Kitabı oku: «Le meraiglie del Duemila», sayfa 8
I MULINI DEL GULF-STREAM
Diciotto ore dopo, il Centauro, che non aveva cessato d’avanzare, entrava nella corrente del Gulf-Stream centoventi miglia a settentrione dell’isola di Madera; e, quello che più importava, vi arrivava con un tempo splendidissimo, essendosi il ciclone dileguato fino dal giorno innanzi.
Come si sa il Gulf-Stream è un fiume gigantesco che scorre attraverso l’Oceano Atlantico senza confondere le sue acque con quelle del mare che lo stringono da tutte le parti.
In nessun’altra parte del nostro globo esiste una corrente così meravigliosa. Essa ha un corso più rapido dell’Amazzoni, e più impetuoso del Mississippi e la portata di questi due fiumi, giudicati i più grandi del mondo, non rappresentano nemmeno la millesima parte del volume delle acque che quella corrente giornalmente conduce.
Questo «fiume del mare», come giustamente lo chiamano i naviganti, trae la sua origine dall’immenso raggruppamento di scogli e di scogliere che costituisce l’arcipelago delle isole Bahama nel Mar delle Antille, percorre tutto il Golfo del Messico, si slancia attraverso l’Oceano Atlantico, sale al nord prima, si piega quindi verso oriente, tocca le coste dell’Europa, conservando intatte le acque calde che trascina con sé per un tragitto di migliaia e migliaia di leghe.
«Ora voi vedrete un’altra delle più meravigliose invenzioni dei nostri scienziati» disse Holker, appena il Centauro si trovò fra le acque del Gulf-Stream. «Vedrete quale profitto gli uomini del Duemila hanno saputo trarre da questa grande corrente che ai vostri tempi era stata così trascurata. Pare impossibile come i vostri signori scienziati non si siano mai occupati della forza immensa che racchiudono queste acque.»
«Che cosa ne avete fatto voi di questo «fiume del mare»?» chiese Toby. «Tu mi hai parlato di mulini.»
«È vero, zio» rispose Holker.
«A che cosa possono servire?»
«Zio,» disse Holker «come voi sapete tutte le nostre macchine funzionano ad elettricità, quindi noi avevamo bisogno d’una forza enorme per le nostre gigantesche dinamo. L’America del Nord aveva le sue famose cascate; quella del Sud i suoi fiumi numerosi. L’Europa pochi corsi d’acqua con misere cascate, assolutamente insufficienti. Che cosa hanno dunque pensato i suoi scienziati? Sono ricorsi all’Oceano Atlantico e hanno fissati i loro sguardi sul Gulf-Stream. Ed infatti quali forze immense si potevano trarre da quel «fiume del mare»! Hanno fatto costruire delle enormi isole galleggianti, in lamiera d’acciaio, fornite di ruote colossali simili a quelle dei vostri antichi mulini e le hanno rimorchiate fino al Gulf-Stream, ancorandole solidamente. Oggidì ve ne sono più di 200, scaglionate presso le coste europee e quasi altrettante nel Golfo del Messico, incaricate di somministrare, senza quasi nessuna spesa, la forza necessaria agli stabilimenti dell’America centrale e anche delle coste settentrionali della Guayana, del Venezuela, della Columbia e del Brasile.»
«E come vien trasmessa quella forza? Mediante fili aerei?»
«No, zio, con gomene sottomarine simili a quelle che voi usavate anticamente per la telegrafia transatlantica.»
«Quale rapidità sviluppa la corrente del Gulf-Stream?» chiese Brandok.
«Dai cinque agli otto chilometri all’ora» rispose Holker.
«E possono resistere quelle isole agli uragani?»
«Sono solidamente ancorate e poi, anche se gli ormeggi si rompessero, gli uomini incaricati della sorveglianza dei mulini non correrebbero alcun pericolo, essendo quelle isole o meglio quei vasti galleggianti, insommergibili.»
«Ed ognuna di esse quanta forza può fornire?»
«Un milione di cavalli.»
«Che cosa non hanno utilizzato questi uomini!» esclamò Toby. «Perfino la corrente del Gulf-Stream a cui non davamo altra importanza che quella di diffondere un benefico calore sulle spiagge dell’Irlanda e della Scozia. Che uomini! Che uomini!»
«Signor Holker,» disse Brandok «in questi cento anni la corrente del Gulf-Stream ha subìto qualche deviazione?»
«Perché mi fate questa domanda?»
«Perché ai nostri tempi si temeva che l’apertura del Canale di Panama potesse produrre uno spostamento nella corrente, a causa della spinta delle acque del Pacifico.»
«Nessuna, signor mio» rispose Holker. «Chi potrebbe far deviare una corrente così grande?»
«E le coste inglesi continuano a risentire i benefici effetti dovuti al calore della corrente?»
«Se così non fosse, l’Irlanda, la Scozia e anche l’Inghilterra sarebbero state tramutate in terre quasi polari, giacendo sotto la medesima latitudine della Siberia.»
«L’isola N. 7!» si udì in quell’istante gridare al di fuori.
«Ecco il mulino più mostruoso che appartiene all’Inghilterra,» disse Holker.
Erano usciti frettolosamente dalla galleria, ciò che potevano fare senza correre alcun pericolo, essendo ormai le onde calmissime. A tre o quattro miglia verso il settentrione si scorgeva un’alta antenna, che si rizzava sopra una torre di forme tozze, colorata in rosso.
«L’antenna per la telegrafia aerea» disse Holker.
«Ne sono forniti tutti i mulini?» chiese Brandok.
«Sì, e ciò per precauzione. Se una tempesta sposta l’isola galleggiante e questa viene trascinata via, si avverte la stazione più vicina con un dispaccio ed i più potenti rimorchiatori disponibili accorrono per ricondurla a posto.»
Il Centauro che procedeva velocissimo, aiutato anche dalla corrente del Gulf-Stream che aveva in favore e che in quel luogo percorreva tre miglia e mezzo all’ora, in breve si trovò nelle acque del mulino N. 7.
Come Holker aveva già detto, era un enorme galleggiante in lamiera d’acciaio, di forma circolare, con una circonferenza di 400 metri; fornito nel centro di quattro immense ruote che la corrente faceva girare con notevole velocità.
Fra le ruote s’innalzavano quattro abitazioni, pure in ferro, ad un solo piano, munite di parafulmini; destinate una come magazzino dei viveri, le altre ai guardiani.
Quattro gradinate mettevano sul mare, fornite ognuna d’una gru sostenente una scialuppa.
I guardiani, una dozzina di persone, vedendo avvicinarsi il mutilato vascello volante, si erano affrettati a chiedere premurosamente se avevano bisogno di soccorsi.
Quando ebbero ricevuta una risposta negativa, invitarono i viaggiatori a salire sull’isola a visitare le loro abitazioni, ed il macchinario destinato a trasmettere in Inghilterra la forza prodotta dalle gigantesche ruote.
La minuscola isola era tenuta con pulizia scrupolosa. Vi erano piccoli viali fiancheggiati da casse di ferro piene di terra, entro cui maturavano cavoli, zucche, carote ed altri vegetali mangiabili, o dove finivano di seccare, appesi a delle funi, grossi pesci pescati nella corrente.
«Come vi trovate?» chiese Brandok, ad uno dei guardiani che serviva loro di guida.
«Benissimo, signore.»
«Non vi annoiate in questo isolamento?»
«Per niente, signore. Vi è sempre da fare qualche cosa qui, e poi ci dedichiamo alla pesca e anche alla caccia, venendo qui numerosi uccelli marini che ci offrono degli arrosti eccellenti. Ogni mese poi il governo inglese manda qui una nave per provvederci di viveri e di quanto possa occorrerci. Per di più ogni anno abbiamo un mese di permesso che trascorriamo in patria. Che cosa possiamo desiderare di meglio?»
«E delle tempeste?»
«Oh! Ce ne ridiamo, signore, e non turbano affatto i nostri sonni.»
I tre amici rimasero qualche ora sull’isolotto galleggiante, e vuotarono alcune bottiglie coi guardiani; poi verso le quattro del pomeriggio il Centauro riprendeva la corsa verso le coste dell’Europa, per sbarcare il galeotto nella città sottomarina di Escario.
LA CITTÀ SOTTOMARINA
Continuando l’oceano a mantenersi calmo, dopo l’ultima sfuriata del ciclone, il Centauro avanzava senza alcuna difficoltà come un vero piroscafo, galleggiando magnificamente.
Non poteva competere certo coi veri transatlantici, dotati ormai d’una velocità straordinaria; nondimeno nulla aveva da perdere in confronto a quelli d’un secolo prima, che anzi avrebbe potuto vincere facilmente nella corsa.
Brandok e Toby si divertivano immensamente a quel viaggio marittimo. Passeggiavano per delle ore intere sulla cima della galleria, dove si trovava un piccolo ponte di metallo che andava da prora a poppa, respirando a pieni polmoni la salubre brezza marittima, fumavano dei sigari eccellenti che regalava loro il capitano e facevano soprattutto onore ai pasti, essendo ambedue dotati d’un appetito invidiabile.
E si trovavano tanto meglio perché non provavano più quegli strani turbamenti e quei sussulti nervosi, che li avevano non poco inquietati quando passavano sopra le grandi città americane e sopra le turbine gigantesche delle cascate del Niagara.
Holker non li lasciava un minuto, discutendo animatamente sui futuri e straordinari progetti che stavano studiando gli scienziati del Duemila, e dando loro spiegazioni su mille cose che ancora non avevano potuto vedere, causa la rapidità del loro viaggio.
«Signor Holker» disse un pomeriggio Brandok, mentre stavano prendendo il caffè sul ponte della galleria. «Come troveremo noi l’Europa? Come quella d’un secolo fa o sono avvenuti dei mutamenti politici nei diversi stati?»
«Sì, molti mutamenti, e ciò per mantenere la pace fra i diversi popoli, eliminando così per sempre le guerre» rispose il nipote di Toby.
«Che cosa è avvenuto della grande Inghilterra?»
«È ora una piccola Inghilterra, sempre ricca ed industriosissima.»
«Perché dite piccola?»
«Perché ormai ha perduto tutte le sue colonie, staccatesi a poco a poco dalla madre patria. Il Canada è uno stato indipendente; l’Australia pure, l’Africa meridionale non ha più nulla di comune coll’Inghilterra. Perfino l’India forma uno stato a parte.»
«Sicché quel grande impero coloniale?» chiese Toby.
«Si è interamente sfasciato» rispose Holker.
«Senza guerre?»
«Tutte quelle colonie si erano unite in una lega per dichiararsi indipendenti il medesimo giorno, e all’Inghilterra non è rimasto altro da fare che rassegnarsi per non averle tutte addosso.»
«Già fin dai nostri tempi l’impero cominciava a sgretolarsi» disse Brandok. «E la Russia?»
«Ha perso la Siberia, diventata anch’essa indipendente, con un re appartenente alla famiglia russa. L’Austria ha perduto i suoi arciducati tedeschi e l’Ungheria, riconquistata la sua indipendenza, occupa ora la Turchia europea.»
«E gli arciducati?»
«Sono stati assorbiti dalla Germania, mentre l’Istria ed il Trentino sono stati restituiti all’Italia assieme alle antiche colonie veneziane della Dalmazia.»
«Sicché l’Italia?…»
«È oggidì la più potente delle nazioni latine, avendo riavuto anche Malta, Nizza e la Corsica.»
«E la Turchia?»
«È stata respinta definitivamente nell’Asia Minore e nell’Arabia, e non ha conservato in Europa che Costantinopoli, città che era ambita da troppe nazioni, e che poteva diventare una causa pericolosa di discordia permanente. Ah! dimenticavo di dirvi che è sorto un nuovo stato.»
«Quale?»
«Quello di Polonia, formato dalle province polacche della Russia, dell’Austria e della Germania. L’Europa cinquant’anni fa si agitava pericolosamente, minacciando una guerra spaventosa. I monarchi ed i capi delle repubbliche pensarono quindi a regolare meglio la carta europea mediante un grande congresso che fu tenuto all’Aia, sede dell’arbitrato mondiale. Fu convenuto di restituire a tutti gli stati le province che loro appartenevano per diritti geografici e storici, e di crearne anche uno nuovo, la Polonia, che minacciava di produrre la guerra fra la Russia, l’Austria e la Germania. Così la pace fu assicurata mercé l’intervento poderoso delle confederazioni americane e delle antiche colonie inglesi, che ridussero a dovere le nazioni recalcitranti. Ora una pace assoluta regna da dieci lustri nel vecchio continente europeo.»
«E chi regola le questioni che potrebbero insorgere?»
«La corte arbitrale dell’Aia che è stata ormai riconosciuta da tutte le nazioni del mondo. D’altronde, come vi dissi, al giorno d’oggi una guerra sarebbe impossibile e condurrebbe al più completo sterminio le nazioni belligeranti.»
«Oh!» esclamò in quel momento Toby che si era levato. «S’alza la luna laggiù! Come sembra mostruosa! Io non l’ho mai veduta apparire così grossa. Che anche quel satellite si sia modificato?»
Holker si era alzato anche lui.
Le tenebre erano incominciate a calare, e verso oriente si vedeva scintillare a fior d’acqua un mezzo disco di forme gigantesche, che proiettava intorno a sé una luce intensa, leggermente azzurrognola.
«La scambiate per la luna!» esclamò Holker. «V’ingannate zio.»
«Che cosa può essere?»
«La cupola della città sottomarina d’Escario.»
«Io vorrei sapere perché voi avete fondate delle città sottomarine che devono essere costate somme enormi.»
«Semplicemente per sbarazzare la società dagli esseri pericolosi che ne turbano la pace. Ogni stato ne possiede una, il più lontano possibile dalle coste, e vi manda la feccia della società, i ladri impenitenti, gli anarchici più pericolosi, gli omicidi più sanguinari.»
«Con un gran numero di guardiani?»
«Nemmeno uno, mio caro zio.»
«Allora si massacreranno.»
«Tutt’altro. Al minimo disordine che nasce, sanno che la città viene affondata senza misericordia. Questa minaccia ha prodotto degli effetti insperati. La paura doma quelle belve, le quali finiscono per ammansirsi.»
«E chi li governa?»
«Questo è un affare che riguarda loro. Si eleggono dei capi e pare che finora regni un accordo mirabile in quei penitenziari; E poi vi è un’altra cosa che concorre a renderli docili.»
«Quale?»
«L’incessante lotta colla fame.»
«I governi non passano viveri a quei condannati?»
«Passano delle reti, delle macchine per eseguire varie produzioni, come stoffe, stivali, vasellami e così via che poi vendono alle navi che approdano, comperando in cambio le materie prime necessarie a quelle industrie, tabacco, viveri eccetera.»
«Qualche volta soffriranno la fame?» disse Brandok.
«L’oceano fornisce loro cibo più che sufficiente. I pesci, attratti dalla luce che mandano le lampade che illuminano quelle città, accorrono in masse enormi. Gli abitanti ne salano anzi in grande quantità e li mandano in Europa e anche in America.»
«E l’acqua?»
«Hanno macchine che ne forniscono loro quanta ne desiderano, facendo evaporare quella del mare.»
«Sicché oggi i galeotti non costano più nulla alla società» disse Toby.
«Costano la sola forza necessaria per far agire le loro macchine, energia che viene fornita per lo più dai mulini del Gulf-Stream.»
«Devono esser costate somme enormi quelle città!» disse Brandok.
«Non dico di no, ma quale vantaggio non ne ritraggono ora gli stati e la società? I milioni che prima si spendevano nel mantenimento di tanti birbanti, rimangono ora nelle casse dei governi. Devo aggiungere poi che lo spauracchio di essere mandati nelle città sottomarine ha fatto diminuire immensamente il numero dei delitti.»
«Non correremo alcun pericolo entrando, o meglio, scendendo ad Escario?» chiese Toby.
«Nessuno, non dubitate. Quelli sanno che qualunque cattiva azione usata ad uno straniero segnerebbe la sommersione della loro città.»
«Una misura un po’ inumana, se vogliamo.»
«Che li tiene a freno però, e come! Eccoci giunti. Il capitano deve aver avvertito gli abitanti del nostro arrivo; sento il nostro apparecchio elettrico funzionare.»
Il Centauro si era fermato dinanzi ad una immensa cupola che doveva avere almeno 400 metri di circonferenza, formata d’armature d’acciaio d’uno spessore straordinario e di lastre di vetro di forma rotonda incastrate solidamente e molto grosse.
Un graticolato di ferro copriva tutta la cupola per meglio preservarla dall’urto delle onde, e una galleria vi correva all’intorno, piena di reti messe ad asciugare.
Sulla cima, dove pareva si aprisse un foro, erano comparsi due uomini piuttosto attempati, che indossavano delle vesti di panno grossolano e che calzavano alti stivali da mare.
Il capitano del Centauro accostò con precauzione la nave ad una delle quattro scale di ferro che conducevano sulla cima della scintillante cupola, invitando i viaggiatori a seguirlo.
«Qui sono conosciuto» disse. «Non avete da temere.»
Precedette i tre amici e salutò uno dei due uomini con un cortese e familiare:
«Buona sera, papà Jao. Come va la vita qui?».
«Benissimo, capitano» rispose l’interrogato, levandosi cortesemente il cappello dinanzi ai tre viaggiatori.
«Sono sempre tranquilli i vostri amministrati?»
«Non ho da lagnarmi di loro. E poi, perché dovrebbero diventar cattivi? Viviamo nell’abbondanza, e nulla ci manca.»
«Vi sono questi signori che desiderano visitare la vostra città. Rispondete della loro sicurezza?»
«Perfettamente: siano i benvenuti.»
«Il governatore della colonia» disse il capitano, volgendosi verso Brandok, Toby ed Holker.
«Seguitemi, signori» disse il galeotto, con un amabile sorriso.
«Ah! devo lasciarvi qui un espulso dall’Europa, un suddito inglese che consegnerete più tardi a qualche nave della sua nazione» disse il capitano. «A me è d’imbarazzo, perché un ciclone mi ha guastato le ali e le eliche.»
«Datemelo pure; ci penserò io. Andiamo, signori, perché fra mezz’ora farò suonare il silenzio e allora si spegneranno tutte le lampade.»
Condusse i tre viaggiatori ed il capitano dinanzi ad una specie di pozzo che s’apriva nel mezzo della cupola dove si trovava pronto un ascensore.
Li fece sedere sulle panchine e l’apparecchio scese rapidamente passando fra un cerchio di lampade a radium che versavano torrenti di luce in tutte le direzioni.
Con visibile stupore di Brandok e di Toby, i quali stentavano a credere ai loro occhi, si trovarono su una vasta piazza rettangolare, di cento metri di lunghezza su sessanta di larghezza, tutta cinta da bellissime tettoie coi tetti di zinco, divise in piccoli scompartimenti che formavano le cabine destinate ai galeotti. Dietro quelle se ne vedevano delle altre fornite di tubi di metallo.
Sulla piazza un numero immenso di barili, di pertiche e di reti si trovavano ammucchiate alla rinfusa.
«La mia città» disse il governatore «è tutta qui.»
«Quanti abitanti conta?» chiese Toby.
«Milleduecento, sessanta tettoie e venti opifici, dove lavorano coloro che non si dedicano alla pesca.»
«Dove posa la città?» chiese Toby.
«Sulla cima d’un isolotto sommerso, a quindici metri di profondità.»
«Non prova scosse la città quando al di fuori infuria la tempesta?»
«Nessuna, signore; le pareti che sono formate da lastre d’acciaio collegate con armature solidissime e trattenute da enormi colonne di ferro, piantate profondamente nella roccia, possono sopportare qualsiasi urto. E poi dovreste sapere che a otto o dieci metri sotto il livello dell’acqua, le onde non si fanno sentire. È la cupola che sopporta tutto l’impeto dei cavalloni e può sfidarli impunemente.»
«Non è meraviglioso tutto ciò, signor Brandok?» chiese Holker.
«Questo è un nuovo mondo» rispose l’americano. «Mai mi sarei aspettato di vedere, dopo soli cento anni, tante straordinarie novità!»
Il capitano del Centauro guardò Brandok con stupore.
«Cent’anni, avete detto!» esclamò.
«Scherzavo» rispose l’americano. «Ditemi, vi obbediscono sempre i vostri sudditi?»
«Io non comando mai loro di fare questa o quella cosa» rispose il capo della città sottomarina. «Chi non lavora non mangia, perciò sono costretti a fare tutti qualche cosa senza che io glielo imponga.»
«Non sono mai successe rivoluzioni?» chiese Toby.
«A quale scopo farne? Io non sono un re, io non rappresento nessun potere. Se non sono contenti di me mi dicono di lasciare il posto ad un altro, e tutto finisce lì.»
In quel momento un cupo rimbombo si ripercosse entro la immensa cupola facendo vibrare le vetrate.
«È un tuono questo» disse il capitano del Centauro, la cui fronte si era oscurata. «Che questa volta ci piombino addosso tutte le disgrazie?»
«Siamo nella stagione del cambiamento degli alisei ed il tempo diventa brutto da un momento all’altro.»
«Risaliamo, signori.»
La piccola comitiva prese posto nell’ascensore ed in pochi momenti si trovò sull’immensa cupola.
L’Atlantico aveva assunto un brutto aspetto, ed il cielo era più brutto ancora.
Da ponente giungevano delle grosse ondate e delle fosche nuvole si avanzavano con velocità vertiginosa. In lontananza il tuono rullava fragorosamente.
«È un vero uragano che sta per scoppiare, signori miei» disse il capitano del Centauro. «Con una nave così avariata io non oserò riprendere la corsa verso l’Europa.»
«Saremo dunque costretti a passare la notte qui?» chiese Brandok preoccupato.
«Abbiamo dei letti comodi e posso offrirvi anche una buona cena; a base di pesce, s’intende» disse Jao. «I miei compagni non vi daranno alcun fastidio, ve l’assicuro.»
«Ho delle preoccupazioni però per la mia nave» disse il capitano del Centauro. «Le onde, con la loro forza, possono scaraventarla addosso alla cupola.»
«Il fondo è buono intorno a questo scoglio e le vostre ancore la terranno ferma.»
«Vi è un’altra cosa però che m’inquieta. I vostri compagni dormono sempre, la notte?»
«Perché mi fate questa domanda?» chiese Jao stupito.
«Rispondetemi prima.»
«Quando infuria la tempesta, e la luna manca, preferiscono riposarsi, perché getterebbero inutilmente le reti. Con questa brutta notte non lasceranno i loro letti.»
«Me lo assicurate?»
«Rispondo di loro.»
«L’ho chiesto perché porto un carico di alcool destinato non so a quali combinazioni chimiche.»
«Nessuno lo sa, quindi potrete dormire tranquilli» rispose Jao. «E poi i miei sudditi, come li chiamate voi, a quest’ora devono aver perduta l’abitudine di bere, poiché è severamente proibito vendere loro bevande spiritose. La nave che ce ne fornisse verrebbe subito confiscata dai «vigilanti».»
«Chi sono?» chiese Brandok che era sempre il più curioso di tutti.
«Navi speciali appartenenti a tutte le nazioni, incaricate di vigilare su tutti gli oceani e di prestare aiuto ai naviganti. Signori, volete accettare una cena nella mia modesta casetta, ed un letto? Può essere pericoloso dormire sul Centauro con quest’uragano che si avanza.»
«Ed i miei uomini?» chiese il capitano.
«Quando avranno ben ancorata la nave scenderanno anche loro nella città sottomarina» rispose Jao. «Li farò ospitare presso alcuni forzati che godono buona stima.»
«Una grande stima» brontolò Brandok.
«Andiamo signori» disse Jao.
L’uragano scoppiava in quel momento con furia inaudita. Raffiche furiose spazzavano l’oceano, sollevando gigantesche ondate le quali si frangevano, con scrosci e con muggiti spaventevoli, contro le pareti e la cupola della città sottomarina.
Il Centauro, vivamente sballottato, s’alzava come una palla di gomma quantunque avesse gettate le sue ancore.
«Cattiva notte» disse il capitano, scrollando la testa. «Non so se la mia povera nave potrà resistere.»
Dopo aver avvertito l’equipaggio di abbandonarla al più presto e di raggiungerli, presero posto nell’ascensore e discesero nella piccola piazza che era ancora splendidamente illuminata e dove si trovavano parecchi forzati, ancora intenti a rammendare le loro reti perché fossero pronte appena calmatosi l’oceano.
Jao condusse i suoi ospiti verso una bella casetta, tutta costruita in lamine di ferro, divisa in quattro minuscole stanze, che sembravano più che altro delle cabine, essendo lo spazio troppo prezioso in quella strana città, per permettersi il lusso di averne di più ampie.
Jao li introdusse nel suo gabinetto particolare che serviva nel medesimo tempo da sala da pranzo, li fece sedere, e servì loro, egli stesso (non avendo servi a sua disposizione, poiché anche il governatore non poteva godere prerogative speciali) degli eccellenti pesci cucinati al mattino e delle pagnotte.
La cena, quantunque composta esclusivamente di prodotti di mare con contorni di piccole alghe sapientemente marinate e d’una sola bottiglia di vino che Jao aveva forse serbato per qualche grande occasione, fu assai gustato dai naviganti del Centauro ai quali l’appetito non faceva difetto.
Essendo tutti stanchi, il governatore li condusse nella stanza loro destinata, un’altra cabina, appena capace di contenere Brandok, Toby e Holker.
Il capitano del Centauro li aveva poi lasciati per vedere come si svolgeva l’uragano e mettere in salvo almeno il suo equipaggio.
«Ebbene, Toby» disse Brandok quando furono soli. «Pare che il mondo sia cambiato, ma che la natura non abbia perduto nulla della sua violenza brutale. Questi uomini moderni, veramente meravigliosi, non sono riusciti ad imbavagliarla.»
«Chissà che un giorno non riescano a compiere anche quel miracolo» rispose Toby. «Come ai nostri tempi hanno saputo imprigionare il fulmine, un giorno o l’altro questi esseri straordinariamente possenti, finiranno per mettere a dovere anche i furori degli oceani e gli impeti dei venti. Io sono fermamente convinto che più nulla sarà impossibile agli scienziati del Duemila.»
«In attesa che vi riescano, io dormo,» disse Brandok. «Non so da che cosa possa derivare, ma da qualche tempo mi trovo spesso tutto spossato e provo anche degli strani perturbamenti al cervello. Quando la mattina mi sveglio, i miei nervi vibrano tutti come se ricevessero delle scariche elettriche. Sapresti spiegarmi tu, che sei stato cent’anni fa un dottore, questi fenomeni che, te lo confesso francamente, talvolta mi spaventano?»
«Io ormai non valgo assolutamente nulla di fronte ai medici moderni» disse Toby, con un sospiro. «Tuttavia li attribuisco alla grande tensione elettrica che regna ormai su questo povero pianeta. Spero però che finirai coll’abituarti.»
Si gettarono sui lettucci, spensero la lampadina a radium e chiusero gli occhi, mentre in lontananza il tuono rumoreggiava così fortemente da far tremare i vetri della cupola. Dormivano da parecchie ore, quando furono improvvisamente svegliati da un urlio spaventevole e da un fracasso indiavolato.
Toby pel primo era balzato giù dal lettuccio, riaccendendo la lampadina.
«Che cosa c’è?» chiese Brandok vestendosi rapidamente.
«Che la cupola abbia ceduto?» gridò Holker, spaventato.
«Non lo so» rispose Toby, che non era meno impressionato. «Qualche cosa di grave di certo però.»
In quel momento la porta s’aprì ed il capitano del Centauro si precipitò nella cabina, tenendo in mano una grossa rivoltella elettrica.
«I forzati sono diventati pazzi!» gridò. «Seguitemi subito.»
«Pazzi!» esclamarono Brandok, Toby e Holker. «Spiegatevi.»
«Tacete, più tardi! Fuggite, prima che succeda un massacro.»
I tre amici si slanciarono fuori della casetta senza fare altre domande. Jao li aspettava. Il pover’uomo si strappava i capelli e bestemmiava in tutte le lingue.
Le lampade erano state riaccese sulla piccola piazza e sotto quegli sprazzi di luce intensa si vedevano agitarsi forsennatamente gli abitanti della città sottomarina.
Il capitano aveva avuto ragione a dire che erano divenuti tutti pazzi.
Urlavano, saltavano, si picchiavano, si gettavano a terra rotolandosi fra un frastuono orrendo, prodotto da sbarre di ferro che picchiavano furiosamente le pareti metalliche che li difendevano dall’invasione delle acque dell’oceano. «Ma che cos’è dunque avvenuto?» chiese Toby.
«Quello che temevo» rispose il capitano del Centauro. «Non sentite questo odore?»
«Sì, la città è appestata dall’alcool.»
«Il mio, quello che dovevo trasportare ad Amburgo e che questi miserabili hanno saccheggiato.»
«Ed il Centauro?» chiese Brandok.
«Che ne so io? Ignoro se galleggi ancora o se sia affondato.»
«Ed i vostri marinai?»
«Non li ho più riveduti.»
«Amici,» disse Toby «non ci rimane che prendere il largo, prima che tutti questi furfanti diventino pazzi furiosi. Finché avranno dell’alcool continueranno a bere e potrebbero diventare pericolosi. Salviamoci più in fretta che possiamo.»
Girarono dietro le case guidati dal vecchio Jao che piangeva di rabbia, e si diressero verso l’ascensore, mentre i forzati, che non cessavano di vuotare barilotti di alcool, s’abbandonavano ad una danza scatenata.
Fortunatamente l’ascensore si trovava piuttosto lontano dalla piazza e non era stato guastato.
Salendo automaticamente, senza bisogno di nessuno, i cinque uomini vi balzarono dentro ed in pochi secondi si trovarono sulla cupola.
Un uragano spaventevole imperversava sull’Oceano Atlantico.
Ondate alte come montagne si rovesciavano, con spaventevoli muggiti, contro le balaustrate di ferro, torcendole come se fossero di stagno, e raffiche tremende passavano sopra la città sottomarina con fischi assordanti.
Una nuvolaglia nera come la pece correva sbrigliatamente pel cielo, scatenando lampi e tuoni.
I cinque uomini si erano avanzati verso la parte meridionale della cupola, tenendosi bene stretti alle balaustrate per non farsi trascinar via dal vento che aveva acquistato una velocità incalcolabile, quando un uomo sorse quasi sotto i loro piedi, gridando:
«Indietro, birbanti o vi uccido».
«Katterson!» esclamò il comandante del Centauro.
«Voi, capitano!» esclamò quell’uomo che non era altro che il pilota della nave aerea. «Credevo che vi avessero già ucciso.»
«Non ancora. Dov’è il Centauro? Resiste ancora?»
«È scomparso, capitano,» rispose Katterson «insieme al galeotto che avevamo sbarcato e ad una dozzina di forzati.»
«Ed i miei marinai?»
«Sono stati sorpresi nel sonno, fatti prigionieri e mi pare che abbiano fatto, non so se volontariamente o per salvare la vita, causa comune cogli abitanti di questa maledetta città, poiché prima di fuggire quassù li ho veduti bere insieme a loro.»
«E la mia nave è scomparsa?»
«L’hanno portata via, dopo avere scaricato tutti i barili d’alcool. A quanto ho potuto capire, mentre noi dormivamo, i galeotti hanno tramata una congiura per impadronirsi del carico e fare una spaventevole baldoria. Il nostro prigioniero, più furbo degli altri, si è invece imbarcato con dei suoi amici che ha trovato qui ed ha preso il largo.»
«E noi che cosa faremo ora?» chiese Brandok, il quale però non sembrava molto impressionato.
«Saremo costretti ad aspettare il passaggio di qualche nave» rispose il capitano. «Io non vi consiglierei di ridiscendere finché quei pazzi posseggono dell’alcool.»
«Ne avevate molto a bordo?» chiese Toby.
«Trenta tonnellate.»
«Tanto da bere a crepapelle per una settimana» disse Brandok. «Bell’affare se una nave non verrà a toglierci d’impiccio.»