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Kitabı oku: «La rivicità di Yanez», sayfa 11

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CAPITOLO XI. IN TRAPPOLA

Quanto dormirono? Non lo seppero mai dire.

Alcuni spari, diretti verso la galleria che conduceva al sepolcreto, erano improvvisamente echeggiati.

Kammamuri fu il primo a balzar fuori, e subito venne imitato dal rajaputo.

Dinanzi alla porticina sgangherata, illuminati da parecchie torce, stavano in gruppo i cavalieri di Sindhia colle armi puntate.

Non erano cresciuti di numero, tuttavia erano ancora troppi per impegnare con loro un disperato combattimento.

– Orsú, siamo presi! – disse Kammamuri senza troppo inquietarsi. – Ciò presto o tardi doveva avvenire.

Il comandante del drappello scese i gradini, tenendo nelle mani un paio di pistole, e gridò:

– Ormai vi abbiamo raggiunti e non ci sfuggirete piú.

– Non ci hai ancora nelle tue mani, brutta scimmia! – rispose Kammamuri. – Anche noi siamo armati.

– Siamo in venti.

– E noi due soli; ma siamo tali uomini da dare dei fastidi anche a cento. Che cosa vuole Sindhia da noi?

– Io non lo so – rispose il comandante.

– Legarci a quattro cannoni e lanciarci in aria a brandelli?

– Io non sono il padrone. Io ho ricevuto solamente l’incarico di condurvi da lui anche morti.

– Come corri!

– Finiamola! – gridò il comandante. – O vi arrendete o ordino il fuoco.

– Un po’ di pazienza, signor mio! Non siamo delle lepri, per Buddha! Io voglio farti una proposta.

– Di’ su, spicciati.

– Di recarti da Sindhia e chiedergli quali sono le sue intenzioni a nostro riguardo.

– I nostri cavalli sono sfiniti e non potrebbero reggere. Il rajah è piú lontano di quanto tu credi.

– Che cosa fare? – si chiese Kammamuri. – Tentare la lotta? Impossibile! Vi sono dall’altra parte troppe armi da fuoco e saremmo messi subito fuori di combattimento.

Si volse verso il compagno e disse:

– Amico, noi siamo presi. Io non posso assumere la responsabilità d’un combattimento. Arrendiamoci.

Il rajaputo mandò un vero ruggito.

– Accoppiamoli tutti! – gridò.

La voce del comandante del drappello lo interruppe subito:

– Guardati! Non commettere una pazzia.

– Posa la tua carabina, mio povero rajaputo, – disse il maharatto.

– Che sia proprio finita per noi?

– Per ora sí.

– Anche senza carabina ne accopperò molti a pugni, quando si presenterà l’occasione.

– Avete deciso? – gridò il comandante impazientito.

– Sí, la resa – rispose Kammamuri.

– Era tempo. Ci avete fatto correre molto, e siamo tutti sfiniti.

– E noi non meno di voialtri – rispose Kammamuri.

Mandò un lungo sospiro e depose a terra tutte le sue armi. Il compagno lo imitò.

Il comandante del drappello, che impugnava sempre i suoi pistoloni, discese la scaletta seguíto da tutti i suoi uomini, e s’avvicinò ai prigionieri.

– In alto le mani! – gridò.

– Noi non siamo traditori – rispose il maharatto. – Puoi avvicinarti senza temere alcuna sorpresa. Ci condurrai via subito?

– È impossibile. I cavalli hanno bisogno di riposo.

– Fuori splende il sole?

– No, le stelle.

– Che dormita! – mormorò il vecchio cacciatore della Jungla nera. – I nostri corpi, d’altronde, ne avevano ben diritto.

I venti o ventidue banditi si erano avanzati nel sepolcreto con le armi sempre puntate.

Non avevano l’aspetto veramente guerresco. Vi erano piú paria fra di loro che uomini atti alle armi. Erano tutti sparuti, e a mala pena si reggevano in piedi.

Se le avevano passate dure i fuggiaschi, nemmen loro, durante quella caccia accanita, avevano potuto nutrirsi e riposarsi.

– Prendete pure le armi – disse Kammamuri al comandante.

– Vi ripeto: in alto le mani!

– Eccole! – risposero i prigionieri.

– Ora vi lascerete legare poiché noi non partiremo prima di domani.

– Fa’ come vuoi – disse Kammamuri. – Non stringete troppo le corde, altrimenti vi saltiamo alla gola come tante tigri.

– Va bene – rispose il capo, sorridendo un po’ ironicamente.

Con un segno fece accorrere i suoi uomini, i quali si erano già forniti di funicelle tolte alle loro cavalcature. In un momento i prigionieri furono legati per bene, ma non troppo strettamente.

Poi furono presi e gettati tutti insieme dentro una tomba assai vasta, che doveva aver ricevuto le spoglie di cinque o sei guerrieri per lo meno.

– Tu vuoi soffocarci! – gridò il maharatto esasperato.

– Vi state tutti benissimo lí dentro – rispose il capo. – Potrete riprendere tranquillamente il vostro sonno.

– E rimetti al posto anche la pietra?

– No, perché voglio sorvegliarvi io stesso fino al momento della partenza.

– Allora buona notte anche a voi.

– Oh, ci riposeremo di certo. Ne abbiamo bisogno.

Delle torce erano state piantate qua e là, e intorno all’avello si erano radunati sei banditi, scelti fra i piú robusti ed i meglio armati.

Gli altri si erano sdraiati sulle gualdrappe dei cavalli e avevano cominciato subito a russare.

– Sahib, – disse il rajaputo che si trovava accanto a Kammamuri – ci lasceremo portar via cosí, legati come bestie feroci? Io non so rassegnarmi.

– Ormai non vi è piú nulla da fare, mio povero amico, – rispose il maharatto. – Andiamo a vedere che cosa vuole quel furfante di Sindhia.

– Vorrà la nostra pelle, sahib.

– Non l’ha ancora presa. E poi vi è il Maharajah colle tigri della Malesia che lo tengono a bada.

– Credi che il principe ed i suoi compagni resistano ancora?

– Il principe bianco, o meglio, il signor Yanez? Io sono piú che certo che non si sono ancora arresi quei valorosi. Hanno le mitragliatrici collocate sulla cima d’una collina, e quelle armi, ben maneggiate, in un paio d’ore gettano a terra una colonna ed anche due.

– Ma volevo dirti, sahib, che io posseggo tanta forza, da rompere i miei legami ed anche i tuoi.

– Siamo troppo sorvegliati. Potresti prenderti qualche colpo di pistola senza nessun avviso. Non vedi come quelle canaglie ci spiano?

Il rajaputo alzò la testa e vide i sei banditi scelti per il quarto di guardia, tutti ritti intorno all’avello. Come si reggevano ancora in piedi dopo tante fatiche? È proprio vero che gli indostani posseggono una resistenza superiore perfino alle razze mongole.

– Hai veduto? – chiese Kammamuri.

– Sí, sahib; niente da fare – rispose il gigante agitandosi tutto.

– Allora conserva la tua forza straordinaria per piú tardi.

– Che il gurú non conosca nessun’altra molla segreta?

– Gliel’ho chiesto poco fa e mi ha risposto che altre molle vi saranno, ma che lui è troppo vecchio per ricordarsi dove si trovano.

– Allora non ci rimane che rassegnarci ad andare a trovare i grandi guerrieri del Nirvana.

– Non siamo ancora morti.

– Su chi conti, sahib?

– Io non dispero mai. Su nessuno e su tutti. Lasciamoci pure prendere, giacché per il momento siamo senz’armi.

– Vuoi che salti fuori e che accoppi quelle canaglie a pugni?

– Se sei legato al pari di me…

– Non importa: in un momento posso rompere queste funi.

– Ti ho detto che ci spiano.

– Questo è il male – disse il gigante con un lungo sospiro.

– Allora non commettere sciocchezze! – disse il maharatto. – Già io avevo previsto da tempo che i banditi di Sindhia avrebbero finito col prenderci.

– Me lo dici molto tranquillamente, sahib.

– Non è il momento di urlare.

– Dunque niente da fare? – chiese l’ostinato rajaputo.

– Per ora niente da fare. Puoi riprendere il sonno interrotto.

Il gigante, scoraggiato, si allungò a fianco del giovane cercatore di piste, il quale russava già.

Come si trovasse lí anche lui, non lo abbiamo detto sopra per non ripetere una storia troppo simile a quella raccontata. Il lettore se ne sarà accorto da sé e non si meraviglierà se troverà qui Timul e gli altri, compreso lo strano sacerdote.

Kammamuri non tardò ad imitarlo, stendendosi presso il gurú, il quale pure dormiva tranquillamente, malgrado la presenza dei banditi di Sindhia.

– Mi odi? – gli chiese urtandolo vigorosamente.

– Sí, sahib, – rispose lo strano sacerdote.

– Non vi è alcun mezzo per fuggire? Pensa che Sindhia farà la pelle a noi tutti.

– Ti ho già detto poco fa che possono esservi qui altre molle ed altri passaggi segreti, ma che io non mi ricordo piú nulla. Sono vecchio – rispose il gurú.

– Anch’io non sono piú giovane, eppure se avessi ancora le armi, mi sentirei in grado di dare battaglia a questi banditi. Disgraziatamente è troppo tardi, e non abbiamo che le nostre braccia e per di piú ben legate.

– Io sono rassegnato al mio destino! – rispose filosoficamente il gurú. – Si prendano pure la mia pelle. Varrà ben poco, sahib, e faranno un cattivo acquisto: è tutta cicatrici perché sono stato prima un guerriero.

– Basterà per fare un tamburo.

– Poco me ne importa. Ormai la lotta è impossibile e rinuncio alla vita senza rammarico.

– E se potessimo sbarazzarci di quei furfanti?

– In qual modo ora che siamo cosí immobilizzati?

– Anche questo è vero. Forse io ho avuto troppa fretta a consegnare le armi, ma era necessario per non farci fucilare tutti.

– I rimpianti ormai sono inutili, sahib – disse il gurú. – Cosí ha voluto Siva. Cerca di riposarti, giacché non vi è nulla da tentare. Siamo come dei sepolti vivi. Guarda: hanno rimesso a posto anche la pietra dell’avello.

– Me ne sono accorto.

– Sahib, – disse il rajaputo, il quale cercava invano di addormentarsi – vuoi che spezzi i miei legami e che con due calci poderosi mandi in aria il coperchio?

– Tu non devi far nulla per ora, ti ho detto – disse Kammamuri. – Che cosa faremmo poi se non abbiamo nemmeno un miserabile tarwar?

– Ed i miei pugni?

– Basta un colpo di carabina per metterti subito fuori di combattimento, sebbene tu abbia il torace d’un orso.

– Sahib, ti obbedisco – rispose il rajaputo. – Ho capito anch’io che ormai una lotta sarebbe assolutamente inutile. Tuttavia io cercherò di spezzare le mie corde.

– Non farti scorgere.

– Fa abbastanza oscuro dentro questa sepoltura. Lavorerò con estrema prudenza, senza far rumore. Se poi vorrai, scioglierò anche te.

– Ne riparleremo piú tardi – disse il maharatto, il quale aveva veduto comparire novamente gli uomini di guardia del comandante del drappello. – Lavora con prudenza per non farci uccidere tutti prima del tempo.

– Non farò nessun rumore. Le mie dita sono robuste quanto le tenaglie. Spezzano tutto.

– Fa’ come vuoi, povero amico; ma ti ripeto che questa volta finiremo fra le unghie di Sindhia.

– Ed è per questo, sahib, che cerco di avere almeno le braccia libere. Un giorno sulla montagna con un pugno solo ammazzai un orso che mi aveva assalito sulla discesa del…

– Mi racconterai il resto domani – lo interruppe il maharatto. – Lasciami riposare. Questo non è il luogo per raccontare delle avventure.

Il rajaputo si allungò vicino ad un compagno e si mise bravamente all’opera. Voleva essere libero prima che lo portassero via di lí.

Stirava le membra senza badare al dolore, poi lavorava di denti, sfilacciando rapidamente le funicelle.

Se era robusto come un orso, aveva anche dei denti poco dissimili a quelli di quei plantigradi.

Kammamuri, completamente immobilizzato, si lasciò cadere a fianco del gurú in attesa di qualche scarica di pistola o di carabina, poiché i banditi non avevano rallentata la sorveglianza.

Il sacerdote russava tranquillamente, ed anche Timul dormiva della grossa senza pensare al pericolo.

– Queste non sono le tigri della Malesia – disse il vecchio cacciatore della Jungla nera.

Il gigante intanto riprese il suo durissimo lavoro, cercando di non far rumore. Aveva finalmente capito che poteva prendersi di sorpresa qualche colpo d’arma da fuoco ed agiva con estrema prudenza.

Era appena trascorsa una mezz’ora, quando Kammamuri lo udí mormorare:

– Finalmente sono libero, e non mi hanno ancora ucciso.

– Ebbene, che cosa farai ora, mio povero amico? Tu conti troppo sulla tua forza – disse il maharatto.

– Preferisco essere libero piuttosto che legato. Almeno avrò la possibilità di spaccare qualche testa.

– Ti consiglio di rimanere per ora tranquillo. Potresti fare ammazzare anche noi.

– Sono una bestia. Io non ho pensato che siamo tutti senz’armi e che voi siete tutti legati.

– Come, non ti sei accorto che il comandante del drappello ci spia? Guardalo: forse si è già accorto che tu ti sei sciolto.

Il bandito che aveva surrogato quello ucciso da Kammamuri stava curvo sull’avello e guardava i prigionieri con occhi irati.

– Che cosa fate dunque? – chiese con voce minacciosa. – Volete che vi uccida prima che giunga il rajah?

– Sindhia si degna di venirci a fare una visita? – disse il maharatto con voce ironica.

– L’ho mandato a chiamare.

– Eppure tu dicevi che tutti i tuoi cavalli erano diventati bolsi.

– Ne ho trovato uno in ottimo stato.

– Durante il viaggio non lo mangeranno le tigri?

– Il cavaliere è coraggioso e saprà difendersi. Fra cinque o sei ore il rajah sarà qui.

– Potevi condurci nel suo accampamento.

– Laggiú infierisce il colera, e non ho alcun desiderio di prendermi quel malanno che di rado perdona.

– Ne sei ben sicuro?

– Muoiono in buon numero nel campo del rajah. Ieri incontrai un informatore che veniva dalla capitale e mi raccontò tutto.

– Giacché sei cosí gentile, si potrebbe sapere che cosa fa il tuo padrone?

– Questo non lo posso dire.

– Allora ci farai portare qualche cosa da mettere sotto i denti.

– Soffriamo la fame anche noi – rispose il bandito. – Non abbiamo nulla da offrirvi. Stringetevi il ventre. Finché il rajah non giungerà, non vi darò nemmeno un sorso d’acqua.

Poi rivolgendosi al rajaputo, che si era messo in ginocchio e pareva pronto a scattare, gli disse:

– Ora ti lascerai rilegare. Me ne sono accorto che hai spezzate le tue funi.

– Una volta sí, due no! – rispose il gigante con voce di tuono.

– Ed allora ti uccido! – rispose il bandito, puntandogli contro le pistole.

Il rajaputo con uno scatto fulmineo balzò fuori dell’avello e si gettò sul miserabile mandando dei veri ruggiti.

Lo afferrò pei polsi in modo da spezzarglieli, e si impadroní delle due armi da fuoco, prima che i colpi partissero.

– Ah, cane! – urlò il comandante del drappello, che stava per svenire sotto la formidabile stretta. – All’armi!

I sei uomini di guardia, quantunque mezzo addormentati, accorsero in suo soccorso.

Ma dinanzi al gigante, che impugnava una pistola per ogni mano, arretrarono, quantunque fossero armati fino ai denti.

– Largo! – tonò il gigante – o vi uccido tutti!

Il comandante del drappello si era intanto rialzato, spasimando per le strette poderose sofferte.

Guardò il rajaputo, che pareva impazzito, e gli disse:

– Rendimi le pistole, o ti faccio subito fucilare.

– I tuoi uomini non li temo – rispose il gigante.

Aveva preso le pistole per le canne e stava per servirsene come martelli. Nelle mani di quel formidabile uomo, adoperate anche in quel modo, diventavano armi terribili.

La resistenza, come già Kammamuri aveva previsto, era inutile. Tutti gli altri banditi, attratti dalle grida di allarme, accorrevano urlando colle carabine puntate.

– Che cosa vuoi fare ora? – chiese il capo del drappello. – Vedi bene che sei preso e non puoi sostenere la lotta. Lo so che sei forte, ma anche gli elefanti, che sono piú forti di te, si uccidono.

– Ebbene, fammi uccidere! – disse il rajaputo impugnando le pistole.

– A questo penserà il rajah.

– Quando verrà?

– Forse piú presto di quello che credi.

– Puoi intanto anticipare le sue stupide vendette.

– Ah, no, signor mio! Io non sono che un povero comandante di un drappello di cavalieri, ed ho ricevuto degli ordini ai quali devo assolutamente obbedire, se non voglio che il mio corpo finisca calpestato dall’elefante carnefice del rajah. Tengo un po’ anch’io alla vita, quantunque sia un uomo di guerra ed abbia ormai veduta la morte vicina a me centinaia e centinaia di volte.

– Allora affrontami. Hai degli uomini pronti ad aiutarti.

Il gigante aveva in quel momento un aspetto cosí terribile, che il capo del drappello credette opportuno rinunciare alla lotta. Già i suoi cavalieri erano scappati, come se temessero di veder crollare le vòlte del sepolcreto.

– A me, poltroni! – urlò con voce tonante.

Gli risposero delle risate.

I suoi superbi cavalieri erano già fuggiti nell’interno della pagoda. Non volevano assolutamente provare le furie di quel gigante, che pareva piú una belva che un essere umano.

– Sotto! – gridò il comandante, vedendo apparire un giovane graduato. – Non meritavi i galloni tu, ma te li farò strappare dal rajah.

– Preferisco la morte ad una tale onta.

– Aiutami.

– Scappano tutti!

– Siete dei vili!

– No, capo: aspetta che prendiamo fiato.

– Quest’uomo cerca di andarsene.

– Non andrà lontano.

Il rajaputo, ritto presso l’avello entro cui si trovavano i suoi compagni ammassati gli uni sopra gli altri, faceva veramente paura. Aveva perfino gli occhi iniettati di sangue come una bestia.

– Su, avanti! avanti! – urlava. – Vi voglio uccidere tutti!

Sette od otto banditi intanto erano tornati nel sepolcreto, e decisi a finirla, avevano puntate risolutamente le carabine.

Già stavano per far fuoco, quando al di fuori si udirono squillare delle trombe.

– Il rajah! il rajah! – gridarono tutti alzando le armi.

Il rajaputo stette un momento in forse, poi stringendo sempre le due pistole si sedette sull’avello bestemmiando.

La voce di Kammamuri si fece udire:

– Che cosa vuoi tentare, pazzo? La lotta è impossibile.

– Forse hai ragione, sahib, ma non lascio le mie armi.

– Il meglio che puoi fare è di arrenderti.

– No! – rispose il testardo.

Aveva innanzi a sé dieci banditi, i quali lo avevano preso nuovamente di mira; ma l’ercole non si sgomentò affatto.

– Voglio vedere prima la faccia del rajah – disse. – Ad arrendersi c’è sempre tempo.

In quel momento il capo del drappello ricomparve accompagnato da altri cavalieri i quali scortavano il rajah.

Erano vestiti quasi come i cipai del Bengala, e facevano una discreta figura. Le loro fasce poi erano piene di pistoloni e di corte scimitarre.

– Giú le armi! – tonò una voce.

Era Sindhia, l’ex rajah, il quale era improvvisamente comparso fra i suoi guerrieri.

– Ho faticato abbastanza per guadagnarmi queste due pistole – disse il rajaputo.

– Chi sei tu, che, solo, osi rifiutarti?

– Un uomo che saprà vendere molto cara la propria pelle – rispose il gigante.

– Abbassa quelle pistole! Io sono il rajah.

– Ti conosco, Altezza. Non è la prima volta che ti vedo.

– Se entro tre battute di mano non disarmi, comando il fuoco.

– Ma arrenditi, testardo! – gridò Kammamuri, che si trovava stretto fra i suoi compagni di sventura e per di piú ancora legato. – Te lo comando!

– Lo vuoi proprio, sahib?

– Sí, lo voglio.

Il rajaputo alzò le pistole in alto, e prima che il rajah battesse le mani le scaricò.

CAPITOLO XII. LE FURIE DEL «RAJAH»

L’eco delle detonazioni era appena cessato, quando Sindhia, scortato da una quarantina d’uomini benissimo armati e che portavano delle torce, osò avanzarsi nel sepolcreto.

L’ubriacone indossava una specie di mantello di seta verde con vistosi alamari e grossi bottoni d’oro.

Calzava scarpe rosse a punta rialzata, ed aveva la testa coperta da un gigantesco turbante, adorno di tre piume monumentali cosparse di brillantini.

Il suo viso pareva incartapecorito e piú oscuro che mai. Solamente i suoi occhi, sempre nerissimi, scintillavano come quelli di un cobra capello.

Mosse risolutamente verso il gigante, il quale aveva ormai gettate le armi scariche e che pareva lo sfidasse colle possenti braccia incrociate, e dopo averlo attentamente guardato, gli disse con una vera ammirazione:

– Se io avessi avuto cinquecento uomini forti e coraggiosi come te, l’Assam già da tempo sarebbe mio. Tu sei un vero guerriero che non ha paura delle carabine.

– No, Altezza – rispose il rajaputo con voce rauca.

– Tu mi piaci. Vuoi arruolarli sotto le mie bandiere?

– Io ho giurato fedeltà alla rhani e al Maharajah.

Il viso scimmiesco dell’ubriacone si contrasse tutto, mentre un lampo terribile gli accendeva gli occhi. – Il Maharajah! la rhani! – esclamò ridendo sgangheratamente.

– Ma dove sono quei signori? Nell’Assam ora comando io solo.

– Non credo – rispose il rajaputo, fissandolo intrepidamente.

– Se sono tutti morti! …

– Forse per te, Altezza, ma non per me. Io so che il Maharajah si difende sempre insieme con le tigri della Malesia e che la rhani sta benissimo sulle montagne natie.

– Si è rifugiata fra i montanari di Sadhja; è vero?

– Credo – rispose il rajaputo.

– Tu devi saperlo.

– Quando il Maharajah la fece partire, io non ero piú presso di lui, quindi io non so precisamente ove si trovi.

– Me lo dirai, e mi dirai qualche altra cosa ancora. Il mio rivale dove ha nascosti i suoi tesori?

– Io non sono mai stato il suo tesoriere, Altezza. È inutile domandarlo a me, che sono sempre stato un uomo di guerra.

– Ci sarà qualche altro che mi risponderà meglio – disse il rajah.

– Chi? – domandò il rajaputo.

– Qui ci deve essere il famoso maharatto, quello che inspirava il Maharajah. Saprà molte cose lui.

– Lui? T’inganni, Altezza! Anche quello è sempre stato un uomo di guerra.

– Lo vedremo – rispose Sindhia con un sorriso feroce.

Si volse verso il capo del drappello e gli chiese:

– Dove sono?

– Tutti dentro quella sepoltura.

– Hai fatto benissimo.

Il rajah trasse dalla sua altissima fascia di seta, che gli stringeva il vestito, un fischietto d’oro e mandò un sibilo stridente.

Quasi subito un uomo, che doveva essere un fakiro piuttosto che un paria, entrò nel sepolcreto portando appese ad un lungo bastone due grosse ceste di vimini.

– Quanti serpenti hai? – gli chiese il rajah alzandosi bruscamente.

– Una trentina, signore.

– Tutti velenosi?

– Vi sono cobra capello, serpenti del minuto, ed anche dei bis cobra.

– Ne abbiamo abbastanza – rispose il rajah. – Vedrai che faremo uscire subito da quella tomba i prigionieri senza consumare una carica di polvere.

– E morranno tutti! – disse il rajaputo fremendo.

– Dei prigionieri non so che cosa farne – disse il rajah. – Sono troppo imbarazzanti.

– Ma qualche volta possono diventare preziosi.

– Lo so. Ma io ho troppa fretta di riconquistare il mio regno, e sono deciso di andare subito a fondo.

– Vorresti dire, Altezza?

– Distruggere subito tutti gli amici del mio rivale. In quanti siete, prima di tutti?

– In quattro, ma tutti feroci come le tigri che hanno assaggiata la carne umana. Domandalo al comandante del tuo primo drappello di cavalleria.

– Oh, sí! Terribili, gran signore! – rispose il comandante. – Non vorrei affrontarli un’altra volta.

– Ba’, voi non avete sangue nelle vene! – disse il rajah. – Io vi pago come principi e voi evitate i combattimenti. Bei soldati che ho arruolati io!

Alzò le spalle, abbassò il monumentale turbante nascondendosi quasi tutto il viso, poi rivolgendosi al rajaputo, gli disse:

– Fa’ uscire i tuoi compagni da quella tomba.

– Sono tutti legati.

– Li metteremo in libertà. Hanno armi?

– Nessuna – rispose il capo dei cavalleggeri. – Nemmeno un miserabile coltello.

– Sono curioso di vedere quel famoso uomo che chiamano il maharatto. Vedrai che quello la saprà piú lunga di te.

– Potresti ingannarti, Altezza – rispose il rajaputo, il quale faceva sforzi enormi per mantenersi relativamente tranquillo. – Ne saprà meno di me.

– Ma io lo voglio vedere. Fallo uscire, o faccio gettare dentro la tomba una cinquantina di serpenti e tutti velenosi.

– Vostra Altezza mi vedrà senza ricorrere alla violenza! – gridò in quel momento Kammamuri. – Fatemi sciogliere dalle corde e comparirò dinanzi a voi.

– Ed armi ne hai? – chiese il rajah.

– Nessuna.

– Desidero molto vederti. Tu sei un uomo famoso nella storia dei thugs e anche dell’India.

– Vedrai un uomo che vale molto meno del rajaputo.

– Non importa: voglio vederti. Sono un principe, non già un tuo servo.

– Hai un coraggioso che mi liberi dalle funi?

– Ne ho cento.

– Basto io! – disse il gigante. – Lasciate fare a me, Altezza. Tutto andrà bene senza sprecare polvere e veleni di serpenti.

Saltò agilmente nell’avello armato d’un corto tarwar datogli dal capo dei cavalleggeri, e tagliò rapidamente le funicelle che tenevano avvinto Kammamuri.

Il maharatto appena si sentí libero scattò come se avesse avuto cento molle sotto i piedi.

Con un gran salto si slanciò nel sepolcreto e comparve dinanzi al rajah, dicendo con voce un po’ ironica:

– Eccomi, Altezza. Che cosa vuoi da me?

Sindhia lo guardò attentamente, poi disse:

– Ecco un altro bell’uomo che ha compiuto già mille e mille prodigi. Fosti tu, è vero, che uccidesti il capo dei thugs durante la rivolta di Delhi?

– No, Altezza, – rispose Kammamuri. – Fu la Tigre della Malesia insieme col principe bianco che si chiama Yanez.

– Yanez? Chiamano con questo nome l’attuale Maharajah.

– È il suo.

– Vorrei sapere prima di tutto da dove vengono quei terribili uomini, poiché, devo confessarlo, essi sono quasi invincibili.

– Vengono dalla Malesia, Altezza. Ma tu lo sapevi già, perché Teotokris, il greco, te l’aveva detto.

– E perché sono venuti qui?

– Se non avessero incontrato Surama, sarebbero rimasti laggiú a combattere, ora cogl’inglesi, ora coi guerrieri del Sultano di Varauni.

– Surama! – esclamò il rajah con voce rauca. – È stata la mia sventura; ma la rhani questa volta non mi scapperà; la prenderò insieme col Maharajah e la famosa Tigre della Malesia.

Un sorriso d’incredulità spuntò sulle labbra del maharatto.

– Sterminerò tutti! – riprese a dire il pazzo, mettendosi a passeggiare furiosamente per il sepolcreto. – È ora di finirla. Quanti uomini hanno?

– Lo ignoro, Altezza. Da qualche settimana non mi trovo piú presso di loro, quindi nulla posso sapere.

– Eppure sei giunto cogli elefanti tu!

– Non lo nego; ma ho abbandonato subito il Maharajah ed i suoi amici, perché dovevo recarmi verso le montagne di Sadhja.

– A vigilare la rhani?

– Può darsi – rispose tranquillamente Kammamuri.

Il rajah stava per riaprire la bocca quando fece un salto indietro. Uno dei cavalleggeri che aveva condotto dal suo campo, era stramazzato pesantemente al suolo, a pochi passi dinanzi a lui.

Tutti erano rimasti immobili o avevano fatto un passo indietro manifestando un vivo terrore; ma quasi subito due o tre coraggiosi si precipitarono sul cavalleggero, che non dava ormai piú segno di vita, e lo portarono via correndo.

– Pare che si goda poca salute nel tuo campo! – disse il maharatto. – Quel disgraziato è morto di colera fulminante.

– Come lo sai tu? Sei un medico forse?

– No, Altezza, ma m’intendo di colera, avendo soggiornato a lungo fra i molanghi delle Sunderbunds del Gange.

– Sapresti guarire tu quella terribile malattia che decima rapidamente le mie truppe? Io ti darei una fortuna – disse il rajah.

– A che cosa mi servirebbe ormai? I miei giorni, lo so bene, sono contati, e forse è già preparato il pezzo d’artiglieria che deve scaraventare in aria il mio misero corpo.

– Forse t’inganni – disse il principe. – Io non ho l’abitudine di uccidere dei valorosi, che potrebbero servire alla mia causa.

– Vorresti dire, Altezza?

– Che se anche non sei un medico, ti arruolo insieme coi tuoi compagni.

– Io ho giurato fedeltà al Maharajah.

– Fra pochi giorni il mio rivale sarà catturato o morto.

– Chi sa!

– Credi che sia molto forte?

– Piú di quello che credi, Altezza.

– Eppure, non deve avere che un pugno d’uomini con sé.

– Ma quegli uomini si chiamano le tigri della Malesia.

– So quanto valgono quei selvaggi della lontana isola – rispose il rajah, facendo un gesto di rabbia. – Non è la prima volta che li provo. Senza di loro, il principe bianco non mi avrebbe preso il trono.

Girò tre o quattro volte su se stesso come un pazzo, poi si piantò dinanzi al maharatto e gli disse:

– Io non ho tempo da perdere: o con me, o contro di me.

– Un guerriero non può mancare alla sua parola, Altezza – rispose Kammamuri con fierezza.

– Ah, mi dimenticavo una cosa che mi preme assai. Dove ha nascoste le sue ricchezze il Maharajah.

– Lo ignoro anch’io.

– Ah, nessuno vuol parlare! – urlò il principe, schizzando fiamme dagli occhi. – Lo vedremo.

– Comanda ai tuoi uomini, Altezza, che ci fucilino tutti qui dentro. La cassa è pronta a raccogliere le nostre spoglie – disse Kammamuri.

– Sarebbe una morte troppo dolce – gridò sogghignando il principe crudele.

– Fa’ vuotare i panieri che sono pieni di serpenti.

– Non farò nemmeno questo. Io voglio sapere assolutamente dove il Maharajah ha nascoste le sue ricchezze. Mi occorrono per condurre a termine la guerra; e le casse dei miei ministri sono vuote.

– È una ostinazione inutile – rispose il maharatto. – Quando la capitale bruciava, nessuno di noi si trovava presso il principe bianco.

– L’hai incendiata tu, canaglia?

– No; sono stati i soldati del principe bianco.

– Aveva ancora tanti uomini?

– Io non li ho contati, Altezza.

– Tu non vuoi sbottonarti.

– Non posso dire quello che non so.

– Tu mi giuochi, brigante!… Su anche gli altri!

Il capo dei cavalleggeri insieme con alcuni soldati discese nell’avello e tagliò le corde ai due ultimi prigionieri.

– Chi è quell’uomo? – chiese Sindhia, fissando i suoi occhi sul gurú.

– Il guardiano del tempio – rispose il capo dei cavalleggeri.

– Ed è ancora vivo?

– Non volevo prendermi delle maledizioni, Altezza. È un peccato troppo grosso spegnere la vita di un gurú.

– Delle maledizioni io me ne rido! – disse il crudele principe. – Non ho mai avuto paura nemmeno di quelle dei bramini, che sono anche piú terribili.

– Vuoi che lo faccia fucilare, Altezza?

– Corri troppo tu, mio caro. C’è sempre tempo a morire.

– Che cosa devo fare allora? Io aspetto i tuoi ordini.

Sindhia si era messo nuovamente a passeggiare, facendo gesti di minaccia e gridando:

– Io finirò con l’aver ragione di questi quattro miserabili.

– Altezza! – gridò Kammamuri fremente. – Non sono un paria a cui si può dare del miserabile.

– Eh, sappiamo che sei un maharatto – rispose Sindhia, digrignando i denti. – L’hai finita?

– Io sí.

Il rajah si era fermato dinanzi a Kammamuri, e dopo averlo fissato intensamente co’ suoi occhietti sempre scintillanti, disse:

– Vuoi salvare la tua vita e quella dei tuoi compagni?

– Che cosa devo fare?

– Condurmi là dove il principe bianco ha nascosto i suoi tesori. Le casse dei miei ministri sono vuote, e questa campagna minaccia di diventare assai costosa.

– Ti ripeto che io non so assolutamente nulla. Io non ero il confidente del Maharajah né della rhani; e la notte che la capitale prese fuoco, io ero ormai lontano.

– Per qualche missione di premura? – chiese Sindhia colla sua solita voce ironica.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
320 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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