Kitabı oku: «La tigre della Malesia», sayfa 3
CAPITOLO III. L’incrociatore
Abbandonato il disalberato e sdruscito legno mercantile, i due prahos pirateschi, con due uomini di meno, ripresero la corsa verso Labuan, l’isola della Perla, che Sandokan ormai voleva ad ogni costo vedere.
Il vento dell’ovest era inoltre propizio per portarsi al nord-est e giungere all’indomani allo spuntar del sole e forse la stessa notte all’isola. Bisognava però agire con estrema prudenza poiché, per quanto fossero forti e risoluti, potevano incontrare più di un incrociatore che sbarrasse la via o almeno inceppasse la spedizione. Tutti sapevano che il regno di Borneo, la cui capitale non distava gran tratto, benché si prestasse volentieri alla pirateria e mantenesse prahos pirateschi per proprio conto, poteva, fosse solo per attirarsi le simpatie della nuova colonia, armare la sua flotta e lanciarla contro Sandokan. Tutti sapevano che quelli di Borneo erano gelosi di quelli di Mompracem che si erano fatti una sì formidabile nomea.
I due prahos presero arditamente la pericolosa via senza esitare. Sandokan, fatti ripulire i ponti, raggiustare gli attrezzi, tappare i fori delle bombe, fatto dispensare il pranzo del mezzodì, accese la pipa che somigliava a un narghilé turco e andò a sedersi sul medesimo cannone, dove il povero Ragno di Mare si era così generosamente sacrificato per lui.
Egli rimase mezz’ora senza dir parola, immobile, concentrato, assaporando la calma dopo la pugna, seguendo con occhio distratto le mosse del suo equipaggio che terminava di raggiustare le ultime gomene danneggiate dalla mitraglia. D’improvviso si scosse e piantando gli occhi su Patau, gli fe’ cenno d’avvicinarsi.
Una profonda ruga solcava l’ampia sua fronte e fumava con maggior furia di prima. Egli guardò per alcuni minuti e in silenzio il Malese, che non ardiva fiatare sospettando qualche rabbuffo.
– Dov’eri nel momento dell’abbordaggio? – chiese egli alfine con voce calma e grave ma che tradiva un lampo di collera.
– Al vostro fianco – rispose il Malese.
– Hai veduto cadere il Ragno di Mare? Pensa bene e parla meglio. Chi l’uccise?
Il Malese rabbrividì fino alla punta dei capelli e se fosse stato bianco sarebbe diventato pallido come un morto. Se si fosse trattato di precipitarsi all’abbordaggio dove la mitraglia mordeva e sibilava se ne sarebbe infischiato della paura, fosse pure stato sicuro di lasciarvi la pelle, ma dinanzi a Sandokan, cui bastava uno sguardo per inchiodare su due piedi i più ricalcitranti, egli sì, tremava.
– Ebbene? – domandò qualche istante dopo Sandokan senza abbandonare il suo posto, né la canna della gran pipa e senza nemmeno guardare in volto il Malese che tremava come avesse la febbre.
– Una palla di cannone – arrischiò Patau e dette indietro mentre l’equipaggio sogghignava contento che quel Malese del diavolo fosse stato innalzato fino a un grado così invidiato per essere precipitato chi sa dove da una sola parola del terribile padrone.
Non si amava a bordo Patau perché derubava silenziosamente i camerati valendosi della sua autorità, e senza che alcuno osasse farne parola al capitano. Si aveva paura di entrambi, ma ben differentemente.
Sandokan alla risposta del Malese aveva fatto un legger movimento, ma fu tutto. Egli continuò:
– Il tuo posto era accanto a me giacché non ti avevo affidato il timone. Quando noi giungeremo a Mompracem, ti farai fucilare! Vattene!
Non si poteva scherzare con un simile uomo, né arrischiare parola. Commettere una vigliaccheria a bordo sarebbe stato un far ruggire la Tigre. Il Malese senza batter ciglio, conservando quella fierezza in lui abituale, si allontanò come se si trattasse di un nonnulla. Sandokan lo richiamò.
– Potrebbe darsi che si avesse a incontrare l’incrociatore – diss’egli. – Mi occorre un uomo: tu puoi essere quello giacché ti ho spacciato per Mompracem; morire combattendo è un favore che io solo accordo ai coraggiosi. Alla prima cannonata, arresterai la palla col tuo petto.
– Grazie, capitano! – esclamò il Malese e contento della sentenza del suo formidabile capo, di cui nessuno avrebbe osato mettere in dubbio l’infallibilità, se ne andò al timone.
– Sabau! – gridò egli guardando sempre il mare e come parlasse a sé stesso.
Un altro Malese di bassa statura, ma di membra gagliarde, dalla faccia quadra anziché no, ossuta, dal naso schiacciato e grosso, dagli occhi piccoli ma brillanti, dalla bocca grande con le labbra grosse, la tinta fosca e vestito con un solo paio di corti calzoni rossi, si fece innanzi dondolandosi comicamente.
– Tu non sei stato il primo a saltare sul prahos dopo di me? – domandò Sandokan.
– Infatti, mi sono trovato sul ponte alle prese con uno di quei mascalzoni – rispose egli.
– Bene, quando la palla di cannone sfonderà il petto del tuo compatriota, subentrerai nel comando.
La giustizia era finita per quell’uomo singolare che si faceva chiamare la Tigre. Egli abbandonò il cannone, diede uno sguardo alle due grandi vele gonfie sotto il vento dell’ovest, un altro all’altro prahos che seguiva la via del primo rigorosamente dritta e si mise a passeggiare da prua a poppa colla fronte serena ed un sorriso bonario.
Durante la giornata i due legni pirateschi continuarono a veleggiare in quella parte di mare compresa fra Mompracem e le Romades all’ovest, la costa di Borneo all’est e nord-est, e Labuan colle Tre Isole al nord, senza trovare il minimo impaccio e senza scorgere alcuna di quelle vele che di solito si mostrano sì numerose in quei paraggi, recandosi o partendo dalla capitale del regno di Varauni.
Già da parecchi anni la fama di Sandokan si era sparsa su quei ristretti mari, e solamente i grossi vascelli con numerosi equipaggi o prahos armati da guerra arrischiavano la traversata diretta. I più si tenevano sotto la costa, sicuri di poter sbarcare e di salvare almeno le vite se non il carico o approfittando di qualche giornata burrascosa o di qualche notte oscura per prendere il largo. Sandokan non ignorava più quelle astuzie, diventate ormai tanto vecchie da essere conosciute anche sulle spiaggie di Mompracem, e sarebbe bastato passare una notte in vista della costa per essere sicuri al mattino di far ritorno con un carico completo delle più preziose merci del paese, cosa che non mancava mai però di fare a rischio di cadere in un’imboscata, quando trattavasi di spedizioni di minerale giallo.
La notte cadde con quella rapidità che è propria delle regioni equatoriali dove il sole, anziché tramontare, si tuffa. Tutti i lumi vennero spenti a bordo dopo la cena, non amando essere scoperti e di vedere a loro agio, le vele in parte terzarolate per premunirsi dagli improvvisi colpi di vento che non mancano in quei capricciosi mari, e le sentinelle scelte fra gli uomini più intrepidi e dalla vista più acuta, che sapevano scorgere, per quanto le tenebre fossero fitte, una nave due miglia lontano. Alle otto i due equipaggi si ritirarono in massa e senza far rumore guadagnando le loro amache oscillanti, senza perdere tempo a spogliarsi delle poche vesti, pronti a prendere posto ai cannoni e ai moschetti al primo all’arme, la qual cosa non di rado avveniva, sia per respingere un attacco di qualche notturno leone che spingeva la sua audacia fino a irritare la Tigre, sia per piombare su qualche inoffensivo legno e rischiararlo a colpi di cannone.
Sandokan rimase sul ponte assieme agli uomini di guardia, assiso a poppa tenendo una delle ribolle, collo sguardo che balzava dalla bussola al mare, porgendo ascolto al lieve russar degli addormentati e al frangersi dell’onda sulla prua del legno. Si avrebbe detto che quell’uomo cercasse di raccogliere qualche rumore estraneo a quello del mare. Chi sa? un lontano colpo di cannone, che poteva tuonare in direzione di Mompracem, o che cercasse colla potenza del suo occhio da tigre di attirare la preda fuggente e di scoprirla; chi sa? forse il fumante cacciatore.
Gli uomini di guardia confusi fra gli attrezzi, seduti o ritti, parevano condividere i pensieri del loro capo. Gli occhi loro, che rilucevano come carboni nella profonda oscurità, balzavano dalle vele al mare scrutandolo nei più lontani orizzonti, cercando avidamente una preda sempre sospirata o un pericolo. Poco montava che si dovesse sfidare colpi di cannone e colpi di scure, con gran pericolo della pelle; bastava loro veder della preda, menar le mani insanguinate su cento e cento vittime, tuffarle in nuovo sangue, ubbriacarsi al fumo della polvere e veder morti e morti mutilati, guazzar sui bagnati ponti.
Ma nessuna vela si mostrava nel cerchio abbracciato da quei potenti occhi, fuorché le tenebre sovrastanti ai flutti color di inchiostro che rimuggivano sordamente come uscissero da un abisso e che venivano a cozzare sulla prua del prahos frangendovisi sopra e lasciando solo allor intravveder un leggero scintillio, che si cangiava sulla scia in un gorgogliamento luminoso perfettamente visibile in quella oscurità.
Alla mezzanotte il vento, sino allora debole, sembrò svegliarsi colla comparsa della luna, che faceva capolino fra le nubi. I due prahos parvero rialzarsi sotto quella nuova spinta e accelerarono la corsa verso l’est poggiando di qualche quarto al nord, dirigendosi verso le Tre Isole, che non dovevano esser gran fatto distanti. E invero poco dopo, rischiarate dalla luna, che tornava a mostrarsi in uno squarcio dei negri vapori, furono vedute tutte e tre benché vi sia fra loro una rispettabile distanza.
Parevano uscire dal mare come improvvisamente, di un color fosco, di una struttura più bizzarra che pittoresca in quell’ora, vere sentinelle avanzate di Labuan e di Borneo, che potrebbero far solida barriera alla baia di Varauni dalla quale non distano molto.
Sandokan appena che poté vederle abbandonò la ribolla a uno de’ suoi uomini e discese nella sua piccola cabina. La vista di quelle isole faceva quasi a lui credere di esser a Labuan che voleva dire lontano dal fumante incrociatore che alla mattina navigava presso le coste meridionali di Mompracem, e quindi libero da un improvviso attacco da parte sua che avrebbe potuto riuscire disastroso.
La cabina di Sandokan era ben ristretta a bordo di quel prahos; non mancava però di una certa eleganza non dissimile da quella della sua abitazione, e che non toglieva che vi dormisse a suo agio. Era un caos di piccoli mobili gli uni più graziosi degli altri, ma gli uni più avariati degli altri, un miscuglio di sete e di tappeti che l’ingombravano, che la soffocavano addirittura sotto le pesanti pieghe e in mezzo alle quali vedevansi armi mescolate a bottiglie e tazze con bombe.
Sandokan, senza levarsi un nulla del vestito, si stese in mezzo ai tappeti e non tardò ad addormentarsi come un uomo della sua tempra, cui un cuor di ferro soffoca le urla delle vittime cadute sotto l’acciaio dell’assassino e i cui occhi non vedono né le ombre né il sangue.
Tutta la notte i due prahos veleggiarono in pieno mare, sempre in vista delle Tre Isole, correndo bordate per la lenta raffica, che a poco a poco collo spuntar del giorno girava all’est. Ma per quanto il vento divenisse contrario non impediva che i due rapidi legni guadagnassero via, aiutati di tratto in tratto dai remi manovrati da robuste braccia che li avean conosciuti fin dalla più tenera età.
Al primo raggio di sole, che invase bruscamente il mare scacciandone la cupa tenebra, sette od otto miglia lontano fu veduta Labuan. Quasi nel medesimo istante Sandokan comparve sul ponte.
– Patau! – esclamò egli con quel tono che non ammetteva replica né ritardo per quanto minimi fossero.
Il Malese abbandonando il remo in un sol salto gli fu vicino, sempre col medesimo volto fra l’ilare e il furbesco, come un uomo che ha ormai dimenticato la palla di cannone.
– Comandante! – rispose egli facendosi innanzi francamente.
– La tua palla? – domandò Sandokan con strano sogghigno.
– È sul petto – rispose il Malese, – la prima che parte sarà mia.
– Bene, conosci tu una baia dove non si possa essere molestati da quei cani dell’Australia?
– La conosco.
– Bene, dirigi i prahos.
Ad un ordine del Malese i due legni da preda virarono di bordo dirigendosi verso il sud dell’isola.
Labuan è un lembo di terra che dista appena otto leghe da Borneo e che ha una circonferenza di circa venticinque miglia.
Si eleva a 24 metri sul livello del mare; semplici alture tengono luogo di catene di monti, numerosi corsi d’acqua tengono luogo di fiumi, ma i più durante la stagione calda lasciano il letto completamente asciutto. Ha però magnifiche foreste che potrebbero somministrare eccellenti legnami da costruzione, una graziosa vallata con pascoli al nord-est dove finisce in una tranquilla baia. Vedute pittoresche rendono piacevole il soggiorno su quel lembo di terra, che ogni giorno acquista più importanza grazie le scoperte di vene di carbon fossile che si trovano in gran numero, specialmente nelle vicinanze dei fiumi.
Gl’indigeni non sono numerosi e sono tanto stupidi, che illusi dalla presenza degli stranieri e da regali di due soldi, si sottomisero al velenoso giogo inglese che lentamente ma sicuramente andrà decimandoli per isbarazzarsi di esseri che potrebbero un giorno dar noia alla giovane colonia.
Fu nel 1846, 24 dicembre, che il capitano Rodney Mundy comparve pel primo a bordo dell’Iris e che ne prese bellamente possesso, dopo di avere spaventati i nativi facendo tuonare le sue artiglierie, come volesse mostrare a quegli esseri semplici la potenza del leopardo inglese. Ed essi, dopo le danze d’onore e una festa si sottomisero senza alzar una sola arma in difesa della terra natia.
Da quel tempo gli Inglesi vi avevano fondato la cittadella di Vittoria e si affrettavano a lanciare in mare vapori di ferro per reprimere la pirateria flagello di quei disgraziati mari. Sandokan non lo ignorava, no, ed era anzi per questo che voleva prendere terra nel fondo di qualche canale, di qualche seno al sicuro da improvvisi attacchi per poter poi agire a suo bell’agio.
I due prahos, dopo di aver fiancheggiato per breve tratto la costa coperta da fitti alberi, in mezzo ai quali torreggiava qualche tek, navigando lentamente e con estrema prudenza per non dar sospetto a qualche colono che battesse i dintorni, si cacciarono silenziosamente in un piccolo fiume, che alla foce avevasi scavato poco a poco un seno semi-nascosto da piante palustri.
Le âncore furono gettate con buona riuscita su di un fondo sabbioso, le vele ammainate senza far rumore come lo dovevano due visitatori che volevano mantenersi incogniti, e i prahos spinti verso la riva destra, nascondendoli del tutto sotto l’ombra dei grandi alberi e dei canneti, che fiancheggiavano una piccola palude di due o trecento metri di estensione. Un incrociatore che avesse battuto la costa, non sarebbe riuscito a scoprire quei due legni pirateschi che si tenevano imboscati come le tigri nel delta del Gange che spiano, sotto le grandi foglie acquatiche, la preda.
Sandokan e Patau sbarcarono, mentre che il restante dell’equipaggio rimaneva a bordo rigorosamente consegnato. Bisognava agire più che prudentemente per affrettare i piani del formidabile capo, che già contava non solo di veder la Perla, ma di mettere a ferro e fuoco se non tutta almeno una parte dell’isola.
Armati entrambi di carabine indiane e di scuri, i due pirati s’internarono senza dir verbo sotto la foresta, che lasciava qua e là qualche varco, tracciato talvolta dalla mano umana ma il più dalla naturale disposizione delle piante, che si rizzavano in mille guise differenti, ora ritte, ora inclinate e talvolta contorte come giganteschi serpenti.
Sandokan guidò il Malese per un duecento passi sotto la foresta, come conoscesse di già il cammino, poi si arrestò ai piedi di un durion colossale le cui frutta pericolose per le cadute che il più delle volte riescono mortali per l’incauto che vi passa sotto, si agitavano leggermente sotto uno stormo di tucani dal becco colossale, che parevano affaccendarsi nella costruzione dei loro strani nidi.
– Ascolta, Patau – diss’egli. – La vicinanza di nemici, che godono fama di possedere potenti navi e potenti congegni di distruzione, non ti nasconderò che mi inquieta per Mompracem, la mal difesa isola che non saprebbe resistere dinanzi ai loro cannoni, e che è d’uopo ci rimanga. L’intenzione di queste giacche rosse dacché si sono stabilite su questi malaugurati mari, è evidente che mira a portare un colpo fatale alla pirateria; fuggono la nostra presenza, ma spiano e cercano di tagliarci la ritirata invadendo i nostri selvaggi covi.
– Lo so – rispose il Malese. – Mompracem è troppo vicina a Labuan, offre troppe mire per quei ladri di terre, e un dì o l’altro non mi meraviglierei che una intera flotta si presentasse dinanzi al villaggio e cominciasse una danza infernale a suon di cannone.
– È ciò che vado pensando anch’io da vario tempo. Vedi, la presenza di questo incrociatore, che fuma silenziosamente su queste onde, non mi rassicura punto riguardo alle sue intenzioni che puzzano di polvere cento miglia lontano. È d’uopo che uno di noi, Mompracem o Labuan, abbia a cedere le armi al più forte. Spenta la pirateria, la Malesia sarà morta.
– Se io rimanessi in vita – disse Patau senza commuoversi, – agirei prontamente. La colonia va crescendo di giorno in giorno, grazie alla scoperta del carbone che attira maledettamente tutte le navi da guerra dei dintorni; oggi è un pugno di uomini che l’abitano, domani saranno due, da qua un anno cento. Le difficoltà allora saranno cento volte raddoppiate, le mosse difficili sotto l’occhio degli incrociatori e poco a poco la pirateria cadrà.
Sandokan rimase colle braccia incrociate a mirare il Malese, come per commentar le sue parole che trovava più che giuste, poi ripigliò la via senza smascherare l’audace progetto che lo rodeva.
Patau lo seguì, cacciandosi come il padrone sotto cespugli spinosi dove vi era pericolo di lasciarvi mezze vesti, tendendo l’orecchio per raccoglier ogni estraneo rumore e coll’occhio in guardia sulle piante vicine, dove poteva darsi che qualche tigre se ne stesse imboscata aspettando la preda al varco o che qualche serpe si dondolasse da qualche ramo pronto ad avviluppare il primo venuto e stritolarlo tra le vischiose anella con una di quelle strette cui non resistono forze umane. Per mezz’ora quei due uomini proseguirono il difficile cammino senza scambiare una sola parola, poi Sandokan tornò ad arrestarsi facendo cenno al compagno di tacersi. Aveva udito lontano un abbaiar di cani che sembravano seguire qualche pesta di selvaggina e che andavano rapidamente avvicinandosi, ed a cui talvolta univasi uno squillo di tromba.
– Vi sono degli uomini che cacciano – disse Sandokan dopo di avere ascoltato attentamente. – Si vede che questi dannati Inglesi non perdono tempo. Sono sicuro che cacciano le ultime tigri sfuggite alle armi degli indigeni; ovunque è distruzione dove passa l’avvelenato loro soffio.
– Ma dove andiamo ? – chiese Patau che non comprendeva lo scopo della passeggiata.
– Dove vuoi che andiamo, se non si va in cerca della Perla?
– Ma questi uomini? Io credo che mostrarci sia pericoloso.
– Potrebbe darsi, Patau. Ma a noi occorrono notizie per sapere dove si trova questa Perla e come vanno le faccende della colonia. Tiriamo innanzi. I due pirati, anziché battere prudentemente in ritirata, si riposero in cammino dirigendosi verso il luogo dove udivasi squillare la tromba e abbaiare i cani.
A poco a poco gli alberi poco prima strettamente uniti, cominciarono diradarsi dando luogo a praticelli e a radure cespugliose in mezzo alle quali s’innalzavano gran numero di piante di pepe, che avviticchiandosi ai rami degli arenga e degli artocarpus, formavano grandi reti vegetali e festoni ricadenti, dove garrivano leggiadri uccelletti e svolazzavano battaglioni di lucertole volanti.
I latrati dei cani si udivano allora tanto vicini che i due pirati, temendo essere scoperti, si nascosero dietro ad un aloé la base del cui tronco spariva fra gigantesche erbe.
Quasi subito apparve un indigeno in calzoncini bianchi, tenendo a guinzaglio un grosso mastino che ringhiava fiutando la terra.
– Ecco il mio uomo – disse Sandokan all’orecchio di Patau. – Non farti vedere, Malese mio; non all’armiamo questo stupido schiavo delle giacche rosse, questo schifoso rettile, questo miserabile più codardo di tutti i popoli della Malesia.
Gettò al Malese la carabina e si cacciò fra i cespugli circostanti senza far rumore e in maniera di abbordare il selvaggio di fronte. Alla sua improvvisa comparsa il bracconiere si arrestò tra il sospettoso e lo spaventato.
– Che vai cacciando, sulle mie terre? – domandò brutalmente Sandokan piantandosi dinanzi a lui e vibrando un potente calcio al mastino che gli abbaiava contro.
– La tigre – rispose l’indigeno.
– Chi è questo furfante che si permette di calpestare i miei campi?
– Lord Haawen.
– Ah! – fe’ Sandokan ghignando. – Una giacca rossa. La colonia comincia adunque ad avere certi signori che si permettono di cacciare sulle terre altrui?
– Non sono di loro le terre? Gli antichi padroni sono morti.
Sandokan tornò a sogghignare ma con quel sogghigno crudele che faceva rabbrividire e parve che volesse fulminare il selvaggio colla potenza dei suoi occhi.
– Ah! – esclamò il pirata. – Tu rimpiangi adunque l’istante in cui l’Iris si mostrò su queste coste e che i tuoi accolsero danzando?
– Forse.
Sandokan si passò la mano sulla fronte e stette per qualche istante in silenzio come pensasse. Poi guardando fisso fisso il selvaggio:
– Odimi bene, maledetto schiavo – gli disse. – Sai tu che la colonia fu condannata ad essere distrutta da un uomo potente, la cui sua comparsa basterebbe per incutere spavento?
– No, stenterei d’altronde a crederlo.
– Nemmeno se quest’uomo si chiamasse…
Egli s’arrestò bruscamente mordendosi le labbra.
– Chi?…
– Silenzio – disse il pirata ponendosi un dito sulle labbra. – Silenzio! Dimmi ora, hai mai udito parlare della Perla di Labuan?
– E chi, in Labuan, non ne avrebbe udito parlare?
– Chi è?
– Un genio benefico, che nulla ha di comune colle giubbe rosse.
– La conosci tu, questa Perla?
– Sì, l’ho veduta.
– Dove abita?
– A un miglio da questo luogo – rispose il selvaggio.
– Potrei vederla io?
– Sì, lo potreste.
– Indicami il modo.
– Basterà che vi nascondiate dietro qualche albero del parco. Tutte le mattine va a passeggiare al chiosco chinese.
Una vampa inesplicabile salì in volto al pirata. Trasse un pugno d’oro e lo diede al selvaggio che lo guardò istupidito.
– Grazie, amico – gli disse. – E ora va… va, e non volgerti più mai indietro.
Il selvaggio se ne andò correndo. Sandokan aspettò che fosse abbastanza lontano da non vederlo più, poi ritornò presso il Malese che lo aspettava impazientemente.
– Ebbene? – chiese Patau.
– Tutto va bene, tigrotto – rispose Sandokan. – Domani vedremo la Perla.
– E le giacche rosse?
– Sono più forti di prima.
– Ah! – esclamò il Malese sospirando. – I bei giorni sono finiti.
– Crederesti tu che la Tigre avesse paura? Cento leoni sarebbero pochi per incatenare la gran Tigre. Ritorniamo, Malese.
Sandokan raccolse la carabina e si diresse verso la costa seguito da Patau. Non avevano ancor percorso cento metri, che un colpo di cannone rombò verso l’alto mare.
La Tigre della Malesia cacciò fuori un ruggito come di belva ferita, poi precipitossi verso la foresta agitando come un forsennato la carabina.
– Vieni, Patau! Vieni! – gridò egli, facendo salti da tigre. – Vedo del sangue!
I due pirati in cinque minuti attraversarono il lembo della foresta e giunsero al fiumicello. Nel medesimo tempo un secondo colpo di cannone rombò sul mare, e in mezzo a un denso fumo che volteggiava nell’aria assieme a scintille, fu veduto il fumante incrociatore che moveva a tutto vapore verso la costa, sbarrando la ritirata ai legni da preda!