Kitabı oku: «La tigre della Malesia», sayfa 5
CAPITOLO V. Il ferito
La notte, come aveva predetto Sandokan, era più oscura della bocca di un forno spento. Non si vedeva a venti passi lontano, tanto erano fitte le tenebre che parevano scese appositamente a favorire la fuga del prahos.
Non luna in cielo, non stelle che si riflettessero sulle acque, non quel chiarore che proiettano le nubi quando l’astro delle notti risplende sopra di esse. Appena appena si distinguevano i tronchi d’albero della foresta lontana al più dieci metri sulle due rive. Confusi gli uni cogli altri, curvi o raddrizzati, messi là come tanti muti spettatori, formavano colla massa del cupo fogliame una oscurità ancor più densa, in mezzo alla quale il prahos scivolava silenziosamente seguendo il filo dell’acqua.
I soli rumori che si udissero erano i lievi cigolii dei timoni giranti sui cardini, il tremolar delle alte frondi appena, appena agitate da un soffio profumato dell’est, il gorgoglio dell’acqua che si frangeva dolcemente sulle sponde, il grido rauco degli animali notturni vaganti sotto le foreste in cerca di preda e il respiro degli uomini che se ne stavano sdraiati sulle tavole del ponte, coll’occhio fisso verso il mare, l’orecchio attento per raccogliere i minimi rumori del largo e le mani raggrinzate anziché tese sulle armi, che avevano finito di scintillare dopo l’ultimo lume spento a bordo.
Il prahos scendeva la corrente lentamente, ma tanto da bastare per guadagnare in meno di cinque minuti il mare e per non far il minimo rumore che potesse svelar la silenziosa fuga. Si teneva sulla riva destra, rasentando colle cime degli alberi le frondi sporgenti della foresta.
Sandokan e Sabau, entrambi ai timoni, confusi fra tre o quattro tronchi d’albero che servivano di difesa a quel punto sì importante, rattenendo il respiro, guidavano la silenziosa navicella con mille precauzioni, cogli occhi dilatati come cercassero una preda nascosta fra i giunchi della riva.
Il prahos che continuava a scendere, d’un tratto si arrestò, dopo un breve strofinio. Sandokan, indovinando che l’ostacolo non poteva essere che una secca, non batté ciglio.
– Arrestati? – domandò Sabau, con un fil di voce. – V’è il nemico alla foce?
– Non è nulla; lascieremo subito la secca – rispose Sandokan.
L’equipaggio, quantunque ignorasse la causa, non si mosse. Solo si udì che armavano le carabine, mentre gli uomini di prua, camminando come fantasmi, si curvavano sul cannone di già bell’e carico.
– La marea monta – disse Sandokan dopo qualche minuto di silenzio occupato a osservare le acque.
– Il tempo passa. Non si potrebbe por mano ai remi? – mormorò il Malese.
– È inutile, il rumore è pericoloso nel luogo ove ci troviamo. Non vedi tu nulla sulla sponda opposta?
– Nulla, fuorché la massa nera della foresta. Il nemico non sospetta di nulla.
– Bene, aspettiamo!… – E Sandokan senza dire una sillaba di più, aspettò che la marea montasse.
Passò un quarto d’ora, poi si udirono dei fremiti a prua, qualche scricchiolio sotto la chiglia, poi il prahos, sempre in silenzio, tornò a galleggiare. A una parola gettata sottovoce da Sandokan agli uomini della manovra, una piccola vela dipinta a nero come le tenebre, un fiocco, fu spiegato sul bompresso. Il legno filando appena qualche miglio all’ora, superata la barra delle scogliere e gl’isolotti di sabbia visibili sol per l’onda che ci gorgogliava attorno, uscì tacitamente in pieno mare.
– Il vascello? – domandò Sandokan, cacciando la barra un po’ all’orza.
– Eccolo laggiù, a mezzo miglio sopravvento. Dorme all’âncora – mormorò Sabau.
– Ah, il furfante ha preso il largo adunque? Bene, peggio per lui; il campo sarà più vasto.
Il legno da guerra aveva cautamente frapposto più di mezzo miglio fra sé ed i pirati, pei quali pareva avere le sue paure, quantunque li avesse completamente fiaccati. Dormiva all’âncora ma non del tutto; i fanali di posizione brillavano al loro posto e dalla ciminiera usciva qualche scintilla, che andava perdendosi fra l’alberatura seminascosta in un pennacchio di fumo appena visibile. Vi era da credere che la fuga riuscisse.
Il campo era vasto; si poteva scendere al sud, o salire per qualche miglio al nord, e per quanto i cannocchiali da notte fossero puntati, si poteva sfuggire alle indagini e anche a un inseguimento.
– Tutto va bene – mormorò Sandokan sogghignando. – Il diavolo è con noi, come direbbe il mio buon fratello Portoghese. Saremo a Mompracem ancor prima che il miserabile se ne accorga.
– Si può gettare da un lato la prudenza? – domandò il Malese che si rodeva dall’impazienza.
– Oibò! Coprirsi di vele potrebbe essere pericoloso. Il bianco col nero contrasta.
Il vento era debole, ma il mare perfettamente tranquillo e oscuro come fosse un mare d’inchiostro; il prahos sotto la sua piccola vela, si mise a filare direttamente all’ovest, tenendosi un mezzo miglio al sud dal vascello, la cui macchina brontolava.
Pareva che tutto dovesse andare a meraviglia, grazie l’audace manovra del corsaro e l’imprudenza del nemico che nel momento in cui si doveva maggiormente vegliare, abbandonava il posto. La distanza fra Labuan e Mompracem non è molta, tutta riducendosi a 60 miglia, che con vento e con remi manovrati dalle braccia di ferro dei fuggiaschi, dovevansi fare in una notte o poco più. Si poteva al mattino trovarsi in vista della costa amica, che equivaleva alla completa riuscita; che montava se l’incrociatore dava la caccia alle spalle?
Al primo colpo di cannone tutti i pirati di Mompracem sarebbero usciti sui loro prahos in mare e per quanto filasse il piroscafo e facesse ruggire le bocche dei cannoni, non avrebbe certamente potuto sfuggire a quel formidabile assalto dei più arditi pirati dell’intera Malesia.
Sandokan, sempre al timone accanto a Sabau, misurava la distanza che lo separava dall’incrociatore visibile solo pei suoi fanali di posizione e per la sua mole. Contava metro per metro, cercava di poter scorgere ciò che succedeva sul legno nemico, fremeva d’impazienza e di collera, e allontanandosi ruggiva in cuor suo di dover abbandonare quella preda colossale. Quel singolar uomo quasi quasi dolevasi di fuggirsene così silenziosamente come un ladro notturno. Avrebbe desiderato qualche colpo di cannone, un abbordaggio e infine una pugna corpo a corpo, una vendetta soddisfatta, quando avesse pur da ricevere una scheggia di mitraglia attraverso il corpo. In quei momenti, egli credeva di essere tanto forte da poter distruggere da solo quell’equipaggio sei volte più numeroso e i suoi uomini dividevano i medesimi pareri. Un all’arme non sarebbe stato accolto che con un urlo di gioia.
Il prahos a poco a poco sotto nuovi soffi di vento, che spiravano dalla costa, accelerò sensibilmente la corsa lasciandosi dietro una scia che talvolta scintillava quasi da credere alla vicinanza di un lembo di mare fosforescente. Sabau notò quel scintillio che poteva attirare l’attenzione degli uomini di guardia del piroscafo e sorridendo, anziché spaventarsi, ne fece osservazione a Sandokan.
– Vedete voi la scia che diventa talvolta luminosa? – mormorò il Malese.
– La vedo, Sabau – rispose Sandokan. – La fosforescenza fra poco crescerà.
– Navigheremo come in un mare illuminato. La fortuna non è con noi, ma forse è un vantaggio.
Sandokan sorrise e guardò a poppa. Attorno al timone parevano scaturire vivide scintille e la scia prima biancheggiante diventava raggiante come se una luna splendesse sotto i flutti d’inchiostro. A prua, l’acqua che spumeggiava prendeva la medesima tinta, visibile fra quella oscurità profonda a due o tre miglia distante. Fra i pirati distesi sul ponte si udì un lieve mormorio, qualche bestemmia, qualche sogghigno, e tutti gli occhi si volsero al legno da guerra sempre addormentato sulle sue âncore e lontano già quasi un miglio.
– Dormono adunque? – mormorò Sandokan tormentando la ribolla del timone.
Il prahos continuò a filare sotto il suo piccolo fiocco, smuovendo i flutti che si facevano ognor più fosforescenti sotto le migliaia e migliaia di uova di pesci. Aveva già percorso una quarantina di metri senza che alcun segnalasse quell’insolito chiarore, quando un grido formidabile, un richiamo risuonò dal mare. I pirati si levarono come un sol uomo colle armi in pugno.
– All’armi! All’armi! – aveva gridato una voce che il vento aveva portato fino al prahos.
– Sangue di Satana, siamo scoperti! – esclamò un pirata di colossale statura, i cui occhi brillavano come quelli di un gatto fra la profonda tenebrìa.
– Tanto meglio! – esclamò Sabau, alzando la scimitarra.
Il prahos si arrestò.
I flutti appena appena agitati tornarono diventare oscuri e la scia scomparve.
Il grido era partito dal legno da guerra, non vi era dubbio. Per quanto la smania di avventarsi sul nemico ardesse nel petto di Sandokan, egli cercò di rendere invisibile il suo legno troppo lontano dall’incrociatore per venire a un abbordaggio e troppo debole di artiglierie per ingaggiare un terribile duello.
– Non movetevi! – comandò egli con quel tono di voce che non ammetteva replica.
La medesima voce di prima, che il vento portava, si fece udire al largo:
– All’armi! All’armi!…
Tra il silenzio generale appena rotto dalle ondulazioni del prahos e dalla brezza che fischiava debolmente tra le manovre, si udì il rullo del tamburo risuonare sul legno nemico. Si batteva la carica.
I pirati non si mossero, decisi, come erano sempre, a tutto, pronti a sfidare una nuova tempesta di ferro e ad arrampicarsi sui fianchi del legno nemico. Sandokan era con loro; bastava.
Il tamburo continuava a rullare. Un istante dopo, malgrado la lontananza, s’udirono le catene che si torcevano nelle cubie e i colpi secchi dell’argano. Si salpavano le âncore, la battaglia era sicura.
– Al tuo pezzo Sabau! – disse brevemente Sandokan. – Quattro uomini con lui!
Si ubbidì sempre nel più profondo silenzio. Nel medesimo istante una fiamma lampeggiò sul ponte del piroscafo, seguita da una forte detonazione. L’acqua rimbalzò fino a poppa del prahos.
– I proiettili piovono – mormorò Sandokan. – Bene, tanto peggio per lui!
Un fumo rossastro sfuggiva a gran volute dalla ciminiera. Si udirono le ruote rimordere le acque spumeggianti, e si videro i fanali cangiar posizione.
Il piroscafo fu visto avanzare a tutto vapore sul prahos che sempre immobile nelle acque fosforescenti, attendeva impassibile lo scontro.
– Ai remi, voi! – comandò Sandokan nel momento che una seconda detonazione scoppiava al largo e che una nuova palla faceva saltar l’acqua a prua.
Il prahos virò immediatamente di bordo, descrivendo un semi cerchio colla prua volta al vascello nemico, che correva alla carica, coll’evidente intenzione di colarlo a fondo. La fuga non poteva ormai più tentarsi con un sì rapido camminatore, la ritirata su Labuan nemmeno sotto il fuoco schiacciante di un nemico sì potente in fatto di artiglierie. Il meglio era di incontrarlo evitando un urto, abbordarlo a babordo o a tribordo secondo i casi, arrampicarsi sul ponte e intavolare una pugna disperata. Uno dei due dovea scomparire. Tanto meglio: vi sarebbe stato più sangue e più cadaveri!
Entrambi si scorgevano: l’uno pei suoi fanali, l’altro per la scia fosforescente. Entrambi si udivano: l’uno per il sospirar della macchina ansante, l’altro pel battere dei remi. Il fuoco, palla e scaglia, s’incominciò con egual furia, per ischiacciarsi a vicenda prima dell’urto.
– Orsù, Sabau, la partita non è eguale, ma siamo sempre noi i pirati di Mompracem. Fa adunque ruggire il tuo pezzo e frangimi una di quelle ruote che mordono le acque – comandò Sandokan.
Il prahos volava ratto ratto, incontro al legno da guerra che arrivava a tutto vapore, mostrando la prua tagliata quasi ad angolo retto, come uno sperone affilato. Sabau cominciò col suo pezzo la musica infernale, protetto dietro la barricata mirando i fianchi del colossale nemico, che rispondeva a tratti, tempestando, ruggendo, infiammandosi, rompendo le tenebre e il silenzio per ogni dove.
In meno di cinque minuti il disgraziato legno che aveva un bel da fare a rispondere, fu demattato sotto un fuoco di dieci o dodici bocche che scagliavano palle e mitraglia. Il ferro strideva sulle tavole del ponte, sui fianchi, sulla barricata e fra gli attrezzi frantumati. Ruggiva, saltava, lacerava, spezzava, turbinava; ai fori aggiungeva strappi, alle avarie aggiungeva avarie.
Il cannone fu smontato, Sabau fulminato accanto al suo pezzo, la barricata sfondata, il timone infranto, e i remi furono schiantati assieme alle murate e ai banchi. L’acqua cominciò a penetrare nella stiva; i remiganti abbandonando i feriti bestemmianti e dibattentisi fra il liquido elemento che li affogava, salirono sul ponte cosparso di rottami disperdendosi dietro le barricate, cercando sostenersi con un inefficace fuoco di moschetteria. In meno di cinque minuti un terzo erano stati sventrati dall’uragano di ferro.
Sandokan solo, cui pareva un genio infernale miracolosamente proteggesse, rimaneva impassibile fra quel turbinio di mitraglia che sdrusciva il legno affondante. In piedi a poppa, con un remo in mano e la scimitarra fra le labbra, gettava di quando in quando una specie di ruggito soffocato come la tigre della Malesia che si vede presa dai cacciatori.
La partita era perduta; impossibile resistere a quel vulcano irrompente senza un pezzo d’artiglieria. Non restava che morire, ma morire onoratamente sul ponte del nemico dopo di aver venduta ben cara la vita. Dodici soli uomini ancor rimanevano sul ponte frantumato del prahos che coi fianchi aperti se ne andava a picco, ma dodici uomini assetati di sangue, guidati da un capo il cui valore era popolare in quei mari, e che valevano ancora i quaranta partiti da Mompracem.
– A me, miei pirati! – esclamò Sandokan, fino allora rimasto muto.
I dodici combattenti cogli occhi stravolti, i pugni chiusi come tenaglie attorno alle armi, facendosi scudo coi cadaveri dei compagni lo raggiunsero a poppa dove manovrava ancora al remo. Tre o quattro feriti che bestemmiavano sotto i rottami, vomitando torrenti di sangue a ogni scossa, si sforzarono di ubbidire ancora alla voce del capo; essi caddero ai piedi dei rimasti urlando come tigri.
– All’abbordaggio! Vendetta! Vendetta!
– Ah! cane di un nemico! – esclamò un Daiasso, mentre una palla gli troncava una mano.
Il piroscafo avventando fiancate sopra fiancate sul prahos sdruscito che non avea più l’apparenza di un legno, era allora a soli venti metri da poppa e proseguiva la corsa per affondarlo col suo sperone. Sandokan si aggrappò al remo con ambe le mani.
– Lancia un grappino! – esclamò egli virando di poppa per evitare l’urto. Il piroscafo era a pochi passi distanti e cercava alla sua volta di virare spazzando il mare a tribordo; le sue onde giungevano fino al prahos che rollava penosamente, e sul ponte del quale i pirati moschettavano i marinai delle artiglierie per nascondere l’audace manovra.
Di repente avvenne un cozzo sul babordo seguito da uno scricchiolio sinistro; il prahos si piegò a tribordo imbarcando le prime onde che si precipitarono fischiando nei boccaporti.
– Lancia! Lancia! – urlò Sandokan abbandonando il remo ed afferrando la scimitarra.
Il grappino giunse fino ai pennoni del trinchetto e vi si infisse fra le gomene. Il prahos che affondava virò di bordo seguendo il piroscafo che accelerava la via. Sandokan si aggrappò come una scimia alla gomena.
– A bordo! A bordo! – urlò egli cercando dominare colla voce il crepitar della moschetteria.
Quel comando bastò. I pirati aiutandosi a vicenda, aggrappandosi su per gli sportelli delle batterie, giungono alle murate e si scagliano sul ponte come una banda di affamati lupi, ancor prima che il nemico abbia a respingere l’audace invasione.
– Ammazza! Ammazza! – urlò Sandokan precipitandosi fra i combattenti.
I primi che si parano dinanzi cadono sotto i suoi colpi ed i suoi uomini lo seguono seminando la via di cadaveri. Si scagliano sui cannoni massacrando gli artiglieri, urlano, si dimenano, tempestano colpi a diritta e a manca valendosi dell’oscurità per accrescere la confusione, poi simili a tigri, sbaragliati gli uomini di prua, si gettano sul ponte a testa bassa.
– Ammazza! Ammazza! – urlava Sandokan agitando la scimitarra insanguinata fino all’elsa.
Il tamburo batteva la carica. L’equipaggio dell’incrociatore, sbandato e smarrito per un istante, si era raccozzato a poppa attorno ai comandanti e si precipitava innanzi caricando alla baionetta mentre la moschetteria degli uomini installati sulle coffe cominciava a mordere sibilando fra gli attrezzi. Non vi era né da arrestarsi né da dare indietro. I pirati ridotti a nove, ma diventati nove leoni, si gettano coraggiosamente sulla punta delle baionette e intavolano a mezzo ponte una lotta micidiale, cercando sfondare quella muraglia umana per giungere alla Santa Barbara e far saltare con essi la nave.
Sono uno contro dieci, ma in quel momento non si contano. Avventano colpi disperati, troncano braccia e aprono teste, urlano per ispargere maggior terrore nelle file nemiche, cadono, indietreggiano, si avanzano come le onde del mare, si aggrappano ai combattenti dilaniandoli coi denti e colle unghie, facendosi scudo coi corpi dei cadaveri; perdono le armi infrante ma strappano quelle dei nemici incalzanti e ricominciano l’omerica lotta fra i gemiti dei feriti.
Il valore doveva cedere al numero. Moschettati sopra, sciabolati a tergo, ributtati dinanzi, avviluppati da un nemico dieci volte meglio armato e che diventava ognor più numeroso, muoiono vendendo cara la vita, ma muoiono. Sei uomini cadono trafitti in meno di venti secondi.
Sandokan e gli altri, coperti di ferite colle scimitarre in pugno sono costretti a retrocedere dinanzi quella barriera irta di armi; facendosi strada fra i moribondi, si precipitano a prua tentando con uno sforzo disperato d’arrestare quella valanga di gente col cannone.
A mezza via Sandokan rotola sul ponte insanguinato con una palla nel petto. Gettò un ruggito di dolore. I suoi uomini gli si stringono d’attorno.
– Ammazza! Ammazza! – urlò ancora il ferito e sollevandosi con uno sforzo disperato si preparò a far testa al nemico che correva all’assalto colla baionetta.
L’urto fu terribile. I tre pirati, che si erano gettati dinanzi al loro capo facendo scudo coi loro corpi, caddero fulminati. Ma non così avvenne della Tigre della Malesia miracolosamente salvata dai suoi prodi.
Il formidabile uomo gettando il suo urlo di guerra spaccò la testa al primo uomo che gli si parò dinanzi, poi gettando da un lato l’arma seminfranta, abbrancando un marinaio e sollevandolo con forza erculea malgrado la ferita che mandava fiotti di sangue, si avventò contro una delle murate. Frantumare la testa del poveretto con una terribile stretta, scavalcare le murate e precipitarsi in mare prima che le baionette l’avessero toccato, fu per lui l’affare di un lampo.
Ma un tale uomo, dotato di una energia sovrumana e del coraggio della tigre, quantunque ferito e spossato, non doveva sì facilmente morire.
Mentre il piroscafo proseguiva la sua via trasportato dalle ultime battute delle ruote egli con un colpo di tallone risalì silenziosamente a galla, e rattenendo con ferrea volontà i gemiti che gli strappava la ferita al contatto dell’elemento corrosivo, si mise a nuotare come un pesce verso l’est senza lasciare traccie, senza destar attenzioni e con tutta la velocità di cui era capace un marinaio come lui. Il legno da guerra virava allora trecento passi lontano. Esso si avanzò descrivendo un gran cerchio attorno al luogo ove si era inabissato il pirata, coll’intenzione di tagliarlo in due collo sperone. Non bisognava lasciar vivere uno di quegli uomini di una razza maledetta, che durante dodici ore di una lotta sanguinosa aveva tenuto in scacco uno dei più valorosi legni della marina inglese.
Ma Sandokan, se il legno lo cercava attivamente, egli era ben deciso di sfuggire, di tutto tentare per guadagnar la costa che non doveva essere gran fatto lontana e meditar di là una strepitosa vendetta. Egli si era arrestato immerso per quattro quinti, protetto dall’oscurità, rannicchiato quasi su sé stesso nel liquido elemento a lui tanto famigliare senza gettare un sospiro, senza fare un gesto, senza movere occhio. Galleggiava come un rottame abbandonato pel quale si poteva prenderlo se fosse stato scorto.
Il piroscafo compì il suo giro mordendo le acque, poi si arrestò come cercasse indagare quei flutti da lui agitati e ripigliò le ricerche tagliando quello spazio in mille guise, virando da babordo a tribordo colla speranza di incontrare il nuotatore, e di lacerarlo o di stritolarlo sotto le ruote.
L’equipaggio intero fornito di fanali era sparso sulle murate, sulle griselle o calumato fino alle patte delle âncore per cercare di scoprirlo. Ma la manovra non riuscì benché lo sperone e le ruote passassero a pochi piedi da Sandokan sempre immobile e qualche palla tirata a casaccio facesse rimbalzar l’acqua a pochi pollici dal suo capo.
Dieci minuti dopo il piroscafo, sicuro che il pirata erasi annegato o era caduto sotto il dente di qualche pesce-cane, si allontanava a tutta forza della sua macchina dirigendosi verso il nord, lasciandosi dietro una scia fosforescente, gorgogliante, in mezzo alla quale ondulava qualche cadavere.
Sandokan, appena fu sicuro che la distanza e il fragor delle ruote soffocavano più che sufficientemente il rumor dell’onda tagliata dalle sue braccia, dopo di aver passato la cintola sulla ferita per arrestare l’emorragia e d’averla bene stretta, ricominciò a nuotare con tutte le forze che ancor rimanevano nel suo corpo impoverito di sangue. Egli non gemeva ad onta degli atroci dolori che soffriva ma si mordeva le labbra con una specie di furore, alternando fra una battuta e l’altra una bestemmia, un giuramento, comprimendo colle dita la cintola stretta sulle labbra della ferita dalle quali usciva un filo di sangue che si mesceva coi flutti d’inchiostro. Tutta la sua ira, tutta la sua vendetta era là, su quel piroscafo che dopo averlo battuto fuggiva, su quel piroscafo che lo aveva sconfitto per la prima volta in vita sua, su quell’incrociatore che scorrazzava quei mari non suoi, su quel fantasma potente quanto terribile che avea fatto mordere la polvere alla Tigre della Malesia.
Lottando disperatamente fra le acque sfinito per la perdita del sangue, quell’uomo aveva dei momenti in cui sfuggendo la costa si metteva insensatamente a inseguire il piroscafo che a poco a poco impiccioliva scomparendo fra le tenebre, lo chiamava, bestemmiava, lo sfidava, alzando le mani raggrinzate, frementi, strette come attorno l’impugnatura di un’arma immaginaria, scagliandogli contro mille insulti, mille minacce. Oh! allora sì pareva dar ragione a quel nome di Tigre della Malesia, e come nella pugna digrignava i denti, gli occhi mandavano lampi, e lanciava quel sordo mugolio che lo rassomigliava alla tigre.
Ma a poco a poco quei deliri, quella collera insensata sparvero, sfumarono, e il formidabile pirata richiamato alla realtà ripigliò il faticoso esercizio, cercando la costa avvolta fra fitte tenebre che non permettevano ancora di scorgerla rimandando in cuor suo quella vendetta, che per lui era la vita.
Nuotò così parecchio tempo, soffermandosi tratto tratto per ripigliar fiato e per istrapparsi di dosso le vesti onde acquistare maggior libertà nelle mosse, poi cominciò sentirsi spossato. Rallentava le mosse, sentivasi irrigidire le estremità dei piedi e delle mani, e la ferita strappavagli lugubri gemiti. Pure non era uomo da cedere sì facilmente. Voleva vivere per potersi vendicare, per potere un giorno schiacciare alla sua volta il maledetto che lo aveva battuto. Con una mano raggrinzata sulla ferita, facendo sforzi sovrumani, continuò a tirar innanzi deciso a guadagnare le coste di Labuan.
– È d’uopo che viva! – andava esclamando egli ferocemente fra una battuta e l’altra dei piedi. – Bisogna che io vendichi i miei prodi! Bisogna che ritorni io il padrone del mare. Dove sono queste maledette coste di Labuan? Ah! Perla, quanto mi sei costata! Eppur ti voglio vedere!
Egli così parlando si animava, mordeva la spume, tendeva i pugni battendoli quasi con furore su quei flutti che egli diceva suoi, quasi volesse far comprendere a loro che egli era il padrone. Si arrestò per la ventesima volta affranto da quegli sforzi erculei, ansante, coll’occhio stravolto, cercando l’isola e coll’orecchio teso per accogliere il fragore della risacca che ne segnalasse la vicinanza.
Si aggomitolò su sé stesso, gettando rauchi gemiti lasciandosi portare dal flusso che lo spingeva verso la costa. Le membra si irrigidivano per la perdita del sangue e per la spossatezza, il respiro diventava affannoso, gli occhi si velavano sotto ombre sanguinose e mille rumori gli risuonavano nelle orecchie, mille urli disperati, mille chiamate a cui parevano unirsi ruggir di bronzi e detonazioni di moschetti, che la febbre mille volte raddoppiava.
Il pirata, che vedeva consumarsi quella energia sovrumana che lo sosteneva anche nei più terribili frangenti, rimase là immobile per cinque minuti semi-svenuto, delirante, porgendo orecchio a quelle credute grida che gli parevano dei compagni, poi rompendo quella immobilità che a poco a poco lo perdeva, stese le braccia irrigidite riprendendo, con quella potente volontà in lui abituale, il penoso cammino in mezzo a quei flutti sempre più neri e nella più profonda oscurità.
Percorse ancora venti passi, poi avvenne fra lui e un oggetto non ancora definibile un urto. Credette in sulla prima di aver da fare con qualche pescecane, e si tuffò cercando fra le vesti lacerate il suo kriss dalla lama serpeggiante ancora infisso nella larga cintola e l’afferrò con moto convulso.
– Ancora un nemico adunque! – pensò egli con collera concentrata. Ricomparve alla superficie; avvenne un nuovo urto, allungò le braccia e afferrò un rottame che galleggiava in balia dei flutti. Pareva fosse un pezzo di ponte, senza dubbio di uno dei due prahos, e che poteva offrire un valido aiuto alle esauste sue forze. Vi si aggrappò disperatamente uscendo a metà dalle acque e scoprendo la ferita dalla quale usciva ancora qualche goccia di sangue dalle labbra rigonfie.
Per due ore, quell’uomo che non voleva morire, pericolosamente ferito, lottò contro il sonno e lo svenimento che lo assalivano, sempre a metà immerso, aggrappato al rottame che lo traeva insensibilmente alla costa. Furono due ore di patimento indescrivibile, due ore che parevano due secoli, poi cadde sfinito sul rottame lasciandosi trasportare dal flusso, credendo talvolta di udire il fragor della risacca o le grida di naviganti o lo sbatter di remi o i tuffi dei pesci-cani.
Alle tre del mattino avvenne un cozzo che il fece tornare in sé. Tese le braccia, allungò le gambe raggrinzate ed irrigidite e gettò uno sguardo all’intorno mentre un fragore insolito rimuggiva attorno. Era a poche braccia dalla costa dove il flusso ve l’aveva tratto. Abbandonò il rottame e traballando come un ubbriaco sui banchi di sabbia, dopo di aver lottato venti volte colla risacca che lo rispingeva, guadagnò con mille stenti una riva bassa, sabbiosa, coronata di fitte foreste dove cadde affranto in mezzo alle alghe.