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Kitabı oku: «La tigre della Malesia», sayfa 7

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CAPITOLO VII. La Perla di Labuan

All’indomani, dopo la corsa insensata della notte, quando tornò in sé, era chiaro. Il sole, appena appena sorto, illuminava la prateria, i lontani alberi della foresta, il ruscello, lo stagno, l’abitazione intravveduta la sera precedente e di più una mezza dozzina di uomini che curvi su di lui spiavano ansiosamente ogni suo movimento. Egli si stropicciò gli occhi e fece un gesto per fuggire.

– Povero uomo! – esclamò una voce commossa, che, quantunque parlasse la lingua delle giacche rosse, non aveva quell’accento secco e imperioso che il pirata solea credere.

Egli si scosse tutto. Credette di essere in preda a un sogno, tornò a stropicciarsi gli occhi, poi esaminò a uno a uno quegli uomini sempre curvi su di lui, che parevano interessarsi del suo stato.

Cinque erano indigeni dai volti stupidi e insignificanti, il sesto un bianco. Se l’occhio non s’ingannava, pareva avesse una cinquantina d’anni. Alto, ben fatto, ma con quella rigidezza che è il distintivo particolare della razza anglo-sassone, poteva essere ancora un bell’uomo ad onta dell’età. Un volto simpatico, aperto, benché incorniciato da capelli rossi, occhi intelligenti, due mani aristocratiche anzi che no e delle braccia che dovevano esser dotate di una forza non comune. Vestiva semplicemente: un gran cappello bianco sul capo – una cupola circondata da un velo – una giacca di stoffa azzurra, pantaloni di pelle e lunghi stivali a risvolta completavano l’abbigliamento. Non vi era da ingannarsi sulla sua origine. Sandokan lo riconobbe per una giacca rossa, pure non tentò di fuggire. Comprendeva che una nuova fuga, un giorno ancora passato nelle foreste, avrebbe causato infallibilmente la morte. Era un Inglese che lo raccoglieva, meglio; il gioco non sarebbe riuscito più ridicolo. Un Inglese curare Sandokan, la Tigre della Malesia! Vi era ben da ridere; la storiella raccontata a Mompracem avrebbe senza dubbio furoreggiato.

D’altronde, quell’individuo pareva un galantuomo. Lo avrebbe curato e nulla di più, come si cura un ferito trovato sulla via. Non lo conosceva, nessuno sapeva che egli avea approdato a quelle coste in seguito a una moschettata e ad una tremenda rotta. Le risorse non mancavano per farsi credere un onesto marinaio, caduto sotto il piombo dei pirati di Mompracem. Tuttavia, per ingannar meglio il valentuomo, cercò di rizzarsi come per fuggire.

– Povero uomo! – ripeté la medesima voce. – Non movetevi, siamo amici. Verrete meco!

– Lasciatemi! Lasciatemi! – esclamò Sandokan. – Non ho nulla… più nulla da darvi.

– Al diavolo! Non siamo già pirati noi da derubarvi. Vi sembra che ne abbia il volto adunque? – disse l’Inglese sorridendo. – Orsù, calmatevi, nessuno vi torcerà un capello.

Sandokan lo guardò mezzo diffidente e con l’occhio torvo, quasi volesse leggere nell’animo di quell’uomo.

– Non siete dunque pirati, voi? – chiese egli con accento sì ingenuo da convincere un dayak stesso.

– Non ve lo dissi? Andiamo, povero uomo, rimanendo all’aperto morrete. Io vi curerò.

Sandokan, malgrado cercasse esser calmo, trasalì e strinse le pugna. Si avrebbe detto che fosse li li per ripigliar la fuga attraverso le foreste malgrado la ferita, ma si arrestò e chiuse gli occhi per nulla vedere, soffocando l’ira che gli saliva alla gola.

– Dovete soffrire molto, ma cercherò di guarirvi – disse l’Inglese curvandosi su di lui e toccando la ferita.

– Sì, che soffro! – esclamò Sandokan con voce sorda.

A un cenno dell’Inglese, i cinque indigeni lo sollevarono con tutte le possibili precauzioni, e malgrado egli ruggisse in cuor suo, si lasciò trasportare a forza di braccia all’abitazione.

Era dessa senza dubbio la miglior casa che sorgesse in Labuan dopo quella del governatore. Un vero palazzo di legno col tetto di zinco, dove le fenestre numerose, ma ben disposte avevano un po’ di architettura gotica, e dove i fregi non mancavano. Una veranda indiana girava attorno, rinchiusa da persiane dipinte a vivaci colori, e dove le piante arrampicanti, dividendosi in mille rameggi gli uni più bizzarri degli altri, avevano preso sede, avanzandosi ancora più sopra fino alle fenestre e ancora più in alto fino ai camini del tetto.

Si elevava sulle rive dello stagno sopra il quale si passava con un ponte levatoio, e ai cui fianchi staccava sì solide stecconate, alte tre o quattro metri, indispensabili per quei luoghi frequentemente visitati dai pirati di Mompracem e delle Romades. Un gran giardino riboccante dei più bei e più preziosi alberi e dei più rari fiori stendevasi a perdita d’occhio al di là delle palizzate cosparso di piccoli chioschi chinesi, di gran graticci di filo di ferro entro ai quali garrivano i più graziosi uccelli della Malesia e munito del relativo padiglione dalle pareti verdeggianti ombreggiato da un colossale albero della canfora il cui tronco non sarebbe stato abbracciato da dieci uomini.

Gli indigeni portando Sandokan che concentrato tutto nella sua ira nulla vedeva e nulla udiva, traversarono il ponte levatoio preceduti dall’Inglese e dopo esser passati per una fila di stanze arredate con eleganza, lo deposero in una di esse, ampia quanto mai, tappezzata in rosso, le cui grandi fenestre gotiche davano sul giardino.

Il ferito fu disteso su di un letto e messa a nudo la ferita; l’Inglese la esaminò attentamente come un uomo che se ne intende. Vi fece passare sopra leggermente una spugna bagnata di acqua fresca, alleviando l’atroce dolore che pativa il pirata, vi applicò un cataplasma d’esca e un miscuglio di sostanze vegetali di cui il ferito stesso ignorava l’effetto e la provenienza, vi sovrappose delle filacce e fasciò il tutto con abile mano.

– Non movetevi se lo potete, solo coricatevi sul fianco corrispondente al cataplasma e il capo alquanto rialzato – disse l’Inglese. – Non dite parole che potrebbero causarvi una debolezza estrema, dormite e non pensate che a guarire. D’altronde non avrete ad annoiarvi; vi presenterò io una graziosa infermiera che saprà rallegrarvi nei momenti di malinconia.

Il ferito, facendo uno sforzo su sé stesso sorrise. Allungò la mano, poi ritirandola:

– A chi dovrò dimostrare la mia gratitudine… per le cure avute?

– A James Guillonk, capitano di vascello di S. M. Britannica, la regina Vittoria.

Il ferito fece un balzo sul letto mentre le mani si raggrinzavano sulle coperte.

– Capitano di vascello! Capitano di vascello avete detto? – esclamò egli con truce accento.

– Che diavolo vi trovate di strano? – chiese flemmaticamente l’Inglese che non capiva.

– Ascoltate, James Guillonk. Io era ferito, laggiù sotto le foreste che mordeva la polvere sotto il piombo di un pirata, quando vidi una nave… sì una nave che fumava. Ho veduto una lotta mostruosa fra la nave e dei prahos… una carneficina… oh sì, terribile carneficina dove i pirati pugnavano come tanti eroi… Eravate voi che guidavate quella… quella nave?

– Non ero io, tacete, non una parola di più – disse l’Inglese accostando un dito alle labbra. – Ve lo proibisco severamente; ecco, guardate che la febbre vi assale, poi verrà il delirio.

– Il delirio! – esclamò Sandokan senza comprendere. – Non ho paura io del delirio né di loro!

Egli soffocò a metà la parola lì lì per uscirgli e ricadde spossato fra le coperte. L’Inglese accostò ancora un dito sulle labbra raccomandandogli silenzio e si ritirò sulle punte dei piedi seguito da quattro indigeni. Il quinto restò a guardia del ferito piantandosi dinanzi ai vetri.

Sandokan ad onta delle raccomandazioni alzò il capo e guardò intorno. La stanza era vasta e riccamente arredata, tappezzata in rosso, il color favorito del pirata che gli rammentava i suoi fiumi di sangue e era illuminata da due grandi fenestre gotiche attraverso i vetri delle quali si scorgeva un lembo del padiglione col suo colossale albero della canfora e coi suoi artocarpi dalle grosse frutta e i filari di cedri di un gran viale che attraversava il giardino.

Il pirata vide in un canto della stanza un pianoforte sul quale erano sparpagliati in un grazioso disordine libri di musica, ninnoli chinesi leggiadramente lavorati, una tavolozza, delle tele dipinte e dei pennelli. Nel mezzo della stanza un tavolo riccamente intarsiato con una scacchiera d’ebano e d’avorio, in cui gli scacchi, alcuni rovesciati ed altri in piedi, parevano indicare che la partita era terminata poco tempo prima, forse la sera precedente. Addossato a una parete vide un canapé, sul quale eravi ancora un lavoro di donna non ancor finito e presso il suo letto un ricco sgabello con un libro semi-aperto con un fiore appassito e schiacciato fra le pagine che esalava ancora un soave profumo.

Tese una mano verso quel libro, lo chiuse e guardò la legatura, in mezzo alla quale campeggiava un nome impresso a lettere dorate.

– Marianna! – lesse egli. – Chi può essere mai questa donna?

Il pirata senza potersene render conto nel leggere quel nome che non aveva e non poteva aver nulla di strano, si sentì agitato da una bizzarra sensazione. Qualche cosa di dolce colpì il cuore di lui, quel cuore d’acciaio che aveva la ferocia della tigre, e sussultò.

– Marianna! – ripeté egli con strana intonazione. – Qual nome!… L’aprì senza far rumore, gettando uno sguardo sull’indigeno sempre immobile dinanzi ai vetri. Non conteneva che delle annotazioni in una lingua che non poté comprendere, benché qualche parola avesse molta somiglianza colla lingua di Yanez. Andò senza volerlo a cercar quel fiore, un gelsomino, lo prese delicatamente con quelle dita che non conoscevano che l’impugnatura delle armi, l’alzò fino agli occhi e lo mirò a lungo. Lo fiutò più volte con ardente alito, lo fissò quasi volesse indovinare qual mano l’aveva racchiuso in quel libro, provando un non so che nel cuore, un tremito, una sensazione vaga, ignota, voluttuosa, e lui, il sanguinario, l’uomo di guerra, si sentì stranamente spinto a portare quel fiore alle labbra!…

Ripose quasi con dispiacere quel fiore fra le pagine, collocò il libro sullo sgabello e tornò a coricarsi dimenticando il luogo dove si trovava, la ferita, la febbre.

– Marianna! – ripeté per la terza volta e socchiuse gli occhi fantasticando su quel nome.

Si addormentò tranquillamente ad onta della febbre che lo divorava, sognando non già fiumi di sangue, fantasmi dagli occhi di fuoco, scheletri dalle ossa crocchianti e vuote occhiaie, ma foreste immense di una bellezza incomparabile, fiumi tranquilli mormoranti fra le praterie, montagne vaghe e in mezzo a tutto ciò un nome gigantesco, immane, tracciato a grandi lettere d’oro che lo abbagliavano, dapprima confuso, poi più chiaro e infine leggibile. Era ancora il nome di Marianna!

Ma il sonno e il sogno non durarono molto. La febbre si sviluppò terribilmente e pericolosamente accompagnata dal delirio. Si svegliò che il sole calava al ponente ed ebbe paura come le notti precedenti, malgrado che la situazione fosse cangiata. Egli si mise ad agitarsi urlando come un insensato.

– Via queste tenebre… via questi fantasmi che aspettano il calar del sole! Via, non vedete che mi guardano ancora, che mi abbruciano coi loro sguardi di fuoco?… Ah! ecco gli scheletri… danzate, danzate figli delle giacche rosse… ecco del sangue, dei teschi riboccanti di vino, delle membra lacerate… ovunque sangue, armi, armati, morti, moribondi!… Annegatemi tutti questi mostri dalle gole spalancate… dite loro che non ho paura… sono la Tigre, capite, la Tigre!…

Egli si arrestò non udendo più la voce di James Guillonk che cercava calmarlo, e che passava da uno stupore all’altro nell’udire questi strani discorsi. Poi ripigliò l’insensato quanto pericoloso vociare, che poteva tradirlo precipitandolo fra le braccia dei Britanni assetati del suo sangue.

– Oh! non ho paura io… tutte le giacche rosse non mi fanno tremare… sono la Tigre… la Tigre dei mari. M’hanno assassinato… ho la loro palla che mi abbrucia come fosse di fuoco… là, l’ho avuta là, a bordo di quell’odiata nave… da essi, quando faceva strage di giacche rosse!… Oh! mi vendicherò… atrocemente sì, mi vendicherò. Tutto a ferro e a fuoco!… Là, là, Mompracem, non tremare… la Tigre è là sul mare, spiando sempre. Ferro e fuoco!…

Poi la visione parve cangiare improvvisamente. Si levò a metà, cogli occhi stranamente fissi sul tavolo della stanza, e stese le mani nervosamente raggrinzate verso di esso.

– Di chi è quel nome… di chi è quel nome che risuona qua entro… nel cuore della Tigre?… che mi fa fremere? Chi giuocò là su quella scacchiera?… Vedo una mano, fina… vedo una fanciulla che mi sorride… mi tende le braccia… è bionda perché è razza delle giacche rosse! Mi sorride… il mio cuor freme… sanguina… Il suo nome, il suo nome… io lo sapeva! Ah! non mi rammento più!

Il pirata cadde spossato sul letto gettando un gemito; si agitò ancora come cercasse abbracciare qualche cosa che pareva sfuggirgli, poi cadde in un profondo torpore che somigliava al sonno.

Lord James lo contemplò colle braccia incrociate e la fronte leggermente corrugata. Aveva udito i bizzarri discorsi usciti dalle labbra del ferito, dei discorsi che potevano gettarlo su di una traccia e pensava. Come potevano mai entrarci le giacche rosse? Non poteva aver compreso il vero significato della parola, ma sospettava che ciò riguardasse quelli della sua razza. E poi, quei cadaveri, quel sangue, quel nome di Tigre che si dava, quelle stragi, e di più quella Mompracem, il fantasma di Labuan, il formidabile nido di pirati, aveva tutto ciò qualche cosa di sì strano, che preoccupava vivamente l’Inglese.

– Se fosse un pirata! – esclamò egli e si arrestò a contemplare quel fiero tipo che allora dormiva.

Uscì senza far rumore, riservandosi di chiedere una spiegazione all’indomani, dopo di averlo raccomandato a due indigeni e di avergli fatto preparare un calmante.

Quando Sandokan si svegliò era tardi. Non si rammentava quasi nulla di ciò che aveva detto durante la notte, solo degli scheletri che parevano aver danzato intorno a lui e dei fiumi di sangue.

– Bevete questa tazza – disse uno degli indigeni presentandogliela colma di vino.

Sandokan la vuotò senza dir verbo, ma provando un vero sollievo. Egli girò lo sguardo attorno come cercasse qualche cosa e lo fermò ancora sul libro del fiore leggendo il singolar nome, provando la medesima emozione del giorno precedente. Allungò la mano come per prenderlo, ma vedendo i due indigeni che lo guardavano con curiosità, si trattenne.

– Avete passato una cattiva notte – disse uno degli indigeni.

– Ah! – fe’ Sandokan alquanto contrariato di vederseli vicini.

– Avete parlato sempre, gridando come un insensato – continuò l’indigeno.

Il pirata sussultò e si fece più attento. Non si rammentava di ciò che avea detto, forse poteva essersi tradito senza saperlo. Colse l’occasione a volo.

– Voi mi dite che io ho parlato? – domandò egli colla massima calma guardando il negro.

– Sì, avete parlato di sangue, di navi, di scheletri, di giacche rosse e di mille altre stranezze.

– E di Mompracem? E di… – il nome che stava per uscirgli incautamente gli si arrestò fra le labbra.

– Sì, di Mompracem – disse ingenuamente l’indigeno. – Quel nome meravigliò il padrone.

Sandokan, malgrado fosse coraggioso si sentì invadere da un vago timore.

– Mi sono tradito! – mormorò egli gettando uno sguardo all’intorno come cercasse un’arma.

Ebbe per un istante l’idea di scagliarsi sui due indigeni e di darsi alla fuga dopo averli strozzati, ma si frenò. Poteva essersi ingannato; risolse aspettar gli eventi, deciso però a non lasciarsi prendere vivo. Avrebbe ben saputo lui prendere il largo a momento opportuno.

Egli stava per intavolar il discorso su più vasta scala, quando lord James entrò.

– Come state, giovanotto mio? – domandò egli movendo verso il letto. – I corpi d’acciaio sono sempre d’acciaio; guariscono a dispetto di tutte le ferite del mondo.

Sandokan sorrise, ma scrutando gli occhi dell’Inglese come per leggervi il pensiero che gli attraversava la mente. Intravvide una ruga più profonda del giorno innanzi sulla sua fronte, ma non si smarrì.

– Mi sento più forte che mai – rispose egli. – I miei ringraziamenti, milord, per le vostre cure.

– Non parliamone più, sarò abbastanza ricompensato nel vedervi guarito. Sapete che questa notte eravate in preda al delirio. Non vi nasconderò che dalle vostre labbra sono usciti strani discorsi.

– Ah! – esclamò Sandokan sorridendo. – Ho adunque parlato? Non mi ricordo più.

– Vi dirò poi cosa diceste. Ma una domanda prima di tutto; quantunque conosca in voi un personaggio d’alto grado, non so ancora chi siate. Vorreste dirmi qual vento vi spinse su queste coste?

– Ascoltatemi, milord – disse Sandokan. – Il mio nome forse non vi riescirà nuovo, godendo una certa fama sulle coste della Malesia e specialmente a Schaja dove mio fratello è ragià. Mi chiamo Whu-Pulau e fui mandato in questi mari da mio fratello con un prahos carico di belzoino pel sultano di Varauni. Ho avuto la sfortuna d’incontrare dei prahos pirateschi coi quali venni a combattimento. Fui vinto, il mio equipaggio scannato e io ferito potei scampare miracolosamente al loro furore.

L’Inglese stese la mano che Sandokan strinse non senza ribrezzo.

– Bene, mio degno amico, una spiegazione ora – disse il lord. – Avete parlato questa notte di Tigre, di cui vantaste le sanguinose gesta. Siete voi che portate un tal nome?

– Sì – rispose Sandokan che involontariamente trasalì. – I miei guerrieri mi diedero questo nome pel mio valore. Sono il terrore dei miei nemici e segnatamente dei pirati.

– Non è tutto – continuò flemmaticamente il lord. – Avete parlato di giacche rosse e di un’isola temuta: Mompracem. È un punto oscurissimo per me.

– Ah! – fe’ Sandokan fremendo. – Con queste giacche rosse, noi Malesi vogliamo significare i pirati, credendo che le loro stoffe siano sempre arrossate di sangue. In quanto a Mompracem è l’isola dalla quale i pirati sbucano, un gran nido, milord, che bisognerebbe distruggere dopo aver raccozzato forze considerevoli. Vi ha un formidabile uomo colà.

– Lo so, si chiama Sandokan, che porta un nomignolo poco differente dal vostro. Si chiama la Tigre della Malesia, un uomo di prodigioso coraggio, che getta il guanto di sfida in faccia all’Inghilterra ma che cadrà. Questi mari che chiama suoi, diverranno nostri.

– Sarebbe tempo – aggiunse Sandokan con sorda voce, mentre un lampo scattava dai suoi occhi.

L’Inglese esaminò ancora la ferita applicandovi nuove compresse. Il pirata lo lasciò fare, ma un tremito convulso lo agitava tutto e le carni si raggrinzavano sotto lo sforzo potente che faceva per frenare lo scoppio di rabbia. Vi fu un momento che egli alzò il capo digrignando i denti, e che si sentì preso da una pazza voglia di afferrare pel collo l’infermiere e di strangolarlo.

– Ruggi, ruggi contro la Tigre della Malesia, figlio di una razza maledetta – mormorò egli quando si trovò solo. – Quando mi vedrai illuminato dal balenar dei cannoni, a bordo dei miei prahos movendo su questa isola che chiami tua, saprai chi io mi sia. Il pirata diverrà allora un eroe leggendario della storia Malese, e il mio nome ancora di qua a cent’anni spargerà il terrore su queste coste come oggi. Dovunque il mio sguardo si fisserà non lascierà che tracce di ferro e di fuoco!

Il formidabile uomo tese il pugno come se giurasse odio eterno alla schiatta dei Britanni, poi i suoi occhi caddero involontariamente sul libro posato sullo sgabello. La sua ira svanì tutta. Era solo. Afferrò macchinalmente il libro e lo guardò a lungo quasi con tenerezza, leggendo per la ventesima volta quel nome di donna. Poi le avide dita cercarono il gelsomino abbandonato e appassito fra quei fogli, lo prese ancora delicatamente e lo fiutò. Le sue labbra ardenti per la febbre, che non avevano sorriso che coll’espressione della tigre, sorrisero dolcemente, in un senso che egli stesso non giunse a comprendere, e quelle labbra che non avevano baciato che le lame delle armi arrossate di sangue, cercarono su quel fiore un bacio!… Ritrasse la mano subitamente.

– Sono pazzo! – mormorò egli.

La voce uscita da quelle labbra aveva un’intonazione che lo spaventò. Egli premette ambe le mani sul cuore che batteva con insolita violenza, e stette lì, muto, anelante cogli occhi fissi su di un punto immaginario che pareva ingigantire, nel mezzo del quale vedeva un nome: Marianna!

D’improvviso udì risuonare dei passi nella stanza vicina. Sussultò e volse istintivamente gli occhi alla porta. Il cuore non batteva più, saltellava e bruciava come vulcano.

Entrò il lord che andò verso il letto col più amabile sorriso. Dietro a lui Sandokan scorse un’ombra, una fanciulla alla cui vista egli gettò un grido di ammirazione e di sorpresa.

Quella fanciulla che andava avvicinandosi a lui guardandolo con curiosità, sfiorando appena appena il tappeto, era la più bella e la più splendida che il pirata avesse mai visto. Era di media statura, di tinta bianca-rosea, con una testolina ammirabile, con occhioni azzurri come l’acqua del mare, una fronte d’incomparabile precisione sotto la quale spiccavano sopracciglia leggiadramente arcuate di un castagno chiaro, un nasino le cui nari mobili dovevano dilatarsi nella collera e nelle passioni e due labbra coralline, che sembravano mature ciliege. Lunghi capelli, sottili, profumati, ondulati, di un biondo lucente che parevano fili d’oro, scendevano in pittoresco disordine sul busticino scollacciato in mezzo al quale spiccavano bianche rose e spilloni dalla capocchia d’argento.

Nel vedere quella graziosa figura dalla taglia elegante, dal portamento superbo, il pirata si sentì scuotere fino al fondo dell’anima. Lui, il sanguinario avventuriere, la terribile Tigre della Malesia, che non avea mai provato emozioni che non fossero da belva, si sentì suo malgrado affascinato. Il suo cuore che poco prima batteva lo sentì ardere, abbruciare, parve che un improvviso fuoco gli scorresse per tutte le vene. Restò lì immobile, come istupidito, col volto stravolto senz’essere capace di staccare i suoi occhi dalla fanciulla.

– Oh! – esclamò il lord sorpreso da quello strano cangiamento. – Che volto scomposto che avete: state forse male?

– No!… No!… – esclamò vivamente il pirata scuotendosi.

– Lasciatemi in tal caso presentarvi mia nepote, Lady Marianna Guillonk, una donna col cuore da fanciulla…

– Marianna Guillonk!… Marianna Guillonk!… – balbettò Sandokan.

– E che, trovate strano il mio nome? – chiese la giovanetta con un incantevole sorriso.

Sandokan udendo quella voce trasalì di nuovo. Non aveva mai udito una voce sì dolce risuonare ai suoi orecchi abituati alla terribile musica del cannone. Si credette in preda a un sogno.

– Non trovo nulla di strano nel vostro nome, adorabile milady – diss’egli galantemente. – Trovo solo che questo nome è il più bello di tutti quelli che udii nel mio paese, e che lo imparai a conoscere ancor prima di aver veduto colei che lo portava.

– Ah – esclamò la leggiadra lady arrossendo. – E come?

– L’ho letto su quel libro che vedete lì. Senza sapere il perché mi impressionò in una strana maniera e indovinai che colei che così si chiamava non doveva essere meno bella.

– Adulatore – diss’ella sorridendo. Poi, cangiando bruscamente tono:

– È vero che i pirati vi ferirono?

Il volto di Sandokan s’abbuiò, ma fu un lampo.

– Sì – diss’egli sordamente. – Mi vinsero e mi ferirono. Oh! ma guarirò e allora guai a loro!

– Soffrite molto?

– Se soffro?… Ah! milady, le sofferenze non avevano nome prima, ma ora non sento più nulla. Mi pare che la vostra voce apporti mille balsami che alienano l’atroce dolore della ferita.

– Sarebbe mai possibile, amico mio, che la voce di una fanciulla abbia la potenza di alienare le sofferenze di un guerriero? – chiese il lord ridendo.

Sandokan non rispose. Egli si era improvvisamente avvicinato al volto della giovanetta sul quale una emozione sconosciuta faceva correre una rosea nube sulle seriche gote e la contemplava con un misto di stupore e di ammirazione e la fissava con due occhi che mandavano fiamme. Si ritirò tremando, facendo udire un sordo brontolio, passandosi a più riprese una mano sulla fronte imperlata di sudore.

– Milady!… – esclamò egli con istrana intonazione.

– Mio Dio che avete? – chiese ella sorpresa.

– Voi portate un altro nome, un nome ancora più bello di Marianna Guillonk.

– Quale? – chiesero ad un tempo la giovanetta e il lord.

– Sì… Voi siete la Perla di Labuan. Non potete essere che voi che portate un sì bel nome.

Il lord fece un gesto di sorpresa.

– Come sapete voi, che venite dalla Malacca, che mia nepote si chiama la Perla di Labuan?

– Non è possibile che questo nome datomi dagl’indigeni, sia giunto sino a quelle coste – disse lady Marianna arrossendo.

– No, non l’ho mai udito a Schaja, ma l’ho udito alle Romades. Mi si parlò di una fanciulla d’incomparabile fulgidezza – disse il pirata con slancio appassionato. – Di una fanciulla i cui biondi capelli erano più lucenti dell’oro, più fini dei fili di seta, più profumati dei più odorosi gelsomini del Borneo, i cui occhi erano più azzurri del cielo più puro, e più dolci dello sguardo più languido e la cui voce aveva la proprietà di affascinare e di toccare le corde degli animi più inaccessibili!… Sì, voi siete la Perla di Labuan! Non potete essere che voi che portate un tal nome.

– Ah! Tante grazie si attribuiscono a questa povera Perla – disse la lady ridendo. – In fede mia, credo di non meritarne tante.

– E io credo che se ne attribuisca ancora poche! – esclamò il pirata con fuoco. – Non ho mai veduto nella mia patria una giovanetta che rassomigli alla Perla!

– Vi sarebbe dubbio che la Perla avesse affascinato anche la Tigre? – chiese il lord celiando.

– E perché no? – disse Sandokan vivamente. – Non ha affascinato tutti i pescatori della costa?…

– Ah! voi scherzate – disse la giovanetta facendosi di bragia.

– Ve lo dico io. Mi narrarono che persino un pirata del Borneo ne fu affascinato.

– Oh! – fe’ il lord sorpreso. – Che quei maledetti si sieno spinti fino alla mia abitazione! My-God! la sarebbe curiosa.

– No, milord. Fu la voce di lady Marianna che l’affascinò.

– Ma come?

– La udì passando col suo prahos sotto la costa. I pescatori mi assicurano che la voce della lady superava quella di una sirena.

– Burlone – disse la giovanetta.

– Non vi ho detto che pur io, che mi chiamano a Schaja la Tigre, quando vi udii parlare mi parve di non sentire più il dolore della ferita?

– Orsù, Marianna – disse il lord gaiamente. – Affascina adunque completamente questa Tigre. Se le sole parole spengono il dolore, una romanza sono sicuro che lo farà guarire.

– Sì!… Guarirò!… Guarirò!… – esclamò Sandokan.

Vi era un accento d’ingenuità, un tale accento di sicurezza in quell’esclamazione che la giovanetta ne fu colpita. Prese macchinalmente la mandola. Appena che toccò le corde Sandokan sussultò come se una pila elettrica l’avesse toccato. La giovanetta notò quel sussulto, nondimeno si mise a cantare una romanza accompagnandola delicatamente coll’istrumento.

Cantava ella in una lingua straniera che il pirata non aveva mai udito, in una lingua più dolce del suono della mandola, modulata, carezzevole che toccava il cuore.

Le onde sonore, di una infinita dolcezza, lo inebbriavano, lo affascinavano e a segno che il sanguinario avventuriero che non avea mai gustato che la musica dei cannoni, si sentì suo malgrado commosso, si sentì trasportato in un nuovo mondo.

Spiava ansiosamente le mosse di quelle labbra coralline, quasi volesse colla potenza del suo sguardo farne uscire nuove parole che trovavano un eco sconosciuto nel più profondo del suo cuore, che scuotevano le fibre d’acciaio del suo corpo e che gli giungevano agli orecchi come musica divina. Egli era là, muto, anelante, rattenendo il respiro quasi temesse turbare coll’alito quella voce melodiosa, cogli occhi fissi su colei che cantava: pareva che volesse attirare quelle parole, inebbriarsi di quei suoni, scolpirsi in mente le dolcezze di quella lingua ignota.

Quando la giovanetta finì, quando quell’impareggiabile voce, dopo di aver vibrato con novella energia morì sulle corde della mandola, egli era ancora là, colle braccia tese come attirasse l’incantatrice, collo sguardo fiammeggiante fisso in quello umido di lei, colle labbra frementi, colle orecchie tese, col cuor sospeso. Ascoltava ancora e avrebbe voluto ascoltar sempre. La voce del lord lo trasse da quell’estasi dov’era piombato.

– Ebbene, mio prode amico, come trovate la romanza di mia nepote?

– Oh! – esclamò Sandokan con slancio appassionato e quasi selvaggio. – La trovai sublime come era sublime colei che la cantava. Nel mio paese non ho mai udito una simile voce più dolce del mormorio dei ruscelli, più modulata del gorgheggio degli uccelli!…

Il lord sorrise mentre la giovanetta arrossiva guardandolo fisso.

La conversazione durò ancora qualche tempo aggirandosi ora sui pirati, ora sulla penisola malese ed ora su Labuan, poi essendosi fatto tardi, il lord si ritirò colla nepote, dopo di aver stretto la mano che il pirata francamente gli porgeva.

Il pirata rimasto solo, stette a lungo a guardare la porta per la quale erano usciti, come uomo che medita: poi si scosse bruscamente. Il suo volto poco prima pallido erasi allora coperto di un vivo rosso e gli occhi poco prima malinconici si erano dilatati enormemente.

Qualche cosa gli rumoreggiò in fondo al petto ma non uscì; le labbra che fremevano come avessero la febbre si chiusero e i denti si strinsero come volessero impedire l’uscita di una frase che pareva volesse irrompere.

Stette così un minuto, due, tre, tutto in sudore, colle mani nei capelli, ansante poi le labbra si schiusero:

– Ah! – esclamò egli con una voce che pareva quella di una belva e improntata di un vivo spavento. – L’amerei io forse?…

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
580 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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