi minacciato da parecchie carabine, non aveva più osato muoversi.
– Orsù, milord, – disse finalmente il Sultano, con voce rauca. – Che cosa volete da me?
– Che mi seguiate fino ai Monti del Cristallo per vedere che cosa succede alle vostre frontiere.
– E la mia scorta?
– La vostra? Per ora rimarrà al campo.
– Volete farmi perdere il trono e fors’anche la vita, milord? Sento per istinto che intorno a me si congiura per strapparmi il potere.
– Silenzio! – impose Yanez. – Per entrare nel vostro accampamento ci vorrà qualche parola d’ordine o qualche segnale?
– Che cosa volete ancora? Assalire i miei battitori e le mie bajadere?
– No, voglio far giungere qui al più presto la mia scorta.
Io devo rispondere della vostra vita e non voglio cacciarvi in qualche brutta avventura, che potrebbe cominciare sulle Montagne per finire a Varauni.
– Nella mia capitale? – urlò il Sultano, tentando di alzarsi.
– Fermo Altezza o faccio fuoco!
Datemi qualche segnale o qualche parola perché uno dei miei uomini entri nel vostro campo e vada a radunare la mia scorta. —
Il Sultano ebbe una lunga esitazione, poi si strappò da un dito un pesante anello d’oro e lo gettò ai piedi del portoghese, dicendo:
– Ecco.
– Non basta dire ecco, Altezza, perché voi rimarrete come ostaggio con noi finché io lo crederò opportuno.
– L’anello porta il mio sigillo – rispose il povero Sultano, tergendosi il sudore freddo che gli colava dalla fronte.
Non vedendo più armi spianate si era alzato: anche Yanez aveva rimesse nella cintura le famose pistole.
Si avvicinò al capo degli scikari, che non era meno terrorizzato, e gli sussurrò rapidamente alcune parole, in una lingua che nessuno poteva comprendere.
– Non avrete l’intenzione di prepararci qualche nuovo agguato? – disse il portoghese.
– No; anzi lo incarico di accompagnare il vostro uomo, affinché non gli tocchi qualche disgrazia e perché impedisca ai miei ministri di intervenire in questo affare.
– Fate pure, Altezza. Già voi rimarrete ben sorvegliato e al primo tentativo di fuga, vi farò fucilare senza misericordia.
– La partita è aperta, ma non chiusa ancora; è vero, milord? – chiese il Sultano.
– C’è del tempo per assestare questa piccola faccenda, che se ha recato offesa al Sultano del Borneo, per poco l’Inghilterra non perdeva uno dei suoi ambasciatori. —
Si era voltato verso Mati, il quale pareva impaziente di andare a radunare la scorta.
– I miei uomini me li condurrai tutti qui ed al più presto, – gli disse. – Guardati dai tradimenti, amico, e segui i consigli del mio uomo che d’imboscate se ne intende. —
Tolse da un taschino del panciotto un cronometro d’oro tempestato di brillanti colle sue cifre, regalo certamente di Surama, poi riprese:
– Sono appena le due: dopo il tramonto voi potete essere qui.
– Se troveremo il passo libero – disse Kammamuri.
– Gli elefanti non si scorgono più, e credo che nessuno vi darà degli impicci.
Andate. —
Il capo degli scikari e Mati presero le loro armi e dopo d’aver osservato attentamente se in qualche luogo si scorgevano i pachidermi, scesero rapidamente la rupe calando sulle rive del fiume.
Yanez li seguiva attentamente cogli sguardi, come se sospettasse qualche tradimento.
Anche se i suoi compagni non sembravano tranquilli poiché pensavano ai rajaputi, fanteria validissima che ha sempre degli ottimi tiratori, e che potevano da un momento all’altro venire in cerca del loro padrone.
Erano trascorsi cinque minuti, quando fra i boschi che si stendevano lungo le rive del fiume si udì un colpo di fuoco.
Yanez era balzato in piedi guardando il Sultano, il quale, seduto su di una roccia, fingeva di non vederlo.
– Un altro tradimento, Altezza? – gli chiese.
– Voi sognate tradimenti dovunque, milord – rispose il Sultano. – La cosa diventa ormai troppo noiosa.
– Spiegatemi allora voi perché i miei uomini, appena discesi, sono stati costretti a sparare?
– Grande Allah! Avranno ammazzato qualche babirussa per la loro cena. Sapete bene che siamo tutti senza viveri. —
In quell’istante un secondo colpo di fucile rimbombò sotto gli alberi, seguito quasi subito da un vero fuoco di fila.
– I rajaputi assalgono i nostri amici! – gridò Yanez.
– Non v’inquietate per Mati, signore. Egli è un uomo da cavarsela sempre, anche nelle più terribili circostanze.
– E se me lo ammazzano?
– Ci sono anch’io, signor Yanez, e una corsa verso i Monti del Cristallo per chiedere aiuti alla Tigre della Malesia non mi spaventa. —
Dei proiettili cominciavano a miagolare sopra la rupe, scrostando dei larghi pezzi di tufo.
Un uomo era uscito dalla foresta e correva, con velocità fulminea verso il luogo occupato da Yanez e dai suoi compagni.
– Mati! – esclamò Kammamuri.
– Coi rajaputi alle spalle! – aggiunse il portoghese. – Signora Lucy, gettatevi in mezzo alle rocce e non vi mostrate, poiché quegli indiani sono ottimi bersaglieri.
– E voi, signor Yanez? – chiese Kammamuri, il quale si era gettato prudentemente dietro ad un enorme masso.
– Lèvati la tua fascia di seta, e lega prima di tutto il Sultano – rispose il portoghese. – Se vorranno salire fin qui, con un simile ostaggio nelle nostre mani, possiamo noi imporre delle condizioni. —
L’indiano si era levato la ricca sciarpa ed aveva eseguito prontamente l’ordine.
– Miserabili! Che cosa fate? – gridò il monarca, diventando grigiastro, ossia pallidissimo.
– Cerchiamo di impedirvi di fuggire – rispose Yanez, facendo balenare agli ultimi raggi del sole le canne delle sue famose pistole.
– Questo è un assassinio! – urlò il Sultano.
– Che in tutti i casi commetteranno i vostri rajaputi, poiché il primo che si mostrerà quassù, segnerà l’ultima ora del vostro regno.
– Io ho il diritto di farmi liberare.
– Ed io quello d’impedirvi di preparare qualche altro tradimento sotto le foreste dei Monti del Cristallo.
– Voi non siete il Sultano del Borneo.
– È vero: ma sono un tale uomo da mettere a ferro ed a fuoco tutto il vostro regno.
Guardatevi, perché le bande condotte dalla terribile Tigre della Malesia stanno intanto calando sulle vostre terre.
– Mi vendicherò!…
– Sì, il più tardi possibile – rispose Yanez.
Poi volgendosi verso Kammamuri ed additandogli il Sultano, gli disse:
– Prendi quell’uomo e portalo sulla cima di quella rupe, e cerca che sia bene in vista. Vedremo se la sua guardia avrà il coraggio di fargli fuoco addosso.
– E poi, signor Yanez? – chiese l’indiano.
– Avresti paura a fare una corsa notturna fino ai Monti del Cristallo insieme con me?
– Con voi andrei anche per la seconda volta a dare la caccia agli ultimi thugs indiani.
– Per ora quelli non ci dànno nessun fastidio; quindi non dobbiamo occuparci che dei rajaputi.
– I quali hanno pur essi nelle vene sangue indiano – osservò, non senza una punta di malizia, il maharatto.
Le scariche a salve erano cessate, ma il combattimento non doveva essere ancora terminato.
Dei colpi isolati rimbombavano sempre dentro le foreste costeggianti il fiume. Mati batteva in ritirata, bruciando le sue cartucce.
– Facciamo ora qualche cosa anche noi – disse Yanez. – Non lasciamo che i rajaputi si avanzino tranquillamente e conquistino la nostra posizione.
Prima che giungano qui, il Sultano non sarà più vivo, se non cesseranno il fuoco. —
Salì su una roccia insieme con Kammamuri, lanciò uno sguardo lungo le rive del fiume, poi avendo scorto un piccolo gruppo di rajaputi, sparò a sua volta due colpi, costringendo quegl’indiani, per quanto coraggiosi, a mettersi nuovamente in salvo sotto le foreste.
Anche Kammamuri aveva consumato un paio di cariche, appoggiato dalla bella olandese, la quale sparava meravigliosamente e pacatamente, come se si trovasse in un campo di tiro.
– Quanto durerà questa tregua? – si chiese il portoghese, guardando Kammamuri. – Se i rajaputi ci assediano, saremo costretti ad arrenderci per forza, non avendo nulla da porre sotto i denti.
– Credete che la Tigre della Malesia stia già scendendo la frontiera per tenderci la mano?
– Sandokan non può essere lontano. Il posto dei corrieri è sul Sirdar e là noi troveremo sue notizie.
– Che cosa devo fare?
– Partire senza indugio ed approfittare della notte per far correre i rajaputi. Cerca di unirti a Mati, se lo potrai, e che Dio ti protegga, mio bravo e fedel servitore. —
19. Le bande della Tigre
La luna, una luna magnifica, che rischiarava le foreste come in pieno giorno, sfiorava gli altissimi alberi dei Monti del Cristallo, quando una piccola banda d’uomini comparve in fondo ad un burrone che conduceva allo stagno di Sirdar.
Non erano più di cinquanta, ma il loro aspetto era tutt’altro che rassicurante.
Vi erano malesi e dayachi dell’interno, i famosi cacciatori di teste, tutti armati di fucili e di sciabole spaventevoli, che solamente a vederle, facevano gelare il sangue nelle vene.
Per di più alcuni portavano sulle loro robuste spalle delle lunghe canne le quali non erano altro che delle spingarde.
Pareva che altri uomini valicassero più in alto i passi delle montagne, poiché il silenzio della notte veniva di quando in quando interrotto da un lontano rotolamento di massi.
All’estremità del burrone percorso da quella piccola truppa, bruciava un gran fuoco acceso sulla riva d’un pantano.
Due uomini, seduti sul tronco d’un albero, discorrevano tranquillamente, senza preoccuparsi, a quanto sembrava, dei pericoli che potevano presentarsi da un momento all’altro.
Uno era il vero tipo del malese, intensamente bruno, con delle sfumature rossastre sugli zigomi; l’altro invece, il quale si appoggiava ad una superba carabina a due colpi montata in argento ed in madreperla, era il puro tipo dell’indiano.
Entrambi erano alquanto attempati, ma robusti ancora ed in grado di compiere anche da soli delle grandi gesta.
– Dimmi – disse il malese all’indiano, il quale da qualche tempo dava segni d’impazienza – non ti sembra strano che Yanez non ci abbia ancora mandato qualche corriere?
Mati, il mastro dello yacht, deve conoscere il paese ed io credo che saprà giungere presto qui, mio caro Tremal-Naik.
– Ti confesso che non sono punto tranquillo, Tigre della Malesia. Ho sempre il timore che al signor Yanez ed alle flottiglie sia toccata qualche disgrazia.
– Vorrei sapere anch’io che cosa è successo degli uomini che abbiamo sbarcato sulla costa.
Eppure, io credo che fra poco avremo qualche nuova. Conosco troppo bene Yanez, e mi pare di vederlo venirci incontro, poiché sa che anche noi siamo esposti a dei gravi pericoli.
Ci sono sempre alle costole i cacciatori di teste?
– Sì, signor Sandokan. Non ci vogliono assolutamente lasciare.
– Hanno dunque sempre bisogno di teste quei sanguinari selvaggi? – disse la Tigre della Malesia, facendo un gesto d’ira.
– Lo sapete al pari di me che razza di birbanti sono quegli uomini: hanno sempre bisogno di guarnire le loro capanne con teste umane per terrorizzare i loro avversari.
– Taci, Tremal-Naik, – disse in quel momento la Tigre della Malesia, alzandosi di scatto e mandando un fischio per far accorrere i suoi uomini, i quali si erano già riuniti a poco a poco sulle rive dello stagno.
– Un colpo di fucile! è vero, Sandokan? – chiese l’indiano.
Mi è parso.
– I dayachi non posseggono armi da fuoco – disse la Tigre della Malesia – se non sono assoldati da noi.
Le loro cerbottane non fanno rumore, pur uccidendo inesorabilmente. —
La piccola truppa che era scesa attraverso il burrone dello stagno, aveva subito messo in batteria due spingarde, volgendo le bocche verso la boscaglia.
Tutti si erano messi in ascolto, allarmati da quel colpo di fuoco che non poteva essere stato certamente sparato da amici.
Trascorsero alcuni minuti d’angosciosa aspettativa, poiché il drappello sapeva benissimo di avere dinanzi ed alle spalle i famosi cacciatori di teste, i quali sono i più prodi di tutti gli isolani della Malesia.
Dopo quello sparo, echeggiato lontano, in mezzo alla grande e tenebrosa foresta, non avevano udito più nulla.
Tuttavia il drappello non aveva disarmato e si teneva pronto a respingere qualunque assalto che venisse dall’altra parte dello stagno.
– Che ci siamo ingannati, Sandokan? – chiese Tremal-Naik al formidabile capo delle tigri di Mompracem.
– No, è stato un colpo di fuoco – rispose il malese, lanciando uno sguardo alla sua piccola truppa. – Conosco le carabine dei miei uomini ed uno sparo lo riconoscerei fra mille, perché le nostre armi hanno un calibro ben maggiore delle carabine usate dagli inglesi.
– Rispondiamo, Tigre della Malesia?
– Per segnalare ai cacciatori di teste il nostro accampamento? No, Tremal-Naik: preferisco aspettare ancora.
D’altronde siamo in buon numero e abbiamo le spingarde che sono così temute dai dayachi. —
Trascorsero altri cinque minuti.
Una tigre affamata, che andava in cerca della sua cena, fece udire il suo spaventoso ed impressionante ahough; ma il colpo di fucile non si ripeté sotto la tetra boscaglia.
– Ci domanda le nostre costolette – disse Tremal-Naik, il quale avendo vissuto moltissimi anni nell’India non pareva troppo agitato.
– Che assalga l’uomo che ha tirato il colpo?
– Anche a me è venuto questo dubbio, Sandokan, – rispose l’indiano.
– Che cosa faresti tu?
– Andrei a cercare l’uomo che ha segnalata la sua presenza con quel colpo di fucile.
Ne abbiamo ammazzate abbastanza nelle Sunderbunds del Gange e lungo le rive del fiume sacro, per spaventarci dell’urlo di quell’affamata.
La notte non è tanto oscura, ed anche sotto la foresta sapremo guardarci dal mangiatore d’uomini. —
La Tigre della Malesia fece un gesto, ed un brutto e vecchio malese, che aveva il viso ed il petto rigati di colpi di sciabola, si fece innanzi, chiedendo:
– Che cosa vuoi, capo?
– Che tu tenga duro fino al nostro ritorno – rispose Sandokan. – Se i tagliatori di teste tenteranno l’assalto al campo, lavora di mitraglia, giacché abbiamo portato fino qui le nostre più grosse spingarde.
– Bada, capo!… La foresta nasconde mille tradimenti, specialmente quando è percorsa dai selvaggi della frontiera.
– Io e Tremal-Naik per il momento basteremo.
Voglio cercare assolutamente l’uomo misterioso che s’avanza nella foresta, malgrado l’urlo della tigre. Non può essere che uno degli uomini di Yanez, ne sono sicuro. —
Diede alla sua banda uno sguardo, poi soddisfatto di vedere quei formidabili scorridori delle foreste in linea di combattimento, pronti a respingere qualsiasi attacco, si gettò sulle spalle la carabina e si allontanò, dicendo a Tremal-Naik:
– Vieni, amico: o troveremo l’uomo o troveremo la tigre. —
Volsero i talloni al piccolo accampamento e si cacciarono risolutamente sotto la tenebrosa boscaglia, ben decisi a trovare l’uomo che aveva fatto fuoco, malgrado la presenza della terribile belva.
La luna, filtrando attraverso le fronde, disegnava sul terreno delle chiazze curiosissime, brillanti per la rugiada notturna.
I due uomini s’avanzarono guardinghi per un cinquanta passi, tendendo gli orecchi ad ogni istante, poi Sandokan disse:
– Sia un amico o un nemico, noi provocheremo qualche altro colpo di fucile.
– Se la tigre non ha mangiato il misterioso corriere – disse l’indiano.
– Gli uomini di Yanez hanno fatto le campagne dell’India e conoscono troppo bene le bâg, per lasciarsi sorprendere.
Proviamo. —
Si tolse la carabina e si mise in ascolto per qualche istante.
Aveva già alzata l’arma, quando improvvisamente l’urlo spaventoso della tigre echeggiò novamente in mezzo alle foreste.
– Pare furiosa – disse Tremal-Naik. – Che l’uomo abbia mancato il colpo, o la belva sia stata ferita?
– Vediamo – disse Sandokan.
Sparò un colpo, il quale rumoreggiò sinistramente sotto la tenebrosa foresta ripercotendosi a lungo attraverso i sentieri e gli squarci.
Un ahough minaccioso fu la prima risposta che risonò non troppo lontano, poi dopo qualche minuto s’udì un altro sparo ma meno forte degli altri.
– L’abbiamo alla nostra destra – disse Sandokan. – Non può essere un dayaco.
– No, ma ha per alleata la tigre – rispose l’indiano, il quale nelle Sunderbunds indiane aveva fatto delle vere stragi di quelle sanguinarie belve.
– Bada che non ci sorprenda: è più vicina dell’uomo.
– Gli occhi li abbiamo anche noi e siamo abituati a vedere anche in mezzo alle tenebre.
– Pieghiamo, Tremal-Naik, e stiamo attenti.
Se la tigre ci ha fiutati, come è probabile, si metterà alle nostre calcagna per tentare ora il colpo su di noi.
– Sì, ci arriverà addosso quando meno ce l’aspettiamo. —
Avendo trovato nella foresta uno squarcio larghissimo, aperto dagli elefanti o dai rinoceronti, vi si cacciarono dentro, tenendo le dita sui grilletti delle carabine.
Sandokan si era già affrettato a ricaricare la sua arma, per non trovarsi quasi inerme al momento opportuno.
Nella foresta regnava ora un gran silenzio, rotto appena appena dallo stormire delle fronde, agitate leggermente dal venticello notturno.
Sotto le foglie secche si udivano di quando in quando dei sussurrii e dei sibili più o meno acuti, che annunciavano la presenza di non pochi rettili.
Sempre coll’orecchio teso, lo sguardo fisso sui cespugli e sulle grosse macchie, i due uomini cominciavano a marciare coraggiosamente cercando il misterioso corriere.
Avevano percorso altri cinque o seicento passi, quando Tremal-Naik, che si trovava dinanzi, si gettò bruscamente a terra, sussurrando:
– La bâg.
– L’hai veduta? chiese Sandokan senza dimostrare alcuna apprensione.
– Un’ombra è scivolata verso quella cupa macchia che si stende dinanzi a noi.
– Non sei certo peraltro che sia la tigre.
– Son certo che non tarderà a farsi vedere. Se sono coraggiose quelle del Bengala, quelle del Borneo non sono meno, e non scappano davanti all’uomo.
– Che abbia il suo covo in mezzo a quelle piante?
– Lo sospetto, Sandokan.
– Andiamo allora a cercarla – disse risolutamente il terribile capo dei pirati di Mompracem. – Non voglio che si mangi il corriere.
Si erano fermati entrambi, fiutando intensamente l’aria, la quale si era impregnata di quell’acuto odore di selvatico che si lasciano sempre dietro le bestie feroci.
– La senti? – chiese Tremal-Naik.
– Sì – rispose Sandokan. – Non è possibile ingannarsi. —
Si guardò intorno ed avendo scorto a terra un pezzo di ramo secco, lo raccolse e lo lanciò a tutta forza in mezzo alla macchia per provocare l’attacco della belva.
Fra gli sterpi si udì un brontolio minaccioso, poi uno scrosciare di foglie secche.
– È là dentro – disse Tremal-Naik.
– E ci aspetta al varco – aggiunse Sandokan. – Cerchiamo di scoprire i suoi occhi e di fulminarla con una palla in fronte.
Mettiti alla mia destra, amico. Spareremo meglio ambedue. —
L’indiano si scostò di qualche passo, si curvò fino a terra, spingendo gli sguardi acutissimi dentro la macchia, poi si alzò dicendo:
– È dinanzi a noi.
– E l’uomo?
– Chi sa dove è andato a finire.
– Lo cercheremo più tardi, quando ci saremo sbarazzati di questo pericoloso vicino, che conta di cenare colle nostre polpe.
Sangue freddo e avanti! —
Si gettarono entrambi carponi, spingendo più innanzi che potevano le loro terribili carabine e cercando ansiosamente gli sguardi della belva.
Un buffo d’aria umida, che sapeva di serra, impregnata di miasmi, portò per la seconda volta fino a loro l’odor di selvatico della bâg.
– Vedi nulla tu, Tremal-Naik? – chiese Sandokan all’indiano che gli stava accanto.
– Nella macchia regna un buio pesto.
– Eppure la bestiaccia è là dentro!
– Oh, ne sono convinto anch’io.
– Cerca i suoi occhi.
– Non riesco a scoprirli!
– Vuoi che passiamo innanzi e che riprendiamo il nostro cammino? Questa tigre ci è di più…
– Non ti fidare, perché se è affamata, ci segue per piombarci addosso al momento opportuno.
– Eppure non possiamo rimanere eternamente qui immobilizzati, mentre forse quel corriere misterioso cerca di raggiungere lo stagno.
– Che cosa vuoi fare, Sandokan?
– Scacciarla – rispose il capo dei pirati di Mompracem.
Non sarà la prima che cadrà sotto i nostri colpi. —
Si era nuovamente alzato, e con una pazza temerità si era avvicinato alla macchia, tenendo la carabina puntata.
Un rauco mugolìo lo avvertì che il pericolo era più vicino di quanto aveva creduto.
– Tremal-Naik, – disse – vuoi fare la parte della preda vivente? Tu sai che io non sbaglio mai.
– Sono pronto – rispose il coraggioso indiano.
S’avvicinò ad una fibra di rotangs e vi si appese con le mani, scotendola fortemente.
La liana, che passava in mezzo alle macchie, vibrò parecchie volte attirando l’attenzione del carnivoro.
Sandokan, cinque passi più indietro, nella classica posa del vero tiratore, aspettava trattenendo il respiro.
Ad un tratto un’ombra si abbatté sui rotangs che Tremal-Naik stringeva, tentando di portar via l’uomo che si offriva così storditamente ai suoi denti ed ai suoi artigli.
In quel medesimo istante due colpi partirono dalla carabina di Sandokan.
La belva, che cercava di issarsi sui rotangs per raggiungere l’indiano allargò le zampe anteriori, mandò fuori un ruggito cavernoso, poi s’abbandonò.
– È nostra! – gridò l’indiano, il quale si preparava a sparare il colpo di grazia, nel caso che ve fosse stato bisogno.
– Ed anche il corridore misterioso fra pochi minuti cadrà nelle nostre mani. —
Una voce umana si era alzata in mezzo ad una seconda macchia, gridando minacciosamente:
– Chi vive?
– È a te, mio caro, che lo domandiamo – rispose prontamente Sandokan. – O ti mostri, o noi ti passiamo per le armi, come la tigre che abbiamo abbattuta in questo momento.
– Saccaroa!… Quale voce! – esclamò il corriere misterioso, il quale pareva che non ci tenesse affatto a farsi innanzi.
Sareste voi la Tigre della Malesia?
– Mi conosci?
– Sono uno degli uomini del capitano Yanez, signore, – rispose lo sconosciuto.
– Mati!… Il mastro dello yacht! – esclamarono Sandokan e Tremal-Naik, facendosi innanzi.
– Sì, sono io – rispose il valoroso marinaio. – Sono due giorni che frugo tutti i burroni dei Monti del Cristallo per cercarvi.
– È accaduta qualche disgrazia a Yanez? – chiese premurosamente Sandokan.
– Sono venuto a chiedere il vostro aiuto.
– È stato preso, forse?
– Non ancora; ma credo che prima di domani sera si troverà preso e ben legato, nelle mani dei rajaputi del Sultano che assediano la collina, sulla quale si sono rifugiati i nostri poveri compagni.