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Kitabı oku: «Le meraiglie del Duemila», sayfa 4

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I MARTIANI

Un uomo sulla sessantina, che aveva una testa ancor più grossa del signor Holker ed il viso completamente rasato, era uscito dall’immensa torre che s’innalzava nel centro della cinta e si era affrettato ad andare incontro ai visitatori, dicendo:

«Buon giorno, dottore; è un po’ di tempo che non vi si vede qui».

«Buon giorno, signor Hibert» aveva risposto Holker. «Vi conduco due miei amici giunti ieri dall’Inghilterra e che sono curiosi di visitare la vostra stazione e di avere notizie dei martiani.»

«Siano i benvenuti» rispose il signor Hibert, stringendo la mano agli ospiti. «Sono a loro disposizione.»

«Il più grande astronomo d’America» disse Holker, dopo la presentazione. «La gloria di aver messa in comunicazione la terra con Marte la dobbiamo a lui.»

«Credevo che fossero stati gli scienziati europei» disse Toby. «So che se ne occupavano molto, un tempo.»

«L’America li ha preceduti» disse Holker.

«Sarei curioso di sapere come siete riuscito a dare a quei lontani abitanti notizie della terra. Dovete aver superate delle difficoltà immense.»

«Eppure, che cosa direste se io vi raccontassi che l’idea di fare dei segnali a noi, nacque prima nel cervello dei martiani?» disse l’astronomo.

«Mi pare impossibile!» esclamò Brandok.

«Eppure è precisamente così, mio caro signore. Già da molti lustri, anzi fin dal 1900 e anche prima, i nostri vecchi astronomi e anche quelli europei, specialmente l’italiano Schiaparelli, avevano notato che su quel pianeta apparivano di quando in quando, specialmente dopo il ritiro delle acque che ogni anno invadono quelle terre, delle immense linee di fuoco che si estendevano per migliaia di chilometri.»

«Me ne ricordo» disse il dottor Toby. «L’ho già letto su una vecchia collezione di giornali del 1900 che conservo in casa mia. Si credeva allora che quei fuochi fossero segnali fattici dagli abitanti di Marte.»

«In questo secolo i nostri astronomi, vedendo che quelle linee di fuoco si ripetevano con maggior frequenza e che descrivevano per lo più una forma rassomigliante ad una «J» mostruosa, supposero che fossero veramente segnali e decisero di provare a rispondere. Fu nel 1940 che si fece il primo esperimento nelle immense pianure del Far-West. Duecentomila uomini furono disseminati in modo da formare pure una «J» e duecentomila fuochi furono accesi durante una notte scurissima. Ventiquattr’ore dopo lo stesso segnale appariva pure su uno degli immensi canali del pianeta marziano. Si pensò allora, per meglio accertare che si rispondeva a noi, di ripetere l’esperimento cambiando però la forma del segnale e fu scelta la lettera «Z». Venti notti dopo, i martiani rispondevano con una lingua di fuoco della stessa forma. Il dubbio ormai non poteva più sussistere. I martiani, chissà da quanto tempo, cercavano di mettersi in relazione con noi. Per un mese furono continuate le prove, cambiando sempre lettera e con crescente successo.»

«Non potevate però comprendervi» disse Toby.

«Sarebbe stato necessario che avessero avuto un alfabeto eguale al nostro, e poi quel mezzo sarebbe stato molto costoso. Nacque allora nella mente degli scienziati l’idea di mandare lassù un’onda herziana, nella speranza che anche i martiani avessero uno strumento ricevitore. A spese dei vari governi americani fu innalzata questa torre d’acciaio, che fu spinta fino a quattrocento metri e piantata sulla cima una stazione ultrapotente di telegrafia senza fili.»

«Una invenzione non moderna la telegrafia aerea» disse Brandok.

«È vero che si conosceva fin dai primi anni dello scorso secolo, e che fu perfezionata dalle scoperte di un bravo scienziato italiano, il signor Marconi; ma allora non aveva la potenza d’oggi. I nostri strumenti, perfezionati da molti scienziati, hanno raggiunto una tale forza che noi potremmo corrispondere anche col sole, se lassù vi fossero degli abitanti e dei ricevitori elettrici. Per molti mesi lanciammo onde elettriche senza alcun risultato; un giorno, con nostra grande meraviglia, udimmo i segnalatori suonare, erano i martiani che finalmente ci rispondevano.»

«Quel popolo ha fatto anche da parte sua delle meravigliose scoperte!» esclamò Toby.

«Noi abbiamo i nostri motivi per credere che siano molto più avanti di noi. Dapprima i segnali furono confusi e ci riuscì impossibile intenderci. A poco a poco però fu combinato un cifrario speciale che i martiani dopo un paio d’anni riuscirono a comprendere ed ora corrispondiamo perfettamente bene e ci comunichiamo le notizie che avvengono sia quaggiù che lassù.»

«Stupefacente!» esclamarono ad una voce Brandok e Toby.

«Ve lo avevo detto» disse Holker.

«Ditemi, signor Hibert: Marte assomiglia alla nostra terra?…»

«Un po’, avendo terra e acqua al pari del nostro globo. Le sue condizioni fisiche sono invece molto differenti. I mari di quel pianeta non occupano nemmeno la metà dell’estensione totale di quel globo; il calore che riceve dal sole è mediocre, essendo la distanza da esso maggiore di quella della terra. L’anno è due volte più lungo ossia conta 687 giorni.»

«E l’aria è uguale alla nostra?»

«È più leggera, cosicché l’atmosfera lassù è più pura, non si formano nubi, non si scatenano tempeste, i venti mancano quasi del tutto e le piogge sono sconosciute.»

«E l’acqua?…»

«È analoga a quella della terra e ciò si sapeva anche prima, somigliando le nevi accumulate ai due poli di Marte alle nostre. Però l’acqua non dà luogo a evaporazione sensibile, quindi niente piogge.»

«Allora mancherà la vegetazione su Marte?»

«Niente affatto, mio caro signore: vi sono piantagioni e foreste splendide che nulla hanno da invidiare al nostro globo.»

«E chi le innaffia se non piove?» chiese Brandok.

«La natura ha provveduto egualmente» disse l’astronomo. «Non circolando l’acqua con un sistema di nubi, di piogge e di sorgenti come da noi, vi hanno riparato le nevi condensate nelle regioni polari. Ogni sei mesi, verso l’epoca dell’equinozio, si fondono e producono delle inondazioni sopra immense estensioni di centinaia di migliaia di chilometri. Le acque regolate da una serie di canali, costruiti da quegli abitanti, scorrono e s’inoltrano attraverso i continenti, fertilizzando le terre e bagnando le pianure. Cessata la fusione, le acque si ritirano fuggendo per gli stessi canali e lasciando nuovamente allo scoperto le terre.»

«I grandi canali dunque che gli scienziati dello scorso secolo avevano già segnalato, sono opera dei martiani?» disse Toby.

«Sì» rispose l’astronomo. «Sono lavori imponenti, colossali, avendo taluni una larghezza di cento e più chilometri.»

«E noi andavamo orgogliosi delle opere degli antichi egiziani!»

«Signor Hibert,» disse Holker «conduceteci sulla torre. Devo mandare un saluto al mio amico Onix.»

«È il tuo marziano?» chiese Toby.

«Che cosa fa quell’uomo, o meglio quell’anfibio?» chiese Brandok.

«È un mercante di pesce che si duole sempre di non potermi fare assaggiare le gigantesche anguille che i suoi pescatori prendono nel canale d’Eg.»

«Dunque lassù vi sono padroni e lavoratori?»

«Come sul nostro globo.»

«Anche dei re?»

«Dei capi che governano le diverse tribù disperse sui continenti.»

«Tutto il mondo è paese.»

«Pare di sì» disse Holker, ridendo.

«Venite, signori» disse l’astronomo. «La macchina è pronta a portarci lassù, fino alla piattaforma.»

Girarono attorno alla colossale torre guardandola con profonda ammirazione. Che meschina figura avrebbe fatto la torre Eiffel costruita venticinque lustri prima a Parigi, e che pure, in quella lontana epoca, aveva meravigliato il mondo intero per la sua altezza!

Questa era un tubo mostruoso, di quattrocento metri d’altezza con un diametro di centocinquanta alla base, costruito parte in acciaio e parte in vetro, munito all’esterno d’una cornice che saliva a spirale, larga tanto da permettere il passaggio ad un vagoncino contenente otto persone.

Era di forma rotonda, come quella dei fari, e certo d’una resistenza tale da sfidare i più poderosi cicloni dell’Atlantico.

Toby, Brandok, l’astronomo e Holker presero posto nel vagoncino, il quale cominciò a salire con velocità vertiginosa, girando intorno alla torre, mentre i vetri, che pareva si agitassero meccanicamente, davano ai viaggiatori l’illusione di salire intorno ad un colossale tubo di cristallo.

Due minuti dopo il vagoncino si fermava automaticamente sulla piattaforma della torre, dinanzi all’immensa antenna d’acciaio che doveva sostenere gli apparecchi della telegrafia aerea.

«Rassomiglia questa stazione, più in grande, a quella che il signor Marconi cent’anni fa aveva piantata al Capo Bretone» mormorò Toby agli orecchi di Brandok. «Ti ricordi che l’avevamo visitata insieme?»

«Sì, ma quale potenza sono riusciti a dare ora alle onde elettriche» rispose il giovine. «Ah! quante meraviglie! quante… Toby! mi riprende il fremito dei muscoli.»

«È l’elettricità.»

«Che non soffrano di quest’agitazione gli uomini di oggi?»

«Essi son nati e cresciuti in mezzo alla grande tensione elettrica, mentre noi siamo persone di un’altra epoca. Ciò mi preoccupa, amico James, non te lo nascondo.»

«Perché?»

«Non so se potremo farci l’abitudine.»

«Che cosa temi?»

«Nulla per ora, tuttavia… provi lo spleen?»

«Finora no» rispose Brandok. «Come sarebbe possibile annoiarsi con tante meraviglie da vedere? Questa è una seconda esistenza per noi.»

«Meglio così.»

Mentre si scambiavano queste parole, il direttore aveva lanciato già parecchie onde elettriche agli abitanti di Marte.

Ci vollero ben quindici minuti prima che la suoneria elettrica annunciasse la prima risposta, che era un saluto dell’amico di Holker.

«Si vede che quel brav’uomo si trovava alla stazione telegrafica» disse il nipote di Toby. «Certo aspettava mie notizie.»

«Signor Hibert, riuscirete un giorno a dare la scalata a Marte?»

«Io credo che ormai non vi sia più nulla d’impossibile» rispose con grande serietà l’astronomo. «Da due anni gli scienziati dei due mondi si occupano di questa grande questione per dare uno sfogo alla crescente popolazione della terra. Abbiamo oggi degli esplosivi mille volte più formidabili della polvere e della dinamite che si usava anticamente.»

«Anticamente!» esclamò Brandok, quasi scandalizzato.

«Per modo di dire» disse l’astronomo. «Può darsi che un giorno si riesca a lanciare fra i martiani qualche bomba mostruosa piena di abitanti terrestri. Non si sa cosa ci riserba l’avvenire. Scendiamo e venite a vedere il mio telescopio che è il più grande che sia stato finora costruito.»

Risalirono sul vagoncino ed in mezzo minuto si trovarono alla base della torre. Lì vicino si ergeva il mostruoso cannocchiale.

Consisteva in un enorme tubo di lamiera d’acciaio, lungo centocinquanta metri con un diametro di cinque, pesante ottantamila chilogrammi e fissato su due enormi pilastri di pietra.

«Un cannone colossale!» esclamò Brandok. «Come fate a muovere questo mostro?»

«Non ve n’è bisogno,» rispose l’astronomo «anzi è fisso.»

«Allora non potete osservare che una sola porzione del cielo» osservò Toby.

«V’ingannate, caro signore. Guardate attentamente lassù e vedrete dinanzi all’obbiettivo, nel prolungamento dell’asse, uno specchio che è mobile ed è destinato a rinviare le immagini degli astri nell’asse del telescopio. Quello specchio è mosso da un movimento d’orologeria regolato in modo da procedere in senso contrario al moto della Terra, così che l’astro che si vuole osservare resta costantemente nel campo del cannocchiale come se il nostro pianeta fosse completamente immobile.»

«Che meravigliose invenzioni!» mormorò il dottore. «Che cosa sono in confronto quelle di cui si vantavano tanto gli scienziati francesi nel secolo scorso?» disse Brandok.

«Volete parlare del grande telescopio di Parigi? Sì, per molti anni fu ritenuto una meraviglia,» disse l’astronomo «quello però non avvicinava la luna che a soli centoventotto chilometri, ed era già molto per quei tempi. Non poteva avvicinarla di più, essendo la luna distante da noi 384.000 chilometri. Ora noi l’avviciniamo ad un metro.»

«Amici,» disse Holker «partiamo o faremo colazione troppo tardi. Le cascate sono un po’ lontane.»

«Andate a visitare quelle del Niagara?» chiese l’astronomo.

«Sì» rispose Holker.

Strinsero la mano allo scienziato, salirono sul Condor e pochi istanti dopo sfilavano sopra Brooklyn, dirigendosi verso il nord-est.

LE CASCATE DEL NIAGARA

I palazzoni enormi come a Nuova York, contenenti centinaia di famiglie si succedevano senza interruzione e anche nelle vie dell’antico sobborgo della capitale dello stato regnava un’animazione straordinaria, febbrile.

I brooklynesi parevano pure impazziti e correvano, piuttosto che camminare, come se avessero addosso il diavolo e l’argento vivo nelle vene.

La tensione elettrica produceva i medesimi effetti anche sugli abitanti del sobborgo.

Quello che colpiva sempre i risuscitati era la mancanza assoluta dei cavalli e delle carrozze; perfino le automobili erano quasi scomparse, non vedendosene che qualcuna.

Il Condor stava attraversando una vasta piazza, quando l’attenzione di Brandok fu attirata dal passaggio di quattro mostruosi animali montati ognuno da un uomo.

«Oh bella!» esclamò. «Degli elefanti!»

«Dove?» chiese Holker.

«Laggiù, guardateli.»

«Saranno poi proprio degli elefanti in carne ed ossa?» chiese il pronipote del dottore, guardandoli un po’ ironicamente. «Sospetto che voi v’inganniate, signor Brandok.»

«Non sono cieco, signor Holker.»

«E nemmeno io» disse Toby. «Sono dei veri elefanti.»

«Sono degli spazzini di acciaio, signori miei,» disse Holker, ridendo.

«Qualche nuova invenzione!» esclamarono Toby e Brandok.

«E non meno utile delle altre,» disse Holker «e anche molto economica, perché così il comune può fare a meno d’un esercito di spazzini. D’altronde quel mestiere era indegno degli uomini.»

«Quegli animali sono spazzini?» esclamò Brandok, che stentava a credere alle parole di Holker.

«E come funzionano bene! Essi eseguono la pulizia delle vie e delle piazze per mezzo della proboscide, che è composta di un centinaio di tubi d’acciaio, rientranti l’uno nell’altro in modo da dare ad essa un’agilità straordinaria. Nella testa invece vi è un potente apparato aspirante, mentre il motore, che è elettrico, si nasconde nei fianchi dell’animale. Quando il conduttore che, come vedete, si trova a cavalcioni del collo, come i cornac indiani, scorge delle immondizie sulla via, preme una leva collocata a portata della sua mano, la quale dirige i movimenti della tromba e dell’apparato aspirante. La proboscide allora s’allunga verso l’oggetto da raccogliere e l’apparato si mette in azione. Ne segue quindi un’aspirazione violenta a cui nulla resiste, di modo che pietre, cenci, pezzi di carta, torsoli, immondizie d’ogni sorta vanno ad inabissarsi nel corpo dell’elefante spazzino. Non resta poi che andare a scaricare la raccolta. Come vedete la cosa è semplicissima.»

«Stupefacente invece» disse Brandok. «Che progresso meccanico!»

«Harry, accresci la velocità» disse Holker.

Brooklyn spariva rapidamente fra le nebbie dell’orizzonte ed il Condor volava sopra bellissime campagne coltivate con grande cura, in mezzo alle quali si vedevano correre delle strane macchine agricole di proporzioni gigantesche. Gli alberi erano rari; le piante basse, invece, infinite. A che cosa infatti sarebbe dovuto servire il legname dal momento che gli abitanti del globo avevano il radium per scaldarsi negli inverni e non costruivano che col ferro e coll’acciaio? Si vedeva che tutto avevano sacrificato per non correre il pericolo di trovarsi ben presto alle prese colla fame, dato l’immenso e rapido aumento della popolazione.

Alle nove del mattino il Condor, dopo essere passato in vista di Patterson, diventata anche quella una città immensa, entrava nello stato della Pennsylvania alla velocità di centododici chilometri all’ora.

«Signor Holker,» disse Brandok. «C’è una cosa che non riesco a spiegarmi.»

«Quale?»

«Ai nostri tempi questi territori erano coperti da linee ferroviarie, mentre ora non riesco a scorgerne una.»

«Eppure in questo momento passiamo sopra una delle più importanti linee. È quella che unisce Patterson a Quebec.»

«Io non la vedo.»

«Perché al giorno d’oggi le ferrovie non scorrono più sopra il suolo, bensì sotto. Diversamente l’aria sfuggirebbe. Guardate là; non scorgete una casa sormontata da un albero che non è altro che un segnalatore e trasmettitore elettrico della telegrafia aerea?…»

«La scorgo.»

«È una stazione.»

«E la ferrovia?»

«Vi passa sotto.»

«Mi avete parlato d’aria; cosa c’entra colle ferrovie?»

«Lo saprete quando prenderemo il treno che ci porterà a Quebec. Ah! ecco l’omnibus che va a Scranton.»

Un’enorme macchina aerea, fornita di sei paia d’ali immense e di eliche smisurate, con una piattaforma di venti metri di lunghezza, carica di persone, s’avanzava con velocità vertiginosa, tenendosi a cento metri dal suolo.

«Magnifico!» esclamò il dottore. «Chi sono?»

«Contadini che portano i loro prodotti a Scranton»

«Come sono bruni! Si direbbero indiani» disse Bran-dok. «A proposito, che cosa è avvenuto dei pellirosse che erano ancora assai numerosi cent’anni fa?»

«Sono stati completamente assorbiti dalla nostra razza e si sono del tutto fusi con noi. Non esistono ormai che poche centinaia di famiglie, confinate nell’alto Yucon e presso il circolo polare.»

«Era la sorte che loro spettava» disse il dottore. «E dei negri, che erano numerosissimi anche qui?»

«Sono diventati invece spaventosamente numerosi» rispose Holker. «Hanno buon sangue, gli africani e non si lasciano assorbire, e così pure gli uomini di razza gialla.»

«C’è ancora la Cina?»

«La Cina, sì; ma non l’impero» rispose Holker, ridendo. «È stato smembrato dalle grandi potenze europee ed a tempo per impedire una spaventevole invasione. La razza cinese, in questi cento anni, è raddoppiata e, senza il pronto intervento dei bianchi, spinta dalla fame non avrebbe tardato a rovesciarsi sull’Europa e sull’India. Hanno tuttavia invaso buona parte del globo, non come conquistatori, ma come emigranti e si trovano oggidì colonie cinesi perfino nel centro dell’Africa e dell’Australia.»

«Ed i malesi?»

«È un’altra razza che non esiste più. Ormai al mondo non ci sono più che bianchi, gialli e negri, che tentano di sopraffarsi; e finora sono i secondi che hanno maggiore probabilità di vittoria essendo spaventevolmente prolifici. Noi corriamo il grave pericolo di venire a nostra volta assaliti dalle altre due razze.»

«Dunque il mondo minaccia di divenire tutto giallo» disse Toby.

«Purtroppo, zio» rispose Holker. «Ai vostri tempi a quanto ascendeva la popolazione del globo?»

«A circa millecinquecento milioni, e l’elemento mongolo vi figurava con circa seicento milioni.»

«La popolazione attuale è invece di due miliardi e duecento milioni ed i gialli da seicento milioni sono saliti ad un miliardo e cento milioni.»

«Che aumento!» esclamò il dottore. «Ed i bianchi quanti sono dunque?»

«Raggiungono appena i seicento milioni.»

«Un aumento non troppo sensibile.»

«E lo dobbiamo alle razze nordiche.»

«E le razze latine?»

«La sola Italia è cresciuta e rapidamente, perché ha i suoi cinquanta milioni, mentre la Spagna, e soprattutto la Francia, sono rimaste quasi stazionarie. Se non vi fosse L’Italia, la razza latina a quest’ora sarebbe stata assorbita dagli anglosassoni e dagli slavi. Ecco là in fondo Ulmina; stiamo rientrando nello stato di Nuova York, e fra due ore saremo alle cascate.»

Il Condor, che procedeva sempre colla velocità di centodieci chilometri, rientrava infatti nello stato di Nuova York, passando in vista di Ulmina, città cento anni prima di modeste proporzioni ed ora diventata vastissima.

Modificò un po’ la direzione e s’avviò verso Buffalo, passando sopra campagne sempre coltivate con grande accuratezza.

Alle undici il Condor si librava in vista del Niagara, quell’ampio fiume che mette in comunicazione due dei più grandi laghi dell’America settentrionale, l’Ontario e l’Erie.

L’immensa cascata non si scorgeva ancora; si udiva invece il rombo dell’enorme massa d’acqua.

Da qualche minuto una viva eccitazione si era impadronita di Toby e Brandok.

I loro muscoli sussultavano, le loro membra tremavano e, lisciandosi i capelli, facevano sprigionare delle scintille elettriche.

«Quanta elettricità regna qui» disse Toby. «L’aria ne è satura.»

«Provi un certo malessere, James?»

«Sì» rispose il giovane. «Non saprei resistere a lungo a questa tensione che mi fa scattare.»

«E tu, nipote?»

«Io non provo assolutamente nulla» rispose Holker. «Noi ci siamo ormai abituati.»

«Non so se noi ci riusciremo» disse Toby, che pareva assai preoccupato. «Noi siamo persone d’un altro secolo.»

«Io spero di sì» rispose Holker. «Ah! Ecco le cascate!»

Il Condor dopo aver superato una collina che impediva la visuale, con una rapida volata era giunto sopra le famose cascate, librandosi fra una immensa nuvola d’acqua polverizzata, in mezzo a cui spiccava un superbo arcobaleno.

L’immensa massa d’acqua si rovesciava nel fiume sottostante, con un fragore assordante, mettendo in moto un numero infinito di ruote gigantesche, costruite tutte in acciaio, destinate a trasmettere la forza a tutte le macchine elettriche della Federazione Americana.

Lo spettacolo era spaventevole e nel medesimo tempo sublime.

In quei cent’anni, delle notevoli modificazioni erano avvenute nella cascata. Le rocce che dapprima la dividevano erano scomparse, e l’acqua si precipitava ormai senza intoppi, facendo girare vertiginosamente le ruote. Un numero infinito di grossi fili d’acciaio, destinati a portare a grandi distanze e suddividere la forza della cascata, si diramavano in tutte le direzioni.

«Ecco la grande officina elettrica degli Stati Uniti,» disse Holker «che mette in moto, senza un chilogrammo di carbon fossile, migliaia e migliaia di macchine. Quest’acqua ha fatto abbandonare tutte le miniere di combustibile.»

«Quale forza enorme deve produrre!» esclamò il dottore.

«Se l’Europa ne volesse, potremmo cedergliene una buona parte» rispose Holker.

«E quale modificazione ha subita la cascata!» disse Brandok.

«E si modificherà ancora» rispose Holker. «I nostri scienziati hanno già accertato che per giungere al punto attuale ha dovuto cambiare quattro volte. Nel primo periodo, che sarebbe durato 17.000 anni, la quantità d’acqua era di un terzo minore del volume attuale e con una caduta di soli sessanta metri ed una larghezza di 3 chilometri. Nel secondo, il fiume fu diviso in tre cascate di centoventotto metri e durò 10.000 anni. Ora siamo nel quarto. Andiamo a far colazione, e poi prenderemo il treno che ci condurrà a Quebec. Non faremo che una volata sola.»

Il Condor descrisse due o tre giri al di sopra della muggente cascata, entrando e uscendo dalla nube di pulviscolo, poi si diresse verso Buffalo per arrivare al treno.

Dopo mezz’ora si librava sopra la città, fra un gran numero di battelli volanti che si dirigevano per la maggior parte verso le cascate, carichi di forestieri giunti forse dall’Europa.

Il macchinista, dopo aver ricevuto dal suo padrone un ordine, fece scendere la macchina in una vasta piazza che era circondata da palazzoni di diciotto o venti piani, costruiti per la maggior parte in lastre metalliche e che non mancavano, all’esterno almeno, d’una certa eleganza.

«Andiamo a fare colazione al bar del Niagara» disse Holker. «Vi farete così un concetto degli alberghi moderni.»

Sbarcarono ed attraversarono la piazza che era quasi deserta, essendo mezzogiorno, ossia l’ora del pasto, ed entrarono in una sala vastissima, arredata con un certo lusso, il cui soffitto era sostenuto da una ventina di colonne di metallo.

Con viva sorpresa di Brandok e di Toby, in quel preteso ristorante non vi erano né tavole, né sedie e nemmeno un cameriere.

«Questo è un bar?» chiese Brandok.

«Dove si mangia benissimo, e a buoni prezzi anche» rispose Holker. «Qui potrete trovare forse qualche bistecca di maiale sapientemente rosolata, con contorno di rape.»

«E a chi devo ordinaria se non vedo nemmeno il padrone del bar o un cameriere?»

«Chissà dove sarà il padrone del ristorante. Ma la sua presenza non è necessaria.»

«E nemmeno un cameriere?»

«Per farne che?»

Brandok era rimasto a bocca aperta, guardando Toby che non sembrava meno sorpreso di lui.

«Voi dimenticate, signori, che siamo nel Duemila» disse Holker. «Vi mostrerò ora come i ristoranti d’oggi siano migliori di quelli d’un tempo e come il servizio sia inappuntabilmente pronto. Signor Brandok, prendete una tazza di brodo innanzitutto. Vi farà bene.»

«Vada pel brodo!»

Holker diede uno sguardo all’intorno, poi condusse i suoi compagni verso una di quelle colonne attorno alle quali, ad un metro dal suolo, si vedevano quattro mensole di metallo ed introdusse in alcuni buchi delle monete.

«Servizio automatico: brodo» aveva letto, con sorpresa di Brandok, su una piccola piastra situata sopra la mensola.

«Ah! ora comprendo!» esclamò Toby.

Non era trascorso mezzo minuto, che tre porticine s’aprirono e sopra la mensola comparvero, come per incanto, tre tazze di brodo fumante, assieme ad una salvietta e ad un cucchiaio di metallo bianco.

«Signor Brandok,» disse Holker «ai vostri tempi il servizio era così pronto?»

«Oh no, in fede mia!» esclamò il giovine. «A quale punto è giunta la meccanica! E come arrivano qui queste tazze?»

«Con una piccola ferrovia elettrica simile a quella che già avete veduta.»

«Ecco soppressi quei noiosi camerieri e anche il pessimo uso delle mance.»

«E dobbiamo mangiare in piedi?»

«È più spiccio, e poi gli uomini oggi hanno troppa fretta. Volete altri piatti? Qui vi sono venti colonne che rappresentano il menù della giornata. Basterà che introduciate una moneta da venticinque centesimi e avrete tutto quello che vorrete, compresi i dolci, vino, birra, liquori, caffè e tè.»

«Quante straordinarie invenzioni! Quante meraviglie!» esclamò Toby.

«E quanta praticità e quante comodità soprattutto» aggiunse il buon Brandok.

«Amici miei,» disse ad un tratto Holker «se cambiassimo un po’ l’itinerario del nostro viaggio? Avete fretta di visitare l’Europa?»

«Nessuna» risposero ad una voce Brandok e Toby.

«Volete che andiamo al polo nord? Ridiscenderemo in Europa per lo Spitzbergen.»

Se Brandok e Toby, a quella inaspettata proposta, non caddero per lo stupore, fu un vero miracolo.

«Andare al polo nord!» avevano esclamato.

«Da Quebec in cinque ore potremo raggiungere la galleria americana. A mezzanotte ci riposeremo fra i ghiacci dell’Oceano Artico, in un letto non meno comodo di quello su cui avete dormito la notte scorsa in casa mia.»

«Sei divenuto pazzo, nipotino mio, o vuoi burlarti di noi?» gridò Toby.

«Non ne ho alcuna voglia, zio mio. Comprendo che la proposta vi possa stupire, tuttavia vi prometto che la manterrò.»

«Che cosa hanno fatto dunque gli uomini del Duemila?»

«Delle cose meravigliose, ve lo dissi già. Terminiamo la nostra colazione, rimandiamo il Condor a Nuova York e poi prenderemo la ferrovia canadese.»

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
200 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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