Kitabı oku: «Le stragi delle Filipine»
Capitolo I. LOS JURAMENTADOS DI SOLU’
– I «MOROS»!… I «MOROS»!…
Questo grido rimbomba per le vie di Manilla, opulenta capitale delle Filippine, come un colpo di tuono.
Una fiumana di gente, pazza di terrore, coi visi pallidi, gli occhi stralunati, si scaglia come un uragano attraverso il magnifico ponte, a dieci grandi arcate, che unisce la Ciudad, ossia la città spagnuola, ai sobborghi popolosi di Binondo e di Santa Cruz, che formano la cosí detta Città Chinese.
Quei fuggiaschi si spingono l’un l’altro, urlando, si rovesciano, si calpestano, ma si rialzano e riprendono la corsa vociando sempre:
– I moros!… I moros!…
Vi sono uomini, vi sono donne, vi sono fanciulli; vi sono spagnuoli, tagali, chinesi, negozianti, marinai, facchini, barcaioli del Passig e perfino soldati, ma tutti fuggono come se avessero alle spalle una banda di fiere assetate di sangue.
Delle donne, travolte da quella marea umana che ha un impeto irresistibile, cadono, ma quella fiumana vi passa sopra; dei fanciulli, sfiniti o malamente urtati, scompariscono fra quei corpi e rimangono stesi al suolo fracassati, insanguinati, ma chi si occupa di loro in quel momento?… Tanto peggio pei deboli!…
La folla, attraversato il ponte, entra nella Ciudad, rovesciando le sentinelle e le guardie doganali che stanno dinanzi ai bastioni e si dilegua per le vie, urlando sempre:
– Fuggite!… Si salvi chi può!… I moros!… I moros!…
Le porte delle case si chiudono precipitosamente con fracasso; i negozianti abbassano d’un colpo solo le griglie di ferro che proteggono le loro botteghe; gli erbivendoli lasciano i loro banchi e si salvano in tutte le direzioni senza piú occuparsi delle loro ceste ripiene di frutta squisite e di vegetali d’ogni specie; i merciai ambulanti gettano all’aria le loro casse e si precipitano là dove scorgono ancora qualche porta aperta; i cocchieri pubblici sferzano i cavalli a sangue e corrono dietro alla folla, senza badare se le ruote urtano qualche disgraziato rimasto indietro, o se lo travolgono.
Le finestre invece si aprono e voci impaurite chiedono affannosamente:
– Dove sono?…
– Vengono da Binondo!… – rispondono alcuni fuggiaschi, ma senza arrestarsi.
– Ma chi?
– Los juramentados!
– Por la santa Virgen!…
– Eccoli!…
– I moros!… I moros!…
– Alle armi!… – tuona una voce. – Giú chi ha le brandill!…
Urla spaventevoli, che fanno agghiacciare il sangue, scoppiano dalla parte del ponte.
Un istante dopo dieci o dodici uomini semi-nudi, color del bronzo cupo, cogli occhi iniettati di sangue, colla spuma, ma di color sanguigna, alle labbra, si scagliano attraverso il ponte come una volata di uccelli da rapina.
Non sembrano uomini, ma demoni sbucati dall’inferno. Sono tutti di alta statura, dalle spalle larghe, dal petto ampio; ma dalle braccia e le gambe magre che sembrano formate di corde d’acciaio ricoperte di pelle cotta e ricotta.
Non indossano che un certo sottanino scolorito, ma alle gambe, alle braccia, ed al collo portano anelli di rame, monili di perle di vetro e di denti di cignale e sul capo delle fascie svolazzanti che sembrano formate da corde vegetali intrecciate.
Tutti quegli uomini, che sembrano pazzi od in preda ad un terribile accesso di furore sanguinario, stringono nelle destre quelle pesanti sciabole, a lama larga, fabbricate con acciaio d’una tempra eccezionale e che gli isolani delle Solú chiamano parangs, armi formidabili che d’un colpo troncano la testa all’uomo piú vigoroso.
Corrono come cervi, coi lunghi capelli svolazzanti, coi visi contratti, tenendo le armi alzate. Nessuno può spaventarli: nessuno può arrestarli. Solo una scarica di fucili o la mitraglia d’un pezzo d’artiglieria potrebbe domare quelle tigri.
Chi sono adunque quei formidabili uomini che non temono la morte e che cosí poco numerosi, osano avventurarsi fra le vie d’una città, in mezzo ad una popolazione di circa centocinquantamila anime e una guarnigione di otto diecimila soldati, scelti tra i piú valorosi della guarnigione iberica?…
Dei pazzi?… Forse peggio, poiché quei moros, come li chiamano gli spagnuoli, hanno giurato sul Corano di uccidere e uccideranno, dovessero scagliarsi contro una selva di baionette od in mezzo ad una grandine di mitraglia.
Non sono dei veri mori, ma degli isolani delle Solú, gli abitanti dell’antico covo dei pirati; dei malesi infine, ma votati alla morte.
Un giorno, quei disgraziati, al pari di tanti altri della loro razza, si erano accorti d’aver dilapidato spensieratamente le loro ricchezze, le loro terre e forse perfino l’ultima loro capanna e che per di piú si erano ingolfati nei debiti. Le leggi del loro paese li avevano lasciati cadere in balia dei loro creditori, i quali potevano ben venderli come schiavi assieme alle mogli ed ai figli.
I panditas, ovvero i preti maomettani, uomini crudeli e fanatici, ne avevano approfittato per sfogare il loro livore contro gl’infedeli, ossia gli spagnuoli. Avevano offerto ai debitori il riscatto delle loro famiglie, ma a condizione che diventassero juramentados, ossia che giurassero solennemente di uccidere il maggior numero di nemici.
Cos’è la morte pel malese?… Né piú né meno d’uno di quei molteplici fenomeni dell’esistenza, a cui si assoggettano senza pensarvi sopra un solo secondo.
Ed ecco i debitori diventati juramentados. Un praho solulano qualunque aveva trasportato gli uomini votati alla morte, alla foce del Passig, onde potessero compiere le loro truci gesta piú ferocemente che fosse possibile, in mezzo alla numerosa popolazione della capitale dell’arcipelago e dopo d’averli ubriacati d’oppio fino all’esaltazione, fino alla pazzia, l’equipaggio li aveva scatenati.
Quei dodici uomini, che dovevano morire, se volevano salvare le loro famiglie, ma uccidere, si erano scagliati sulla popolazione che si affollava sul quai di Binondo, tracciando in mezzo ad essa un solco sanguinoso; poi, attraverso il borgo si erano gettati sul ponte del Passig dietro ai fuggenti, per entrare nella Ciudad prima che l’allarme si spargesse e si alzassero i ponti levatoi.
Una donna, che era stata travolta dalla folla ed orribilmente calpestata, vedendo avvicinarsi quella schiera di demoni, aveva cercato di rialzarsi e di fuggire verso l’estremità del ponte, ma il primo juramentado d’un balzo le fu sopra, e con un fendente del suo parang la fece ricadere con la testa spaccata fino al mento.
Un soldato di fanteria marina, che si trovava a guardia d’una scialuppa a vapore ormeggiata presso il quai balzò a terra stringendo un fucile armato di baionetta e tentò, con un coraggio disperato, di far fronte alla banda.
Il disgraziato non conosceva forse i juramentados di Solú. Non aveva ancora appuntata la baionetta che stramazzò al suolo colle braccia tronche e la gola spaccata. Ebbe appena il tempo di mormorare, fra i fiotti di sangue che lo soffocavano:
– Valgame Dios!… – e spirò.
I juramentados, passato il ponte, si precipitano nelle vie della Ciudad, senza che alcuno ardisca arrestarli dinanzi le barriere del bastione. Sanno che colà vi sono altre vittime da fare e soprattutto vittime spagnuole, ed irrompono per le vie come torrente spaventoso.
Alcuni colpi di fucile partono dalle finestre: dei macigni e dei rottami rimbalzano sulle vie da essi percorse, ma non si arrestano. Qualcuno cade e viene tosto finito a fucilate come una bestia feroce, ma gli altri continuano la corsa agitando furiosamente le loro armi, di già tinte nel sangue.
Sull’angolo d’una strada s’imbattono in un gruppo di fuggiaschi. Piombano su di loro, ne fanno scempio e riprendono la corsa lasciandosi dietro un gruppo di morti e di moribondi.
Erano giunti all’estremità della piazza d’Armi, quando di fronte alla statua di Ferdinando VII s’imbattevano in una ricca portantina sorretta da quattro indigeni, da quattro tagali.
I portatori, vedendoli avvicinarsi, abbandonarono precipitosamente le traverse e si salvarono fra gli alberi dell’orto botanico, mandando urla di terrore.
A quelle grida risponde un altro che esce dalla portantina, un grido di donna.
La porta viene aperta ed una giovane signora balza agilmente fuori, girando all’intorno uno sguardo smarrito.
Quella disgraziata, che sta per subire la sorte toccata agli altri incontrati da quei fanatici sanguinarii, è d’una singolare bellezza.
Può avere sedici o diciassette anni, ma può averne anche meno. È una figurina gentile, ma di taglia elegante quantunque piccola, con due occhi d’un nero profondo che tradiscono la sua origine spagnuola, sormontati da folte e nere sopracciglia dall’ardita arcata; con due labbra rosse come corallo che mostrano dei denti candidi, col naso diritto ma delle narici mobili che caratterizzano il tipo delle isolane di Luzon, coi capelli oscuri, sciolti sulle spalle e colla pelle bruna.
Non porta né gioielli, né vezzi di perle come le sue concittadine di Manilla e non indossa vesti di gran lusso né a vivaci colori. Non ha che un semplice vestito di mussola azzurra a fiorami e sul capo una leggera ciarpa di seta bianca, la manta.
Vedendosi sola inarcò le sopracciglia, ma ad un tratto impallidí, gettando un grido d’orrore. Aveva scorto i juramentados, i quali le correvano addosso come una torma di lupi affannati, roteando i parangs.
Un istante ancora e quella bella testa doveva cadere al suolo, spiccata da quelle armi formidabili e quel giovane corpo doveva stramazzare nella polvere, vomitando sangue.
Ma al grido d’orrore della fanciulla, un altro vi aveva fatto eco.
Due uomini, uno vestito all’europea e l’altro da chinese, che si erano riparati in un vicino caffè, hanno veduto e non curanti della loro vita, si sono precipitati in aiuto della giovinetta.
Il primo è un uomo sui trent’anni, dai lineamenti arditi, che indicano un coraggio a tutto prova. Sembra che appartenga a quella splendida e intelligente razza formata dall’incrocio del sangue europeo con quello degli indigeni delle Filippine, poiché ha la pelle un po’ bruna, dai riflessi rossastri, gli occhi grandi, neri, tagliati a mandorla, i capelli pure nerissimi ed inanellati, i denti d’una bianchezza abbagliante e la corporatura robusta, ma dotata di quell’agilità che distingue gl’isolani della Filippine.
L’altro, che sembra piú attempato di una mezza dozzina d’anni, ha invece la pelle giallo-pallida, gli occhi leggermente obliqui con strani bagliori, la fronte alta e spaziosa solcata già da qualche precoce ruga, le labbra strette, sottili ed il mento appuntito, coperto da una barba rada, il capo in gran parte rasato e adorno di una barba come usano i chinesi. La sua statura è piú alta del compagno e piú robusta e piú muscolosa. Quell’uomo, che tutto indica appartenga alla razza chinese, deve possedere una forza veramente eccezionale ed una energia non comune negli uomini della sua razza.
I due coraggiosi si gettano dinanzi alla giovinetta che si è aggrappata allo sportello della portantina, col capo nascosto tra le braccia, come se volesse ripararlo dai colpi degli assassini.
L’uomo bruno estrae rapidamente una rivoltella e apre un vero fuoco di fila, ma il suo compagno abbassa invece bruscamente l’arme che aveva pure estratta, mentre un sorriso crudele gli spunta sulle labbra.
– La fanciulla bianca!… – esclama, con accento sdegnoso.
Ma i colpi dell’uomo bruno sono stati sufficienti. Un moro, il capo fila, cade colla fronte bruciata, poi un secondo, poi un terzo. Gli altri deviano e si gettano verso l’orto botanico, ululando ferocemente. La strage sta per finire. L’allarme è stato dato, e da tutte le parti accorrono soldati e cittadini armati.
Un tagalo, un altro coraggioso, affronta la terribile benda. Tiene in pugno una specie di forca di legno col manico lungo e le due punte armate di spine e rinchiuse, all’estremità, da un altro fascio di spine.
È la brandill, l’arma migliore per arrestare i fanatici juramentados.
La forca cade sull’ultimo selvaggio, imprigionandogli il collo. Il miserabile, arrestato di colpo, lacerato dalle spine che gli si cacciano nelle carni, cade in ginocchio.
Nell’istesso istante un fuoco infernale parte dagli alberi del giardino. Due dozzine di soldati, accorsi dal forte S. Giacomo, fucilano senza misericordia i moros, i quali cadono l’uno sull’altro in un fascio.
È finita; i fanatici, crivellati dalle palle, non si rialzeranno piú per continuare l’orribile strage e la popolazione di Manilla, un istante prima terrorizzata dalla furia sanguinaria di quei formidabili uomini, può scendere tranquillamente nelle vie per numerare le vittime.
La bruna giovane intanto, miracolosamente sfuggita alla morte, dopo un istante di stupore e di sbalordimento, aveva alzati gli occhi sul salvatore che le stava ancora dinanzi colle braccia incrociate sul petto, in un atteggiamento quasi triste. Appena lo vide, un grido le sfuggí e s’appoggiò alla portantina, come se le forze le fossero venute meno.
– Voi… tu… Romero! – balbettò
– Sí, io, – rispose l’uomo dagli occhi neri, con accento triste. – Tu non credevi di trovarmi qui, è vero Teresita?… Lo vedi: è il destino che mi spinge sempre sui tuoi passi.
– Ah!… Romero!… Ti devo la vita!… – esclamò la giovane, tendendogli la mano.
Il meticcio afferrò vivamente quella mano, le cui dita erano adorne di anelli di grande valore, se le portò al cuore, ma subito l’abbandonò.
– A quale scopo, – disse, con voce cupa. – Tutto deve finire tra me e te.
– No, Romero, – mormorò la giovane, nella cui voce si sentiva dello strazio. – Non parlare cosí!…
– Sono un meticcio, lo sai. Non ho nelle vene il sangue puro degli spagnuoli e sono un proscritto, peggio ancora, un uomo condannato e che i tuoi compatriotti sarebbero ben felici di vedere morto. Qui è delitto parlare di libertà; qui è delitto amare la terra natia e tuo padre me l’ha dimostrato… Addio!… Forse non ci rivedremo mai piú!… Vado dove si combatte e dove si muore.
Il meticcio, cosí dicendo, aveva fatto un passo indietro per ritirarsi, ma la giovane spagnuola lo aveva rapidamente trattenuto, afferrandogli strettamente ambe le mani.
– Romero!… – esclamò, mentre i suoi occhi si empivano di lagrime. – Romero… tu non puoi lasciarmi cosí… non lo devi… perché io ti voglio sempre bene.
Un sorriso amaro contrasse le labbra dell’uomo di colore.
– Tu mi vuoi bene, lo so, – disse. – Ma lui, tuo padre, che mi ha condannato all’esilio, che mi odia, che mi disprezza?…
«A quale scopo lottare, quando la speranza non sussiste?… A quale scopo vivere e soffrire ancora?… I miei fratelli muoiono per la libertà di questa terra e io voglio andare a morire al loro fianco».
– No, Romero!…
– È il destino che cosí vuole. Partirò: l’ho giurato, Teresita.
– E tu che mi vuoi bene, tu che per me hai tanto sofferto, andrai a lottare contro i miei fratelli, contro mio padre?…
– Tuo padre! – disse il meticcio con voce sorda.
– È vero, Romero… perdona… – mormorò la giovanetta, soffocando un singhiozzo.
– Addio, Teresita, – disse Romero, facendo uno sforzo che doveva straziargli il cuore. – Possono accorgersi che io sono tornato e se mi arrestassero, domani non sarei piú vivo. Se morrò nelle trincee di Cavite o di Bulacan, il mio ultimo pensiero sarà pel nostro infelice amore e l’ultima mia parola sarà per te.
– E tu partirai?…
– Domani, all’alba.
– E non ci rivedremo piú?
– Forse, se la morte mi risparmierà; ma non lo credo, poiché io la cercherò.
– È necessario che io ti veda ancora. Non negarmi questo favore che può essere l’ultimo, Romero! – disse Teresita, piangendo.
– Ho le ore contate.
– Lo voglio, Romero.
– Sia.
– Questa sera.
– Dove?…
– Nel padiglione del parco. Ti attenderò con Manuelita.
– E tuo padre m’ucciderà.
– A mezzanotte dormirà! Concedimi quest’ultimo colloquio, Romero.
– Ebbene, ci sarò.
– Ho la tua parola.
– L’hai, Teresita.
La giovane spagnuola si asciugò rapidamente le lagrime con un fazzoletto adorno di pizzi, s’avvolse il capo nella manta, che aveva lasciato cadere sulle spalle e balzò leggera come un uccello, nella portantina.
I quattro tagali, che erano ritornati, l’alzarono e si misero rapidamente in marcia, scomparendo dietro gli alberi del giardino.
Il meticcio non si era mosso. Col capo chino, gli sguardi ardenti fissi sulle piante che celavano la portantina, la fronte burrascosamente aggrottata e le braccia strettamente incrociate sul robusto petto che gli si sollevava impetuosamente, pareva che col pensiero seguisse la bruna fanciulla.
Sembrava che avesse dimenticato tutto: il pericolo tremendo che correva di venire scoperto, arrestato e forse ucciso; il compagno dagli occhi obliqui che lo aveva seguito e perfino il luogo dove si trovava.
Quale destino mi sarà serbato? – mormorò finalmente, con un lungo sospiro. – Un uomo di colore!… Come se anch’io non avessi, nelle mie vene, il sangue di questi superbi dominatori?… E disprezzano me, la mia razza, i miei fratelli, mentre l’insurrezione rugge sulle loro teste!…
Si guardò d’intorno come se cercasse il compagno e lo vide frammischiato alla folla che si era raggruppata attorno ai cadaveri dei juramentados, ma s’accorse pure che quegli occhi obliqui lo fissavano attentamente. Nel sorprendere quello sguardo, che pareva acuto come la lama d’un pugnale, Romero trasalí.
– Mi spiava, – mormorò.
S’avvicinò alla folla e battendo sulle spalle del compagno, il quale si era affrettato a rivolgere la sua attenzione sui cadaveri dei moros, gli disse:
– Vieni, Hang-Tu.
L’uomo dalla pelle gialla lo seguí, dicendo:
– Sono proprio morti, Romero.
– Lo credo, – rispose il meticcio, sforzandosi di sorridere.
– è una vera disgrazia che siano stati uccisi cosí presto. Avrebbero potuto abbatterne qualche centinaio di questi bianchi.
– Ma anche degli uomini di colore, Hang-Tu. Quelle belve non rispettano nessuno quando sono scatenate.
– È per questo che hai fatto fuoco su di loro, è vero Romero? – chiese Hang-Tu, con sottile ironia.
– No, è stato per salvare una fanciulla.
– Una bianca, – disse Hang, con disprezzo.
– Una fanciulla, ti dico. Forse che noi facciamo la guerra alle donne?…
– No, ma quella meritava ben la morte.
– Lei!…
– Almeno suo padre avrebbe pianto.
– Ah!… Tu l’hai riconosciuta?…
– Sí, Romero, ed è per questo che non ho fatto fuoco sui moros. Spenta lei, la patria, o meglio l’insurrezione, avrebbe avuto la tua forte anima ed il tuo robusto braccio.
Capitolo II. IL «GIGLIO D’ACQUA» ED IL «LOTUS BIANCO»
Il meticcio si era arrestato all’estremità del ponte che unisce la Ciudad a Binondo, guardando fisso il compagno, il cui viso, da giallo che era, aveva assunto una leggera tinta verdognola, mentre nei suoi occhi lampeggiava una cupa fiamma. Pareva che volesse scoprire i pensieri che turbinavano nel cranio di quel discendente del Celeste Impero. Forse nelle parole di quell’uomo aveva indovinato, fra l’ardente amore per la libertà, una tenebrosa minaccia per la fanciulla.
– Orsú, Hang-Tu, – disse finalmente, – che t’importa se quella donna sta fra me e l’insurrezione?… Forse che abbandonando Macao, la terra dell’esilio che ci ha ospitato per tre mesi, salvandoci dalla morte decretataci da questi dominatori, non ho giurato di consacrare l’anima e le braccia alla libertà delle isole?…
– Ma quella donna ti sarà fatale.
– Lei, povera fanciulla?
– L’amor suo, Romero.
– Taci, Hang-Tu, – disse il meticcio, con triste accento.
– Spezza tutto, infrangi ogni vincolo con questa razza che da secoli ci opprime e che disprezza te, me, ed i nostri fratelli.
– Taci, Hang.
– Tu l’ami, – continuò l’implacabile cinese, – tu che sei uomo di colore!… Credi tu che suo padre acconsentirà a dartela in isposa?… Lui, il maggiore che guerreggia con furore contro i nostri fratelli; lui che ti ha fatto arrestare e che ti avrebbe fatto fucilare se io, con una pronta fuga, non ti avessi salvato conducendoti al Macao; lui che t’ha incendiato le immense piantagioni ereditate dai tuoi padri, che ti ha gettato sul viso tutto il suo disprezzo, che ti ha deriso quando hai avuto l’ardire di chiedere la mano di sua figlia e che ti ha respinto come un cane, peggio ancora, come un lebbroso?… E tu vuoi bene a sua figlia!…
– Mi vuol bene anch’essa, Hang.
– Sí, l’affetto d’una donna bianca, l’affetto di una nemica!… Non si può voler bene ad un uomo, quando questi volge le armi contro i fratelli, piú ancora, contro il proprio padre.
– Sono le sorti della guerra e le comprenderà.
– No, Romero. La razza bianca odia troppo la nostra terra perché Teresita possa perdonare a te, d’aver impugnato le armi contro la sua patria. Quella fanciulla conta sul tuo amore per strappare all’insurrezione un uomo valoroso come te, un nemico che può diventare il braccio destro dei nostri capi e forse il supremo dittatore delle operazioni guerresche dei guerrilleros.
– Io?…
– Tu, Romero. A noi manca un duce capace di intraprendere dei colpi audaci contro le città tenute dagli spagnuoli e che renda forti le nostre. Tu sei ingegnere, tu t’intendi di cose di guerra, puoi dirigere un assedio, puoi insegnare a noi come si trincera una posizione. Vedi bene quanto tu sei necessario a noi e quanto conta su di te l’insurrezione.
– E non ti basta che io abbia giurato di combattere per la libertà, Hang?
– Ma quella fanciulla?…
– Che importa agli insorti che io abbia affetto per una donna bianca o di colore?…
– Ed il cuore?… Sarà libero come il tuo braccio?… Avresti tu il coraggio di lottare contro il padre della donna alla quale vuoi tanto bene?…
– Si dubita della mia fedeltà, adunque? – chiese il meticcio con voce sorda.
– No, ma…
– Forse che non sono stato io ad organizzare il colpo di mano che doveva darci Manilla?… Forse che non sono stato io ad armare i trecento uomini che lavorarono nelle mie piantagioni ed il primo che ha innalzato il vessillo della rivolta?… Si dimentica di già che gli spagnuoli mi hanno condannato alla fucilazione, che le mie ricchezze sono state confiscate, le mie piantagioni distrutte, la mia stessa casa data alle fiamme?… Non sono che sei ore che sono tornato dall’esilio, affrontando il pericolo di venire scoperto, non per dire a Teresita che io le voglio sempre bene, ma per combattere a fianco dei miei fratelli di colore e morire in mezzo a loro.
– Lo so, Romero, e nessuno lo ignora; ma temiamo di quella fanciulla e del fortissimo affetto che hai per lei.
– È vero, – mormorò il meticcio, passandosi la destra sulla fronte ardente.
Hang-Tu era diventato bruscamente muto. Aveva passato un braccio sotto il sinistro del meticcio e scendevano uniti verso il molo di Binondo che era affollato di persone.
Schiere di chinesi dalle teste semi-pelate, ma adorne di lunghe code, dalle facce quasi squadre, ma cogli zigomi assai sporgenti, dalle tinte piú o meno giallastre e coperti da grandi cappelli di fibre di rotang in forma di giganteschi funghi, passavano e ripassavano, chiacchierando con vivacità e ridendo rumorosamente.
Vi erano grassi negozianti che sfoggiavano delle ricche e lunghe kao-tz, ossia casacche di seta a fiorami di tinte vivaci e che calzavano delle comode ha-tz, ossia grandi scarpe bianche dall’alta suola di feltro; dei ricconi che facevano pompa delle loro lunghe hoal, ossia tuniche abbottonate sui fianchi, con piastroni di seta finemente ricamati e delle grandi pieghe, e dei facchini quasi nudi, ma che nella cintola portavano l’inseparabile ventaglio e la non meno inseparabile pipa per fumare l’oppio.
In mezzo a quell’onda di cappellacci e di code agitatisi come serpenti, strepitavano dei tegali, i veri indigeni delle isole, dei pezzi di giovanotti, dalle forme eleganti ma insieme robuste, dal colorito rossastro, con delle gradazioni giallo-bronzine o ramigne, pittoreschi colle loro bianche camicie di percallo svolazzanti sopra i pantaloni ed adorne di ricami; o passavano silenziosi, tetri, i malesi dalle facce ossute ed oscure con gradazioni verdastre ed olivastre, cogli occhi sempre contratti e minacciosi e la cintura armata dell’inseparabile kriss, quel pugnale di forma serpeggiante, colla punta sovente avvelenata e cosí terribile nelle mani di quei fieri isolani.
Quelle tre razze, un giorno acerrime nemiche, pareva che sul molo di Binondo se la intendessero fra di loro. I chinesi ed i tagali soprattutto, chiacchieravano insieme colla migliore concordia e molto rumorosamente. Commentavano le ultime notizie della guerra che si combatteva cosí vicina alla capitale, senza piú occuparsi delle numerose navi, delle giunche, dei prahos e dei giong che stavano ancorate dinanzi al molo, in attesa di venire caricate o scaricate.
Pareva che inaspettati avvenimenti avessero assorbita tutta l’attenzione di quegli uomini, dimenticando i loro affari.
Hang-Tu continuava a condurre il meticcio attraverso quella gente, senza piú parlare. I chinesi, i tagali e i malesi, come se avessero ricevuta una parola d’ordine, pareva che non si degnassero di gettare un solo sguardo su quei due, ma s’affrettavano a scostarsi per lasciare il passo libero. Solo di quando in quando Romero sorprendeva uno strizzamento d’occhi rapido come il lampo o un gesto fulmineo.
Ad un tratto, in mezzo a quel vocío si udí echeggiare un fischio acuto. Hang-Tu trasalí e s’affrettò a dirigersi verso una stretta viuzza che tagliava in due il popoloso quartiere mentre le folla si aggruppava prontamente dietro a lui ed al meticcio, come per opporre una barriera alle loro spalle.
– Ciò significa che qualche sospettoso spagnuolo ci seguiva, – rispose il chinese.
– E questa gente?
– Ci salva, opponendo fra noi e la spia un ostacolo insormontabile.
– Ma se è uno spagnuolo, saranno costretti ad aprirgli il passo.
– È vero, ma i malesi sono lesti di mano ed il curioso non farebbe dieci passi in mezzo alla folla senza ricevere un buon colpo di kriss.
– Che gli spagnuoli abbiano sospettato il nostro ritorno?
– Lo temo, Romero, ma quando vorranno prenderci, noi saremo lontani. Binondo non è la Ciudad.
– Ma dove mi conduci ora?…
– Lo saprai presto.
– A mezzanotte devo essere libero.
– Lo sarai, – disse il chinese
Poi, dopo alcuni istanti di silenzio riprese:
– È la fanciulla bruna che t’aspetta, è vero?…
– Sí.
– L’avevo indovinato. Bada che il maggiore d’Alcazar non è piú dinanzi a Cavite, ma qui!
– Lo so, – riprese il meticcio, con un sospiro.
– Il padre della fanciulla ti odia, Romero.
– Lo so.
– Forse ti tenderà un agguato per privare l’insurrezione del tuo braccio.
– Non conosci Teresita d’Alcazar, Hang-Tu.
– Non sarà lei che ti prepara il tradimento, ma… si sospetta che tu sia qui, ed il maggiore è un uomo che non dorme con due occhi chiusi.
– Sarò armato.
– Vuoi un consiglio, Romero?… Parti senza rivederla. Cosa potrebbe dirti?… Che ti vuol bene?… Lo sai o almeno lo credi…
– Taci, Hang, – disse il meticcio con voce minacciosa. – Tu non hai il diritto di ferirmi il cuore.
– No, ma l’amico affezionato ha il dovere di vegliare su di te.
– Ancora dei dubbi?…
– No, ma temo l’affetto di quella fanciulla.
– Ho giurato.
– Lo vedremo fra poco.
– Cosa vuoi dire?…
– Pensavo alle stranezze del destino.
– Non ti comprendo, Hang.
– Non importa: affrettiamoci, Romero. Ci attendono.
– Chi?…
– I patriotti.
Il chinese aveva affrettato il passo, inoltrandosi nelle viuzze interne di Binondo, abitate quasi esclusivamente dalle numerose colonie di chinesi e malesi di Manilla, viuzze fetide, fangose, sfondate e oscure anche in pieno meriggio, tanto sono strette.
Case, casette ed anche semplici capanne di paglia e di fango, ma tutte coi tetti arcuati e sormontati dalle banderuole o dei draghi cigolanti sugli arrugginiti sostegni, le une addossate alle altre, e senza ordine.
Essendo il sole già prossimo al tramonto, dinanzi a quelle abitazioni era stata già accesa qualcuna di quelle monumentali lanterne di carta oliata, che spandono quella luce scialba, malinconica, tanto cara ai coduti figli del Celeste Impero.
Hang-Tu percorse rapidamente parecchie stradicciuole che erano deserte e s’arrestò dinanzi ad una casa d’aspetto tetro, colle pareti screpolate, colle arcate dei tetti minaccianti rovina, colle invetriate delle piccole finestre formate di conchiglie semitrasparenti tagliate a quadretti e fissate su di un telaio di legno.
Sulla porta, semi-nascosta da un basso muricciuolo, destinato, secondo le credenze dei chinesi, ad impedire l’entrata agli spiriti maligni, si vedevano delle figure malamente disegnate e peggio dipinte, rappresentanti le tre incarnazioni del filosofo chinese Lao-Tse, sormontate da due sentenze scritte su carta incollata e che volevano dire:
«Dirimpetto a me possa sorgere la ricchezza».
E l’altra:
«Possano i favori del Tien (cielo) scendere su questa porta».
Hang-Tu si volse verso il meticcio, dicendogli:
– Ci siamo.
– Ma dove? – chiese Romero, con una certa ansietà.
– Dove ci aspettano.
Gettò un rapido sguardo sulla viuzza a malapena rischiarata da una lanterna che ardeva sull’angolo d’una casa, poi accostò le dita alle labbra, mandando tre fischi acuti.
Un istante dopo, la porta della casa d’aspetto sinistro s’apriva senza far rumore ed un chinese di statura quasi gigantesca, con un cappello di fibre di rotang sul capo ed una lunga casacca di tela azzurra, stretta alla cintura da una larga fascia sostenente due rivoltelle, comparve, dicendo:
– Eccomi, Hang-Tu.
– I figli del Lotus bianco e del Giglio d’acqua sono pronti?…
– Sí, Hang.
– Siamo sicuri?…
– Vi sono sessanta uomini disseminati nel quartiere. Nessun bianco potrà avvicinarsi senza essere scorto e pugnalato.
– è necessario che si vegli attentamente, poiché conduco con me l’uomo atteso.
– Manderemo altri venti uomini nel quartiere malese.
– Va bene.
Hang-Tu prese Romero per una mano, attraversò la porta girando il muricciuolo e s’inoltrò in un corridoio tortuoso ed oscuro, ma procedendo speditamente, senza esitazioni, come un uomo che già conosce la via.
Dopo d’aver disceso parecchi gradini, introdusse il meticcio in un salotto privo di finestre, ma illuminato da una grande lanterna coi vetri di corna di bufalo ridotte in sottilissime lastre, e adorni di fiori variopinti.
Quella stanza doveva trovarsi sottoterra, ma nessuna traccia di umidità si scorgeva sulle pareti, che erano coperte di carta fiorita di Tug e adorne di arazzi di seta color rosso fuoco a grandi disegni rappresentanti mostruosi draghi vomitanti fuoco e lune sorridenti.