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Kitabı oku: «Le novelle marinaresche di mastro Catrame», sayfa 8

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– Non vi era più dubbio: avevamo incontrato la nave-feretro!…

– Il delirio del nostro capitano non cessò più; il disgraziato era diventato pazzo furioso. Morì tre giorni dopo il nostro arrivo al Giappone e le sue ultime parole furono:

– «I feretri!… I feretri!… Oh! le orribili code!…»

– Ora quel coraggioso capitano, vittima della propria audacia, riposa nel piccolo cimitero europeo di Yokohama. Pace alla sua salma!…

Papà Catrame tacque per alcuni istanti, poi, guardando il nostro comandante, gli chiese a bruciapelo:

– Cosa ne dite voi?…

Il capitano invece di rispondere si alzò, prese papà Catrame per un braccio, lo fece sedere fra l’uditorio e, accomodatosi sul barile, reclamò con un gesto il silenzio di tutti.

Noi, sorpresi per quella novità e curiosi di sapere cosa stava per succedere, aprimmo ben bene gli occhi, tenendoli fissi su di lui. Anche il vecchio mastro era sorpreso, ed era diventato un po’ inquieto.

– Dovete sapere, miei lupicini, – cominciò il nostro capitano, – che esiste un popolo industriosissimo, d’una frugalità senza pari, di un’avarizia incredibile, il quale ha una tendenza assai accentuata per l’emigrazione.

– La terra che egli occupa è d’una fertilità prodigiosa, le sue ricchezze minerali sono incredibili, l’industria occupa milioni di braccia; ma non basta per mantenere tutto quel popolo, che è il più numeroso dell’Asia, poiché la sua cifra ascende a circa quattrocentocinquanta milioni.

– Adunque una parte di quel popolo è costretta ad emigrare, sebbene la sua emigrazione non sia di lunga durata. Lascia la patria momentaneamente, invade le contrade più ricche del globo, si adatta a tutti i lavori dai più lucrosi a quelli più meschini, mangia quel tanto che basta per tenersi in piedi, accumula soldo su soldo, e un bel giorno ritorna all’ombra delle sue pagode a scaglie di ramarro, dei suoi tetti di porcellana, delle sue splendide torri a nove piani con le più ardite arcate.

– Muoiono taluni di quegli emigrati in terra straniera? Non importa: la loro salma riposerà egualmente sulla terra della patria, e i bonzi del suo villaggio o della città andranno egualmente a pregare sulla sua fossa.

– Questo popolo, voi l’avrete indovinato già, è il cinese.

– Alcuni anni or sono, i figli del Celeste Impero avevano fissato gli sguardi sulle coste americane bagnate dalle onde dell’Oceano Pacifico. La notizia della favolosa scoperta dell’oro nella nuova California aveva attraversato l’oceano, ed ecco salpare a migliaia e migliaia i codati figli del Celeste Impero, avidi di approdare anch’essi a quella preziosa regione.

– Bastarono pochi anni, anzi pochi mesi si può dire, perché tutte le coste fossero infestate da quegli emigrati. Il piccolo commercio cadde in gran parte nelle loro mani, invasero tutti i posti disponibili, cacciarono i braccianti e gli artieri, facendo loro una guerra accanita a colpi di ribasso sulle mercedi, e le loro colonie in breve divennero numerose e fiorenti.

– Ma il clima nuovo, le privazioni che s’imponevano per accumulare rapidamente grandi ricchezze, le fatiche od altro, facevano dei grandi vuoti fra quella popolazione di emigrati, e moltissimi non ritornarono più in patria a godere i risparmi e a riposare sul suolo natio. E il morire all’estero rincresceva assai ai gialli figli del Celeste Impero.

– Gli intraprendenti americani fiutarono un buon affare, ed una società si costituì in breve, offrendo agli emigrati cinesi di trasportare in patria le salme dei loro compatrioti.

– Ecco comparire adunque le navi-feretro, lugubri vascelli che salpavano con un carico completo di morti.

– Con un processo speciale si impediva al morto di infracidire subito, lo si rinchiudeva in un feretro, lo si portava a bordo e dopo cinque o sei settimane lo si sbarcava nei porti del Celeste Impero, e i parenti lo tumulavano nella terra natia.

– Queste navi esistono ancora, salpano ogni mese da San Francisco di California o da Monterey, e i soci della compagnia fanno splendidi guadagni alle spalle dei poveri morti. Cosa ne penserete ora dell’incontro fatto da mastro Catrame?

– Che era una nave piena di cinesi morti portati in patria, – risposero i marinai, ridendo come pazzi, mentre il viso di papà Catrame si allungava a vista d’occhio.

– È proprio così, vecchio mastro, – disse il capitano. – La nave dei morti, che hai veduto, non era altro che una nave-feretro americana che trasportava verso la Cina un carico di defunti. Ignoro i motivi che avevano costretto l’equipaggio americano ad abbandonarla; ma forse si era aperta improvvisamente una falla, che poi si rinchiuse forse per qualche feretro incastratosi nell’apertura o per altra cagione.

– Avendo ancora le vele sciolte, poté continuare a navigare, finché trovò un ostacolo, forse un banco sottomarino che l’arrestò. Se il tuo capitano non avesse ignorato l’esistenza delle navi-feretro della compagnia americana, non sarebbe diventato pazzo per lo spavento; e forse a quest’ora sarebbe ancora vivo ed occupato a vuotare un buon fiasco di mezcal in qualche ottima posada di Acapulco…

Si alzò e, battendo una mano sulle spalle del mastro che era diventato pensieroso:

– Hai compreso? – disse: – bada, papà Catrame, di non sognare la nave-feretro ed i suoi morti.

Ci allontanammo, chi per montare il quarto di guardia e chi per recarsi a dormire; ma il mastro rimase seduto al suo posto, immerso in profondi pensieri.

L’apparizione del naufrago

La condanna di papà Catrame stava per terminare; ancora una novella e poi la sua lingua, dopo tanto lavoro, doveva alfine riposare, e molto probabilmente per un bel pezzo. Era però tempo: poiché la nostra nave stava per avvistare le coste indiane, e se il vento avesse continuato a mantenersi buono, il giorno seguente dovevamo scoprire le vette delle grandi montagne.

Disgraziatamente per mastro Catrame, che calcolava appunto su quel vento per giungere in India prima della sera e quindi evitare la novella che gli restava da raccontare, alla notte successe una calma quasi completa, che durò per tutto il giorno.

Quando il sole scomparve, eravamo ancora assai lontani dalla costa, forse un trecento miglia. Papà Catrame parve dapprima contrariato e tardò una buona mezz’ora prima di lasciare la cala; ma finalmente risalì sul ponte e non ci sembrò di cattivo umore.

Forse si consolava pensando che era l’ultima sera. Chissà però se invece non gli spiacesse di finire la pena, addolcita dalle eccellenti bottiglie del nostro capitano? Amava tanto quel delizioso Cipro, che non gli si faceva ingiuria a pensarlo.

– Animo, papà Catrame, – disse il capitano, quando lo vide seduto sul famoso barile: – tira fuori la tua miglior novella, allegra o funebre non importa; ma bada che sia interessante. Se piacerà a tutti, in compenso ti regalerò… Indovina.

– Due bottiglie, – rispose il mastro, leccandosi le labbra.

– No: il barile che ti serve da trono.

– Cosa volete che ne faccia?

– Per Giove! Lo spillerai, vuotandolo un po’ per sera, ma senza ubriacarti, veh!…

– Me lo darete pieno? – chiese il vecchio, i cui occhi brillarono di cupidigia.

– Pieno, e di quel Cipro che tanto ti piace.

– Ventre di balena! Mi ubriacherò un’altra volta per guadagnare un altro barile.

– Alto là! papà Catrame: ché alla seconda sbornia ti cambio pena e ti carico di ferri per un mese. Sai il proverbio: «Uomo avvisato…» con quel che segue. Ora lasciamo le chiacchiere e narraci la tua ultima novella.

– Il titolo! – esclamarono tutti.

– «L’apparizione del naufrago», – rispose papà Catrame. – Fate silenzio e lasciatemi parlare.

Stava per aprire la bocca, quando lo vedemmo improvvisamente trasalire e poi diventare pallido pallido, mentre la fronte gli si imperlava di sudore. Il suo viso manifestava una viva ansietà.

– Cosa avete? – chiedemmo.

– Ti senti male, papà Catrame? – domandò alla sua volta il capitano alzandosi.

Il mastro non rispose: pareva che ascoltasse con profondo raccoglimento.

– Non avete udito nulla? – chiese egli, dopo qualche istante.

– Nulla, – rispondemmo stupiti.

Egli mandò un gran sospiro, poi, tergendosi il sudore, mormorò:

– Mi pareva di averla udita.

– Che?… – chiese il capitano.

– La voce di mastro Aniello.

– Chi è questo Aniello?…

– Un mio amico morto sul mare… To’! È strano… si direbbe che è una mania… eppure mi pare sempre di udire quel grido tutte le volte che penso a lui!… Quanti misteri nasconde questo mare!…

Papà Catrame tacque: pareva che ascoltasse ancora: ma non si udivano che i sibili del venticello notturno attraverso l’attrezzatura e il gorgoglìo dell’acqua, tagliata dall’acuto sperone del veliero.

Nessuno di noi osava rompere il silenzio di quel vecchio originale: si sarebbe però detto che una vaga paura ci aveva invasi, e anche il capitano pareva, forse per la prima volta, impressionato.

Finalmente papà Catrame si scosse, si passò una mano sulla fronte quasi volesse cacciare lontano da sé non so quale doloroso ricordo, poi cominciò:

– Non avete mai udito parlare dell’apparizione dei naufraghi? Io non avevo mai creduto che un amico affezionato o un parente adorato potesse ricomparire dopo la sua morte; ma ho dovuto arrendermi all’evidenza di questo strano fenomeno, se fenomeno può chiamarsi.

– Le leggende del mare sono piene di tali apparizioni, e, per quanto sembrino incredibili, vennero registrate da molti e molti autori.

– I bretoni affermano che, quando un marinaio muore durante una tempesta, comparisce la notte seguente sulle spiagge del paese natio e ne dà l’annuncio con grida lamentevoli; che quando una moglie muore nella propria casa, apparisce al marito che si trova lontano, sullo sterminato mare, fra le onde del primo uragano.

– Anche gl’inglesi credono a queste apparizioni: è nota la storia dell’apparizione di una giovane donna, annegatasi sul mare e che per lungo tempo fu vista aggirarsi sulle spiagge gallesi coperta di alghe e di conchiglie, e si dice che ancora oggi, durante certe notti oscure e tempestose, se ne odono i lamenti; ed è pure nota e ancora commentata in tutta la marina britannica la fine miseranda d’uno dei più brillanti e audaci ufficiali di mare, diventato pazzo in seguito ad un bacio ricevuto da sua sorella morta in Inghilterra, la quale gli era apparsa nella cabina nello stesso momento in cui cessava di vivere.

– Se dovessi citare tutti i racconti che corrono fra gli equipaggi dei due mondi, non finirei più. Mi contenterò di raccontarvi ciò che toccò a me, alcuni anni or sono, nell’Atlantico settentrionale, a mille e duecento miglia dalle coste europee.

– Vi presento un bel tipo di marinaio innanzi tutto: mastro Aniello. Eravamo cresciuti assieme, ci eravamo imbarcati come mozzi assieme e sullo stesso vascello, e ci volevamo un gran bene, come se fossimo fratelli.

– Quando giungevamo in qualche porto, scendevamo sempre in compagnia, e che bevute, figlioli miei! Erano bei tempi quelli: le tasche sempre piene, e poi giovani tutti e due. Del vino ne abbiamo ingollato tanto da far navigare una corvetta di prima classe.

– Un giorno però, il diavolo volle metterci la sua coda, e la nostra amicizia subì un fiero colpo. Mastro Aniello aveva messo gli occhi su di una bruna figlia della sua terra natìa; il suo cuore prese fuoco come le ardenti lave dell’Etna… e la sposò. Pare impossibile! Un marinaio di quello stampo, innamorarsi di una donna!… Uh! quando ci penso, getterei in mare il mio berretto!…

– Ci lasciammo, amici sempre, ma non più fratelli come prima. La donna gli aveva rubato il cuore, e per me non ne restava che un briciolo grosso quanto il salivagnolo che tengo in bocca. Passarono parecchi anni senza che io nulla sapessi di lui, quando me lo vidi giungere sul vascello che montavo, non ricordo più se in un porto della Turchia o della Spagna. Si era arruolato in qualità di quartiermastro fra il nostro equipaggio.

– Ma non era più il mio Aniello d’un tempo, allegro, buono, senza pensieri pel capo. Era invecchiato di dieci anni, triste, taciturno, d’un umore sempre nero.

– La sua donna era morta, la sua barca da pesca era andata a picco in una notte tempestosa, ed egli era ridiventato marinaio; ma si vedeva che ancora piangeva la bruna figlia del paese natìo, e come la piangeva!… Guardate un po’ cosa doveva toccare a quel lupo di mare!… Ventre di foca… Non l’avesse mai veduta quella donna!…

– Dunque mastro Aniello era diventato irriconoscibile: parlava solo di rado, viveva da parte e non beveva quasi più. Eh! se avesse vuotato delle bottiglie, l’umor nero se ne sarebbe andato qualche volta; ma non c’era verso che volesse arrendersi ai miei ottimi consigli.

– Bei consigli d’ubriacone! – esclamò il capitano.

Papà Catrame finse di non intendere e continuò:

– Una sera ci trovavamo circa trecento miglia lontano dalle coste dell’America settentrionale. Il tempo era cattivo: soffiava un ventaccio rigido che veniva dai banchi di Terranova e le onde montavano all’assalto del nostro vascello come un branco di molossi affamati, urlando su tutti i toni.

– Io ero di guardia alla ruota del timone e mi affaticavo a mantenere il legno sulla buona rotta, quando vidi avvicinarsi a me mastro Aniello, col viso scomposto e gli occhi stravolti.

– «Catrame», – mi disse, – «credi tu che i morti ritornino?»

– «Che ubbìe ti saltano pel capo?» – risposi. – «Ti pare che questo sia il momento di parlare di cose così lugubri? Va’ a bere una bottiglia, Aniello, e scaccia le melanconie».

– Egli crollò il capo e riprese:

– «Dunque tu non credi?»

– «No», – risposi.

– «E cosa diresti se io ti dicessi che poco fa, dinanzi alla prua della nave, fra due onde, ho veduto apparire la mia donna?»

– Lo guardai rabbrividendo; mi ricordavo della storia dell’ufficiale inglese, e non ignoravo le dicerie dei marinai bretoni.

– «Hai veduto male, Aniello», – diss’io, cercando di apparire calmo.

– Egli mandò un profondo sospiro e mi lasciò, mormorando non so quali parole.

– L’indomani, quando lo rividi sul ponte, mi parve che fosse più triste del solito. Salì sul castello di prua senza guardarmi in viso, e stette lì parecchie ore, immobile, col viso alterato, gli occhi fissi fissi sulle onde e le braccia strettamente incrociate.

– Povero Aniello!… Cercava fra quelle onde l’apparizione veduta nella notte? O forse il suo cervello non era più fermo come prima e gli danzava nella zucca? Lo lasciai fare, ma non lo perdetti d’occhio, poiché sentivo per istinto che quel disgraziato doveva finire male la sua vita.

– Da quel giorno infatti notai che cercava avidamente la morte. Si esponeva dove le onde si rovesciavano con maggior furia sul nostro legno; s’avventurava, con una temerità che faceva raddrizzare i capelli sulle più alte cime della alberatura e si spingeva fino all’estremità dei pennoni, anche durante le più fiere tempeste, per fare un nodo o per aggiustare una fune.

– Invano io lo rimproveravo e gli dicevo che simili prodezze bisognava lasciarle ai mozzi, più agili e più lesti di lui: crollava il capo, mi faceva cenno di tacere e mi lasciava lì senza pronunciare una sola parola.

– Eravamo giunti a mezza via fra l’America e l’Inghilterra, quando fummo sorpresi da un violentissimo uragano, uno dei più formidabili che io abbia veduti e provati.

– Il nostro vascello pareva che fosse diventato un semplice guscio di noce. Rollava disperatamente, s’inabissava fino al capo di banda, imbarcava ad ogni istante vere montagne d’acqua e si rovesciava sui fianchi con tale violenza da farci ruzzolare come botti, da babordo a tribordo.

– Quantunque fosse ancora giorno, l’oscurità era quasi completa. Si sarebbe detto che il sole era andato a passeggiare nell’altro emisfero e che le tenebre si erano imposte alle nubi.

– Ad un tratto si spezza l’alberetto di maestra, rimanendo sospeso per un semplice paterazzino. Il vento e le onde gl’imprimevano tali scosse, da temere che da un istante all’altro ci piombasse sul capo.

– Nessuno ardiva salire lassù per spingerlo in mare, poiché la furia del vento era tale da trascinare con sé l’uomo più saldo e robusto.

– D’improvviso apparisce sul ponte mastro Aniello. Vede l’alberetto e si slancia verso le griselle per salire.

– Compresi che quell’uomo andava a cercare la morte. Lo raggiunsi nel momento in cui stava per montare sui primi scalini.

– «Disgraziato, cosa fai?» – gli chiesi. – «Non vedi che lassù vi è la morte?»

– Egli mi guardò con due occhi che mandavano vivi bagliori, con due occhi da pazzo, e sorrise tristemente.

– «La morte!…» – esclamò con voce rauca. – «Forse che Aniello la teme? Va’, Catrame, e se muoio, ricordati di me».

– Con una spinta irresistibile mi allontanò, poi sparve fra l’oscurità, e mentre saliva, lo udivo ridere, ma d’un riso che faceva fremere e raggrinzare il cuore.

– Alla vivida luce d’un lampo lo vidi sull’alto dell’albero lottare contro il vento che cercava di spingerlo nello spumeggiante abisso, inerpicarsi sulle esili griselle delle crocette, poi afferrare l’oscillante alberetto.

– Cosa accadde poi? L’oscurità non mi permise di vedere altro; ma d’improvviso udii echeggiare tra i fischi del vento e i muggiti dell’oceano un urlo acuto, terribile, e distinsi a stento una massa confusa piombare fra le onde. Mastro Aniello era caduto insieme coll’alberetto e il mare li aveva inghiottiti entrambi!…

Papà Catrame si arrestò: era pallido e sulla sua fronte rugosa vidi apparire delle grosse gocce di sudore.

Sembrava che ascoltasse di nuovo: si era curvato verso il tribordo e impallidiva sempre più. Ascoltammo anche noi; fosse illusione od altro, udimmo o ci sembrò di udire in lontananza un grido che pareva d’uomo.

– Avete udito? – chiese mastro Catrame, con voce alterata.

– Non ho udito nulla, – rispose il capitano.

– Eppure!…

– Hai scambiato qualche scricchiolio del legname con un grido. Tira innanzi, papà Catrame, che sono curioso di sapere come termina la tua storia.

– È una cosa strana, – riprese il vecchio marinaio, come parlando fra sé. – Ho sempre quel grido straziante negli orecchi, quel grido che mi parve come un ultimo addio dell’amico d’infanzia!… Povero Aniello! Chissà quale pensiero gli passò pel capo, nel momento in cui piombava nell’oceano dall’alto della crocetta! Orsù, pensiamo ad altro.

– Tutte le manovre tentate per salvare quel disgraziato, riuscirono vane. L’uragano ci trascinava verso l’Est con furia irresistibile, e l’amico mio trovò fra le onde la morte, che con tanta ostinazione cercava.

– Da quel momento cominciai a provare delle misteriose paure e quasi quasi dei rimorsi. Se gli avessi impedito di salire su quell’albero, forse sarebbe ancora vivo. Sia maledetta quella notte!…

– Per lungo tempo fui in preda ad una viva agitazione e negli orecchi avevo sempre quelle parole che egli mi aveva dette pochi giorni prima che morisse: «Catrame, credi tu che i morti ritornino?…»

– Devono ritornare, sì, checché ne dicano gli spregiudicati, e anche Aniello doveva tornare. Lo sentivo attorno a me, sebbene non lo vedessi ancora. Quando di notte io scendevo nella cala, mi pareva di veder dinanzi a me un’ombra più nera e più densa delle tenebre; udivo dei fruscii strani nelle corsie della nave e, quando mi trovavo solo, tintinnare i bicchieri e le bottiglie e oscillare la mia branda, anche se il mare era perfettamente tranquillo.

– Avrò sognato forse, quantunque so che ero desto; ma una notte sentii due labbra gelide posarsi sulla mia fronte e un’altra volta svolazzare qualche cosa attorno al viso. In quei momenti, sempre mi tornava alla memoria quella frase: «I morti ritornano», e sentivo agghiacciarmi il cuore.

– Erano passati due mesi. Avevamo toccato le coste inglesi ed eravamo ripartiti per quelle americane con un carico di cotoni lavorati.

– Una sera, mentre ci trovavamo presso a poco nel punto dove si era inabissato mastro Aniello, nello scendere nella stiva udii distintamente un grido che pareva sorgesse dalle profondità dell’oceano. Era il grido echeggiato fra l’uragano due mesi innanzi, era quello emesso da Aniello nel momento in cui piombava giù dall’albero.

– Atterrito, risalii in coperta e mi diressi a prua, spinto da una forza misteriosa. La notte era cupa: soffiava forte il vento, e il mare si rompeva furioso contro il nostro veliero.

– D’improvviso, a una gomena di distanza, vidi apparire sulla superficie dell’oceano un largo flotto di spuma, poi balzare su un alberetto, e aggrappato a quello un uomo.

– L’apparizione si spiegò manifesta sulle onde e distinsi nettamente mastro Aniello, coperto di conchiglie e di alghe marine. Mi guardò per alcuni istanti, mi fece un segno colla destra a mo’ di saluto, poi s’inabissò in mezzo ad un cerchio fosforescente che spiccava vivamente fra la profonda oscurità.

– Voi direte che in quel momento io sognavo, o che il mio cervello non era a posto, o che i miei occhi hanno creduto di vedere; ma io vi rispondo di no! Ero sveglio come sono ora, il vento era gelido e non permetteva di sognare o di dormire in piedi, né avevo assaggiato un sorso di vino o di liquore.

– Rimasi come inchiodato sul castello di prua, pazzo di terrore, cogli occhi fissi sul muggente oceano, parendomi sempre di vedere riapparire il morto, e nei miei orecchi sentivo risuonare dei funebri rintocchi, come quella notte terribile in cui udii la campana dell’inglese Morthon.

– Quando mi tolsero di là, poiché da solo non sarei stato capace di fare un passo, io deliravo. Caddi ammalato, non so se per lo spavento o per l’emozione provata, e nei miei deliri mi pareva di sentire sulla fronte il freddo bacio di mastro Aniello e di vedermelo ricomparire dinanzi pallido come i morti, seminudo e cogli occhi sbarrati, fissi su di me, come in quel momento in cui lo vidi sorgere dagli abissi dell’oceano, tra il candido flotto di spuma.

– Guarii…, le visioni sparvero…, la paralisi che mi colse passò… trascorsero molti anni…, eppure tutte le volte che mastro Aniello mi torna alla memoria, odo ancora quel grido straziante, e chissà… forse non cesserà se non colla mia morte…

Mastro Catrame tacque, chinando il capo sul petto. Nessuno osava parlare: eravamo anche noi impressionati vivamente da quella triste storia. Anche il capitano taceva e mi pareva che fosse diventato pallido come il vecchio marinaio.

Per parecchi minuti un profondo silenzio regnò a bordo del nostro legno, appena rotto dal flebile lamento del vento e dal frangersi delle onde. Ad un tratto il capitano si scosse e, guardando il mastro, che continuava a tacere:

– Hai sognato, papà Catrame, – disse.

Il vecchio crollò il capo.

– No, – rispose poi.

– La paura ti ha fatto vedere l’amico tuo.

– No, – ripeté il mastro.

– Forse fu una…

– È inutile! – esclamò il mastro con tono energico. – I naufraghi riappariscono!…

In quell’istante sul mare s’alzò un grido acuto, un grido che pareva voce umana.

Balzammo tutti in piedi lividi pel terrore, mentre mastro Catrame precipitava dal barile, urlando con voce strozzata:

– Lo udite?… È lui!…

Il capitano era impallidito come noi.

È impossibile! – esclamò.

Il grido si fece riudire, e questa volta più chiaro e vicino.

– È lui! – ripeté mastro Catrame con voce tremante.

Il capitano fece un gesto di furore e si slanciò verso la murata prodiera, mentre tutti gli altri si stringevano attorno al vecchio marinaio.

Uno scroscio di risa echeggiò a prua.

– Ah! un dugongo!, – disse il capitano. – L’India ci è vicina – Un dugongo! – esclamarono i marinai, respirando.

Mastro Catrame si alzò lentamente, si terse il freddo sudore che gli inondava la fronte e se ne andò balbettando:

– Eppure i morti ritornano!

E sparve nella stiva, mentre il veliero correva ratto verso l’India, le cui coste spiccavano nettamente fra i pallidi raggi dell’astro notturno, il vento mormorava dolcemente fra l’attrezzatura, e l’onda gorgogliava attorno allo sperone, mandando strani bagliori.

Il giorno dopo, il nostro veliero gettava l’ancora nel porto di Bombay, di fronte all’isola di Salsette.

Mastro Catrame, come era sua abitudine, rimase rintanato nelle tenebrose cavità della cala; quell’uomo aveva in orrore la terra e quando si sentiva vicino alla costa non avrebbe abbandonato la sua nave per cento bottiglie di vino di Cipro.

Io, avendo compiuto il mio impegno col capitano e contando di rimanere in India qualche tempo, prima di abbandonare la nave volli rivedere una volta ancora il vecchio mastro.

Lo trovai in fondo alla sua cala, sdraiato a fianco del famoso barile che il capitano, come aveva promesso, gli aveva donato, e pieno di quell’eccellente Cipro così caro financo ai mussulmani.

Quando mi vide si alzò, spillò un gran bicchiere, e, offrendomelo col più amabile sorriso che fosse mai apparso su quelle labbra d’orso, mi disse:

– Vi auguro buona fortuna, signore, e spero, nel prossimo viaggio, di vuotare in vostra compagnia un altro boccale di questo delizioso vino.

Poi, mentre io sorseggiavo il contenuto del bicchiere, mi si piantò dinanzi colle braccia incrociate sul petto, guardandomi fisso fisso. Mi pareva imbarazzato e dimenava la lingua come se avesse voluto dire qualche cosa d’altro, senza però osarlo.

– Orsù, papà Catrame, – diss’io ridendo. – Cosa vi frulla pel capo?…

– Ma… è che… non so…

– Parlate, perbacco! Vi faccio paura forse?

Il vecchio si guardò d’intorno come per assicurarsi che nessuno poteva udirlo all’infuori di me, poi mi si avvicinò con una cert’aria misteriosa e mi disse, grattandosi il capo:

– Io so… che voi scrivete… Se un giorno avrete del tempo da gettar via… eh, per Giove!…

– Avanti, papà Catrame.

– Ebbene… il colpo ormai è partito. Ditemi: vi spiacerebbe scrivere le mie leggende? Non per me, veh! ma per quegli increduli che vorrebbero gettar tra i ferri vecchi le leggende del mare.

– Con tutto il piacere; se avrò tempo, vi prometto di scriverle.

Il vecchio mastro mi strinse vigorosamente la destra, mentre mi diceva:

– Spero di rivedervi. Sono vecchio, assai vecchio, ma ho la pelle salda ancora.

Ci lasciammo. Mentre però stavo per salire la scala, egli mi richiamò.

– Mi dimenticavo una cosa, – mi disse.

Si frugò nel petto e staccò da un piccola cordicella un pezzo di corallo in forma di corno.

– Prendete, – mi disse: – ciò vi porterà fortuna!…

E ci separammo entrambi commossi.

Che uomo! Che uomo era quel mastro Catrame!

Fine.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
140 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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