Kitabı oku: «Due. Dispari», sayfa 3
Stonato com’era, e con la vista offuscata, il salone del primo piano della villa gli sembrò girare su se stesso; ciò nonostante intravide nella penombra, nei pressi della grande scalinata, un ragazzo che sorreggeva la testa di un’amica, il cui corpo appariva abbandonato senza forze sulla moquette.
Si volse immediatamente dall’altra parte, per evitare impicci, sperando di non essere notato.
Ma il ragazzo, che appariva nervoso, gli chiese un aiuto, e i loro sguardi si incrociarono per un attimo fugace, impercettibile ma concreto, prima che lui, senza degnarlo di una risposta, scendesse le scale, diretto con andatura risoluta verso l’uscita della proprietà e passandosi di tanto in tanto le dita fra i capelli ancora sudati.
Si rese conto di aver dimenticato nella camera da letto il cappellino da baseball, che gli avrebbe fatto comodo per coprirsi maggiormente il volto, ma decise di non recuperarlo per evitare di intercettare nuovamente quel tipo e la sua bella addormentata, forse svenuta.
Attraversò il parco di fretta, con lo sguardo basso, facendo il possibile per evitare di incrociare gli sguardi della gente, arrivando al parcheggio con il cuore che batteva a ritmo superiore al solito, carico di adrenalina per l’esperienza di poco prima.
Numerosi taxi attendevano i reduci della festa; lui si infilò nel primo disponibile e, una volta entrato nell’abitacolo, si annusò le mani, impregnate di sesso della ragazza misto a marijuana, e finalmente si rilassò, sforzandosi di vergare nella propria memoria la memorabile orgia.
«Calle del Tesoro, grazie» disse con voce roca all’autista, rimanendo così, con gli occhi chiusi e le dita vicine alle narici, per qualche minuto, seduto sul sedile posteriore e cullato dagli echi della musica della festa, ormai lontano sottofondo di una serata unica, lasciandosi portare verso il suo destino.
Era atteso a un appuntamento che, a breve, gli avrebbe cambiato la vita, ma non lo poteva sapere.
***
Dal momento del black out, al piano terra la confusione aveva regnato sovrana.
Nelly si sgolava per chiedere ai partecipanti di restare tranquilli, assicurando che entro breve il guasto sarebbe stato sistemato.
Gli invitati, sull’onda dell’euforia della festa, non avevano perso l’occasione per intonare canti e balli, schiamazzando felici e incuranti dell’inconveniente.
Ronald ne aveva approfittato per divincolarsi dall’abbraccio verbalmente tentacolare di una sua ammiratrice che da quasi mezz’ora lo stava annoiando, impedendogli di cercare Carmen.
Si era fiondato nel giardino e aveva iniziato a chiamarla, tentando con scarso successo di sovrastare il volume dei cori dei festaioli ubriachi.
Aveva cercato di amplificare la propria voce aiutandosi con le mani, appoggiate a mo’ di megafono ai lati della bocca, ma i risultati non erano migliorati; aveva quindi provato a rintracciarla sul cellulare, dimenticandosi che era stato smarrito proprio quel pomeriggio.
Nel frattempo aveva iniziato a piovere, con grande soddisfazione dei reduci del ballo, sudati e stropicciati, fumati e bevuti, che approfittarono dell’acquazzone per una doccia rinfrescante a cielo aperto, improvvisando girotondi e canti da osteria, senza smettere di bere.
Era rientrato in casa e, attraversando il salone da ballo ormai semivuoto, si era diretto verso la scalinata di marmo bianco, che aveva salito di corsa, saltando i gradini a due a due, facendo attenzione a non inciampare per il buio.
Era arrivato nel grande salone con il tappeto blu scorgendo, appoggiata allo stipite di una porta, Carmen.
Le ginocchia sembravano non riuscire a reggere il suo peso; stringeva in mano una bottiglia vuota di vodka e, a occhi chiusi, cantava a squarciagola una canzone inglese che non era riuscito a decifrare.
Non si era accorta dell’arrivo dell’amico, che si era affrettato a prenderle con forza il capo fra le mani, chiamandola con foga.
«Carmen, Carmen! Sei ubriaca fradicia! Ti porto subito via, forza, non puoi restare qui in queste condizioni!».
Aveva parlato accavallando le parole, quasi balbettando, con una voce stridula: sotto stress, l’aplomb di Ronald, che tanto piaceva a Carmen, svaniva miseramente.
La ragazza si era immobilizzata per qualche secondo, cedendo poi tutt’a un tratto e abbandonandosi fra le braccia dell’amico, che la stese sul tappeto, incosciente.
Finalmente tornò la corrente e la musica, inaspettata ed esplosiva, riprese a pompare, contornata dalle grida ubriache dei ragazzi al piano terra.
Ronald lasciò per un attimo Carmen e corse da basso per recuperare un po’ d’acqua; entrando nel salone da ballo, ebbe l’impressione che i muri tremassero, la terra sobbalzasse, la sua testa fosse trafitta da una gelida lama di spada, ma trovò comunque la forza per attraversare la baraonda di ragazzi che avevano ripreso a ballare e raggiunse il barman, cui chiese una bottiglietta d’acqua fresca.
Risalì di corsa da Carmen, che permaneva stesa sul tappeto nell’angolo del salone, e vide in quel momento uscire da una stanza un uomo alto, riccio, con l’aria disordinata e l’aspetto trafelato.
Sembrava avesse davvero fretta, quell’uomo, ma era l’unico a cui Ronald potesse rivolgersi, in quel momento di necessità.
Gli chiese nervosamente un aiuto, incrociando il suo sguardo sfuggente, ma non ricevette alcuna risposta dal tipo, che scese di corsa le scale, dileguandosi nella ressa del piano terra.
«Stronzo!» gli gridò Ronald, pur con la voce coperta dal volume della musica, prima di rifocalizzare la propria attenzione su Carmen, versandole poco a poco l’acqua fresca sul viso e forzandola di tanto in tanto a berne qualche sorso.
La ragazza si svegliò tossendo, appoggiandosi con fatica sulle spalle dell’amico per riuscire drizzare la schiena, e cercando aria a pieni polmoni.
«Carmen, svegliati, ti prego!».
Le mani di Ronald tremavano per lo stato di tensione nel quale era entrato e la sua voce sembrava rimbombare sotto l’alto soffitto del salone, nonostante da sotto arrivassero gli echi della musica sparata dal dee-jay.
Carmen sbatté gli occhi in stato di semi-incoscienza, prima di inarcare d’un tratto la schiena e vomitare sul tappeto persiano.
Ronald fece un salto all’indietro per non sporcarsi, trattenendo a sua volta un conato e sforzandosi al contempo di non lasciarle la testa, che sembrava potersi staccare da un momento all’altro, tanto era privo di forze il corpo della ragazza.
«Portami a casa, Ronald. Per favore» fu la supplica di Carmen, masticata fra i denti, la fronte imperlata di sudore, i capelli zuppi e spettinati.
«Certo, Carmen. Ti porto subito».
Sollevò di peso l’amica, tenendola in braccio e sorreggendole la nuca, poi scese lentamente le scale, sentendo aumentare a ogni gradino il volume della musica proveniente da basso.
Attraversò il più rapidamente possibile il salone da ballo al piano terra e proseguì con fermezza per il sentiero nel parco, giungendo al parcheggio stanco e ansimante.
Fortunatamente, la Volvo che all’arrivo aveva impedito a Carmen di scendere era già ripartita.
Spalancò la portiera posteriore della Due Cavalli, adagiò delicatamente Carmen sul sedile bagnato - il tettuccio dell’auto era rimasto aperto per tutto il temporale - e si avviò verso la sua casa, chiedendole sottovoce di non sporcargli la macchina, nei limiti del possibile.
Da dietro, Carmen rispose affermativamente, con un semplice cenno del capo, prima di addormentarsi di colpo con un inaspettato accenno di sorriso sul volto, ebbra come mai lo era stata in vita sua.
Arrivata a destinazione, accompagnata fino alla soglia da Ronald, riuscì a malapena a entrare nell’appartamento, avvolta dal silenzio della notte, prima di crollare nel proprio letto ancora vestita.
Mar, china sui libri nella camera adiacente, non si accorse di nulla.
Si abbandonò a sogni turbolenti, di cui non sarebbe comunque rimasta traccia il giorno successivo.
Un’indagine complessa
I wish I was a sailor with someone who waited for me
I wish I was as fortunate as fortunate as me
I wish I was a messenger and all the news was good.
(Pearl Jam)
Lunedì.
Passati i giorni peggiori di quella fredda primavera costaricana, passò poco a poco anche il picco dell’influenza di Castillo.
Dopo il periodo di pit-stop, era finalmente pronto per tornare al lavoro, carico di energia e buoni propositi.
Quella mattina si svegliò presto, uscì fischiettando dalla doccia, si rasò rapidamente, si inondò di dopobarba Denim e decise di indossare, quasi per celebrare il rientro al lavoro (era la prima volta in tanti anni che si assentava per due settimane di fila) il vestito di velluto nero col panciotto che tanto lo faceva sembrare un vecchio giocatore di biliardo.
La cosa gli piaceva, considerato anche il fatto che lui, amante della goriziana, negli anni universitari aveva passato più tempo sul tavolo verde che sui libri del corso di giurisprudenza.
Per colazione la signora Conchita gli preparò un caffè doppio accompagnato da tre churros appena fritti e Castillo la ringraziò con un sonoro bacio sulla guancia.
Lei, come sempre, tentò di fingere disinteresse per quella casta manifestazione di affetto, ma fu tradita da un mal celato sorriso di soddisfazione.
Era una donna ancora affascinante, aveva occhi verdi incastonati in un viso ovale e lunga ciglia nere, gli zigomi alti e un sorriso perfetto.
I lunghi capelli neri le scendevano morbidi sulle spalle e qualche filo argenteo iniziava a manifestarsi qua e là; ciò non la preoccupava affatto e questo non faceva che aumentare il sentimento dell’ispettore Castillo, innamorato e orgoglioso della poca importanza che sua moglie attribuiva a mere questioni di apparenza.
«G-grazie, amore m-mio» disse faticosamente Castillo, affondando i denti nel churro più dorato e chiudendo gli occhi a ogni morso per sottolinearne la prelibatezza.
«Di nulla, caro» rispose la signora Conchita, dandogli le spalle e aprendo le ante della finestra della cucina, certa di trovare, sotto il cielo plumbeo, un acquazzone: suo marito, quando pioveva, balbettava.
E quando la pioggia era particolarmente intensa, come quella mattina, le parole proprio sembrava non volessero uscire dalla bocca.
In quei casi, la lingua di Castillo si intestardiva sul palato, insensibile agli sforzi di volontà dell’ispettore, con una sfumatura quasi sadica che gli provocava imbarazzi indesiderati, dai quali usciva solo chiudendo violentemente le fauci e serrando le mascelle per qualche secondo, nella maggior parte dei casi chiudendo al contempo anche gli occhi.
Gesto fastidioso, nella maggior parte dei casi, ma efficace.
Mar e Carmen entrarono quasi contemporaneamente in cucina, entrambe ancora stropicciate da una notte di poco sonno, una per motivi di studio, l’altra reduce da una festa universitaria quantomeno movimentata e innaffiata da troppo alcool.
Salutarono i genitori con un bacio sulla guancia solo accennato e si sedettero una di fronte all’altra.
Mar amava passarsi una mano fra capelli corti e neri, di un colore corvino che in molti stentavano a credere potesse essere naturale; aveva un sorriso solare baciato da una dentatura da pubblicità e due gemme verdi al posto degli occhi, chiara eredità cromosomica della madre.
Era la maggiore e fisicamente la differenza fra le due era lampante; a ventidue anni era già una donna, con le rotondità del seno e dei glutei sempre in bella evidenza, nei vestiti stretti che amava indossare.
Castillo sopportava non senza preoccupazioni quella situazione, per la poca fiducia che aprioristicamente nutriva nei confronti della nuova generazione, ma si sforzava di confortarsi pensando ai bei voti scolastici della figlia che, secondo i suoi insindacabili canoni, era una brava ragazza.
In Carmen erano invece ancora presenti i tratti dell’adolescenza e a vent’anni, diversamente da buona parte delle sue coetanee, non aveva ancora terminato lo sviluppo fisico.
I seni erano solo accennati, era di quasi dieci centimetri più bassa della sorella e pesava venti chili in meno.
Sul suo viso, dai lineamenti aspri enfatizzati dalla magrezza forse eccessiva, risaltavano curiose lentiggini concentrate soprattutto sulle gote; i capelli lunghi e mossi, non curati, contribuivano a creare il personaggio alternativo che le piaceva interpretare fuori dalle mura domestiche, in particolare nelle occasioni in cui riusciva ad accodarsi a Mar e alla sua compagnia.
«N-notte i-impegnativa, ragazze?» chiese Castillo, prima di sorseggiare il caffè nero bollente che, dopo i giorni d’influenza accompagnati da tristi tisane ristoratrici, gli sembrò più buono che mai.
La signora Conchita scaldò dell’acqua e v’immerse due bustine di the, sapendo che avrebbe fatto bene agli stomaci ingarbugliati delle figlie.
Il profumo dell’infuso pervase rapidamente la stanza e sembrò avere un effetto benefico immediato su Mar, che passò in pochi secondi dallo stato di catalessi nel quale si era presentata in cucina a quello di iperattività che tanta invidia provocava a Castillo, ormai lontano da quei ritmi che appartenevano al suo passato di brillante universitario.
Le domande della figlia maggiore lo investirono senza preavviso.
«Papà, torni al lavoro oggi? Hai voglia? Stai seguendo qualche caso? È successo qualcosa d’interessante in questi giorni? Hai visto come piove? Speriamo tu non debba parlare troppo! Mamma, questo the è buonissimo! Carmen, ti vuoi svegliare?» e così via.
Carmen, stringendo fra le mani la tazza fumante preparata dalla madre, rimase nel suo stato catatonico.
Pur incalzato dalle domande della figlia maggiore, l’ispettore Castillo abbassò la serranda del proprio ascolto e si estraniò dai successivi dieci minuti di conversazione - se di conversazione si poteva parlare, considerando che anche la signora Conchita in quelle situazioni preferiva rinunciare a intervenire nel flusso irrisolto di domande della figlia.
I pensieri iniziarono poco a poco a fluirgli liberi.
Si concentrò sui principali fatti di cronaca nera avvenuti durante il periodo passato a letto, sforzandosi di individuare quelli che potevano scaturire in nuovi lavori per lui e per lo Slavo.
Aveva bisogno di impegnare la testa, dopo i giorni a letto, e percepì una piacevole carica di adrenalina montargli poco a poco dallo stomaco.
Una raffica improvvisa di vento fece sbattere le ante della cucina.
«S-signore mie… v-vado al l-lavoro. Splendida g-giornata, eh? Ci vediamo questa s-sera».
S’infilò l’impermeabile verde, afferrò il primo ombrello che gli capitò a portata di mano e soffiò un bacio verso le sue donne, che ricambiarono il saluto, a parte Carmen, che rimase immobile con la tazza fra le mani.
L’Alfa 159 attendeva Castillo dall’altra parte della strada, fiammante come sempre, ma i giorni di sosta forzata durante la malattia non le avevano fatto bene: l’ispettore impiegò quasi dieci minuti per riavviare il motore - più del tempo che, camminando, avrebbe impiegato per arrivare in ufficio - fra imprecazioni violente e le risa di Mar che, dalla finestra, lo spiava da dietro le tende.
La cosa che più lo faceva imbestialire, in queste situazioni, era che gli improperi non subivano l’effetto balbuzie: gli uscivano dalla bocca chiari, netti, indiscutibili, a prescindere dall’intensità della pioggia.
Accese la radio e iniziò a tamburellare con i polpastrelli a ritmo di musica sul volante, procedendo, come suo solito, a velocità bassissima, incurante degli sguardi di disprezzo, talvolta accompagnati da insulti, degli autisti più giovani che lo sorpassavano.
Andare in macchina era uno dei pochi momenti in cui il suo cervello si staccava dai pensieri quotidiani, in una sorta di zona franca che gli permetteva di analizzare le situazioni da un punto di vista esterno e in più di un’occasione questo distacco era stato la chiave di volta per trovare la soluzione dei casi che seguiva.
Arrivò in breve tempo nel parcheggio di Calle Arenal, scese con calma dall’auto, comprò un quotidiano all’angolo della strada, se lo infilò sotto il braccio e, attraversando Plaza Allende, procedette a passo tranquillo verso l’ufficio, poco distante.
Sembrava che la chiesa di San Isidro e la locanda Hermosa si guardassero in cagnesco, ognuna affacciata sul proprio lato della piazza.
Nel frattempo aveva smesso di piovere e questo gli dava maggior tranquillità per il rientro al lavoro anche se, dopo tutti quegli anni, la balbuzie aveva smesso di costituire un problema insormontabile per lui.
Entrò in ufficio aprendo la porta di soppiatto, quasi non volesse farsi notare, ma il volume della radio che sparava You shook me all night long lo avrebbe comunque coperto.
Trovò lo Slavo intento ad armeggiare con il modem, accucciato a fianco del suo computer; aveva la testa incassata fra le spalle per non sbattere con la nuca contro il tavolo e, stando alla smorfia del volto, la posizione innaturale non doveva essere proprio comoda.
Si schiarì la voce, ma questo non servì a far sì che lo Slavo si rendesse conto del suo arrivo.
Optò allora per l’intervento radicale, spegnendo lo stereo proprio un attimo prima del ritornello.
Un gesto di una violenza inaudita, per un amante del rock come lui, che una volta, ai tempi dell’università, telefonò alla radio nazionale per lamentarsi con il deejay di aver malamente sfumato Sultans of Swing prima dell’assolo finale.
L’improvviso silenzio nell’ufficio ebbe l’effetto sperato, richiamando l’attenzione dello Slavo, che emerse da sotto al tavolo stirandosi la schiena, sempre con il modem in mano.
«Quindi? Non l’hai ancora riportato indietro quell’aggeggio?» attaccò Castillo, appendendo l’impermeabile verde all’attaccapanni posizionato di fianco all’entrata.
«Buongiorno ispettore, ben tornato» rispose sorridendo lo Slavo, tendendogli la mano, che l’ispettore strinse con il solito vigore accompagnato dal sorriso bonario che non lesinava mai agli amici.
«Per il rientro ci vuole subito un quiz, ragazzo».
Con una perfetta pausa finalizzata ad aumentare il climax della situazione, Castillo si fermò un attimo, senza distogliere lo sguardo dal suo interlocutore e scandì con voce roca i versi di un brano che lo riempiva di emozioni.
Take your time
Hurry up
The choice is yours
Don’t be late
Take a rest
As a friend
As an old memoria.
Lo Slavo ci mise un secondo per capire il brano.
«Ispettore, troppo facile! Come as you are, Nirvana».
«Lo so che è facile, ma non volevo avvelenarti il mio rientro con cose troppo complicate… pensa che ascoltavo questa canzone quando la signora Conchita era incinta di Carmen e ogni volta che la sento mi si drizzano i peli sulle braccia! Ah, la mia bambina! E ora lasciami leggere un attimo il giornale, tu intanto vedi di sistemare quel maledetto modem, ok?».
«D’accordo ispettore, d’accordo».
Lo Slavo si rimise al lavoro, accucciandosi sotto il tavolo del computer con un accenno di sorriso sulle labbra, e rendendosi conto di quanto il rientro dell’ispettore lo rallegrasse; poco dopo, si rimise all’ascolto di Radio Reloj, che trasmetteva buona musica rock senza interruzioni di assoli, come amava sottolineare Castillo.
Ma quella mattina, il deejay fece un’eccezione, tagliando bruscamente l’estasi di Slash nella versione dal vivo di Knocking on Heavens Door.
«Interrompiamo la programmazione, cari ascoltatori, per comunicare purtroppo una tragica notizia. Il parroco di Burgos, Padre Juan, è stato trovato morto questa mattina in Calle del Tesoro, a seguito di una caduta dal balcone dell’appartamento nel quale viveva. Non si hanno al momento elementi per valutare con precisione la dinamica dell’accaduto. Vi terremo aggiornati in tempo reale, come sempre».
La ripresa immediata dell’assolo provocò all’ispettore un brivido freddo che gli percorse la schiena come una scossa elettrica.
Appoggiò la testa sullo schienale della propria poltrona da ufficio e fissò lo sguardo sulle dense nuvole nel cielo, che garantivano di lì a breve nuovi acquazzoni.
Mentalmente, imprecò.
«Slavo, andiamo subito a vedere cosa è successo, ho voglia di muovermi e di far andare un po’ la testa su questo suicidio» sentenziò, infilandosi l’impermeabile e raccattando dal portaombrelli l’unico ombrellino rimasto.
«Sempre che di suicidio si tratti» pensò poi fra sé e sé, dubbioso.
Attraversarono piazza Allende di buon passo, Castillo davanti, lo Slavo un mezzo metro dietro, arrancando.
Camminava zoppicando in modo quasi impercettibile, ma Castillo, fine osservatore, non aveva perso quel dettaglio e si era più volte ripromesso di chiedergli quale ne fosse la causa, ma per un motivo o per l’altro non l’aveva mai fatto.
E anche in quel caso i suoi pensieri erano stati subito calamitati dalla notizia di Padre Juan, lasciando l’andatura sbilenca dell’amico in un lontano secondo piano.
Castillo era un vecchio conoscente del prete, con cui aveva condiviso gli anni dell’università, a San Josè e, nonostante le loro strade avessero poi seguito percorsi diversi, quasi divergenti, fra i due si era mantenuta una stima reciproca che portava l’ispettore a definire Padre Juan come il proprio unico amico in ambito clericale.
Era un parroco atipico, con una folta chioma di capelli ricci in perenne disordine e una barba poco curata.
Vestiva moderno, spesso in jeans e anfibi, tanto che in molti stentavano a credere che fosse veramente un ecclesiastico, ma forse proprio per quello nel paese era diventato un punto di riferimento imprescindibile per tutti, cattolici e non.
La sua capacità oratoria era proverbiale e le prediche domenicali costituivano un appuntamento importante per la comunità, a prescindere dal credo dei singoli.
Castillo e lo Slavo arrivarono al parcheggio di Calle Arenal in pochi minuti, non sufficienti però a evitare le prime gocce di pioggia sulle loro teste.
«G-guida tu, per favore, che io ho b-bisogno di riflettere» disse l’ispettore, lanciando le chiavi dell’Alfa allo Slavo e alzandosi il colletto dell’impermeabile per ripararsi dalle prime raffiche di vento che iniziavano a spazzare le strade.
Lo Slavo prese le chiavi al volo e senza dire una parola avviò il motore.
Le strade erano semideserte e, durante il breve viaggio per raggiungere la zona popolare di Calle del Tesoro, permasero assorti nei propri pensieri.
Arrivarono in meno di un quarto d’ora, parcheggiarono l’Alfa accostandola al marciapiede di fronte all’abitazione del prete e scesero dall’auto.
Castillo diede una rapida occhiata panoramica al contesto ambientale.
L’appartamento di Padre Juan era parte di un classico casermone di edilizia popolare, cinque piani di muri rossastri imbrattati quasi completamente da writers improvvisati, molti vetri delle finestre rotti, antenne paraboliche attaccate anche con lo scotch ai balconi e volumi delle televisioni abbondantemente fuori soglia rispetto alle regole non scritte di buon vicinato.
Da molte finestre sventolavano come fiacche bandiere vestiti di diverso tipo, tutti stesi senza cura all’aria aperta.
Castillo non poté evitare di pensare che a Padre Juan, evidentemente, piaceva vivere a stretto contatto con gli ultimi.
Le grida gioiose dei bambini che giocavano nel cortile interno si alternavano alle urla quasi rabbiose delle madri che li cercavano, invano, per chiamarli in casa e ripararsi dalla pioggia.
In terra, sul marciapiede, era rimasta una chiazza di sangue rappreso che i servizi ambientali di Burgos non avevano ancora pulito.
Confidavano nell’acquazzone pomeridiano, probabilmente.
«Un b-bel salto, non c’è che dire» disse Castillo, volgendosi verso lo Slavo, che permaneva ritto sul marciapiede, con lo sguardo diretto verso il basso parapetto del balcone del terzo piano e il giornale locale appoggiato a mo’ di visiera sulla fronte, per evitare le gocce negli occhi.
Lo Slavo non proferì parola.
Sapeva che doveva rispondere all’ispettore solo a fronte di precisa domanda, che non tardò ad arrivare.
«Che ne p-pensi?».
«Un suicidio di una persona a cui tutti volevano bene. Povero padre Juan. Chissà cosa gli è passato per la testa» rispose il ragazzo, ciondolando la testa e rendendosi immediatamente conto della banalità dell’affermazione.
L’ispettore alzò il sopracciglio sinistro, incrociò le braccia al petto e si volse lentamente verso di lui.
«Apparentemente sì. Ma r-ragioniamoci un attimo. Che motivo poteva avere un personaggio come Padre Juan per gettarsi dal t-terzo piano? Era un uomo stimato dalla comunità, sereno, per come lo conoscevo io. D’altronde, m-mi vien da dire, anche l’ipotesi che sia stato ucciso è difficilmente sostenibile: che nemici poteva avere una persona così? Lasciami c-chiamare la polizia per sentire se abbiano aperto un’indagine».
Lo Slavo quasi si stupì per la tranquillità con cui Castillo gli si era rivolto.
Solitamente, a fronte delle sue uscite scontate, l’ispettore reagiva con l’effetto cerino, infiammandosi rapidamente e, altrettanto rapidamente, spegnendosi.
Ma i giorni trascorsi a casa dovevano aver giovato alla sua tranquillità, o forse, più banalmente, non voleva iniziare la settimana con una discussione sterile.
Castillo estrasse il telefono dalla tasca laterale dell’impermeabile e compose il numero della centrale di polizia di San Josè.
Al terzo squillo rispose Herreros, un ex poliziotto della volante che qualche anno prima, a seguito di uno scontro a fuoco con un clan di narcotrafficanti, era rimasto paralizzato dalla vita in giù e ora deambulava in sedia a rotelle.
Anche lui di Burgos, e per questo fin da prima dell’ingresso in polizia stretto amico di Castillo, era un uomo di corporatura robusta e portava una folta barba nera, che alcuni dicevano fosse dettata dalla necessità di nascondere una profonda cicatrice da coltello, regalo di uno degli svariati scontri con la malavita centroamericana.
Non aveva famiglia e passava la maggior parte delle serate libere nelle birrerie della capitale a parlare con la gente che incontrava.
Era da sempre e da tutti conosciuto come un uomo buono, con occhi miti, sguardo burbero ma dolce, sempre puntato verso l’orizzonte, e la notizia del suo ferimento con conseguente paralisi aveva gettato i più nello sconforto.
Il posto di centralinista alla sede di polizia di San José gli era stato affidato in virtù della sua affabilità con la gente, che nonostante l’incidente era rimasta intatta.
E quel caso non fece eccezione.
«Polizia di San José, buongiorno. Come possiamo aiutarla?».
«Herreros c-ciao, sono Castillo. Come va?».
«Ciao Castillo! Che piacere sentirti, vecchio mio! Dimmi tutto».
«Chiamo perché vorrei s-sapere se qualcuno della volante sia passato in Calle del Tesoro questa m-mattina per il suicidio di P-padre Juan».
«Sento che piove, eh?».
Herreros sapeva di potersi permettersi quelle battute con l’amico, data la confidenza fra i due.
«Ho sentito anche io di Padre Juan, pover’anima... non so se qualcuno dei nostri sia intervenuto, lasciami verificare, ti richiamo io a breve».
«Ti ringrazio. A dopo, allora». «A dopo».
Castillo fece due passi avanti, scavalcando la chiazza di sangue sul marciapiede, e spinse con la punta delle dita il portone d’ingresso dello stabile che si aprì con un cigolio fastidioso.
Con un cenno del capo invitò lo Slavo a seguirlo.
Nell’androne del palazzo un neon traballante illuminava senza decisione le scale, che salivano sulla destra dell’ascensore.
Un foglio di carta appeso con lo scotch al muro e scritto con un pennarello rosso informava che l’ascensore era rotto.
Il gabbiotto della portineria, separato dal resto dell’androne da una sottile parete di vetro che si ergeva di fianco a una minuscola porta in legno, era desolatamente al buio.
Lo schienale mancante dell’unica sedia presente era il chiaro segno che, da tempo, nessuno dava il benvenuto ai condòmini da quello stanzino.
Castillo ne percepì il senso di abbandono, il disordine, il pesante spessore della polvere accumulata all’interno.
Passò oltre e si infilò per le scale esterne, seguito dallo Slavo e accompagnato dal ronzio del neon.
L’intenso odore di piscio sulle scale era rivoltante e l’ispettore si chiese come avesse potuto Padre Juan vivere per tanti anni in quel posto tanto sordido.
Salendo gli ultimi gradini a due a due, si ritrovò sul pianerottolo del terzo piano, quello dell’appartamento del prete, con le tempie pulsanti e una frequenza cardiaca tambureggiante.
«Tutto bene, ispettore?» chiese lo Slavo, guardandosi in giro alla ricerca di un interruttore per illuminare il corridoio.
«S-sì, più o meno» rispose Castillo, piegato sulle ginocchia alla ricerca di ossigeno.
Le giornate trascorse a letto non avevano certamente giovato ai suoi polmoni e si ripromise, per l’ennesima volta, di iniziare di lì a breve un programma di allenamento per recuperare almeno in parte la forma fisica perduta.
Lo Slavo, accesa la luce, esaminò tutte le porte del corridoio, leggendo il nome dell’inquilino sulla targhetta esposta, fino a che trovò quella giusta.
«Ci siamo, questa è la casa di Padre Juan» disse indicando una porta di color marrone scuro.
Castillo si limitò a un cenno d’assenso.
Lo Slavo estrasse dalla tasca anteriore dei suoi jeans slavati un passepartout di metallo, ma prima che potesse tentare di infilarlo nella serratura fu interrotto dalla voce tuonante dell’ispettore.
«P-Proviamo a suonare il campanello, prima di fare s-stupidaggini. Non abbiamo alcuna a-autorizzazione per entrare, e l’ultima cosa che voglio è essere accusato di effrazione nella casa di un morto. È chiaro?».
Ücretsiz ön izlemeyi tamamladınız.