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Kitabı oku: «Il dolore nell'arte: discorso», sayfa 3

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V

Ed ecco, in ogni attitudine che ogni dolore compone, infiniti fantasmi cui l'Arte diè vita e nome dopo che un dramma di passione divina ebbe trasformato il mondo. Disponendomi ad additarvene alcuni tra i più famosi, penso di escluderne le creazioni dell'arte sacra, delle quali è difficile riconoscere fino a qual punto sieno state ispirate dalla fede e dalla bellezza ideale della religione piuttosto che dalla bellezza ideale del dolore. Mi sia solamente concesso di affermare che nessuna fede religiosa si richiede a godere di tante magnifiche rappresentazioni del soffrire; che davanti alla Pietà scolpita da Michelangelo e alla Pietà dipinta da Van Dyck anche uno scettico, se ha intelletto e cuore, sente, insieme all'ammirazione artistica, le inquietudini di una simpatia profonda. Egli si accuserà forse di debolezze atavistiche e la sua ragione insorgerà contro il suo sentimento, ma questa presunta debolezza sentimentale non è in fondo che la intuizione incosciente di una bellezza intellettuale e morale del dolore, segreta sì, ma, come dirò più tardi, non impossibile a scoprire meditando. E ora passate in silenzio, legioni afflitte! Passate, madonne del Beato Angelico, di Giambellino e di Sassoferrato, dolci creature sacre al dolore, che tanto soavemente piegate sotto il dono misterioso e terribile; passate, nobili immagini del vir dolorum, che il genio di Rubens e di Michelangelo evocò sulla tela e dal marmo, biondi adolescenti che Luino assise pensosi a piè della Croce, penitenti e martiri irradianti da mille famose tele la divina luce di un dolore che giunto dai sensi al più interno dell'anima vi è trasmutato in un'aurora di gioia eterna. Passate accompagnati da quelle melodie sovrumane che suonarono nella mente di Francesco Francia quando dipinse i suoi musicisti del cielo. Passate, cedete ad altri fantasmi!

VI

Ecco le visioni dantesche del dolore. Considerate, signori, come fra tante ammirabili forme che vincono i secoli, quelle ci rapiscano a entusiasmi quasi tormentosi nella loro dolcezza, nella loro misura superiore alla parola, le quali ci rappresentano un dolore almeno in parte immeritato, almeno in parte inesplicabile. Quando Dante ci descrive una pena giustamente commisurata alla colpa, mai non si mesce all'ammirazione nostra il sentimento dolce e tormentoso di cui vi parlo. Solo fra i dannati ci commuove così Francesca. Il poeta rappresentò Francesca e la sua colpa per modo che la sua pena eterna non consuona, inconsci o no che ne siamo, con il nostro intimo sentimento della giustizia. La dolce Francesca, che dall'impeto colpevole del volere altrui, d'improvviso, in un momento di oblio, fu tratta al peccato, che neppur nell'Inferno ha smarrito il senso riverente del divino, il desiderio della preghiera, il gentile rispondere dell'animo alla pietà, ci commuove tanto perchè nella nostra mente, consci o no che siamo, la misura della sua pena eccede la misura del suo consenso al male. E Dante stesso mentre creava per l'Inferno l'amoroso fantasma pare avere in qualche oscuro modo sentito così perchè dannò alla profonda Caina il marito punitore e non mosse Virgilio a rimproverarlo, come in altra parte del poema, per una pietà contraddicente al giudicio divino. La stessa potenza per la stessa cagione ha il fantasma del conte Ugolino, la visione non del tormento infernale, ma del dolore che il vivo patì con gl'innocenti compagni suoi e che non sappiamo accordare con la nostra conoscenza della giustizia. E soave nell'aura di un dolore senza giusta causa sofferto tu passi davanti a me, ombra della Pia che Maremma disfece; più soave nella memoria per un solo cenno di quel dolore che qualsiasi beato spirito raggiante nel paradiso del tuo Poeta.

VII

Ecco, tra le infinite ombre che seguono, venute da ogni tempo e da ogni paese, il Pensieroso di Michelangelo, solitario sul suo seggio di principe, contemplante nel vuoto come in uno specchio invisibile qualche idea triste della sua mente. Ecco, un tragico sciame di anime che il soffio di Shakespeare ha suscitato dal niente e porta nei secoli; il buon vecchio Re pazzo, errante a caso nella notte e nella tempesta, il principe infelice, meditabondo in faccia al delitto, i dolci, pallidi visi di Cordelia la semplice e di Desdemona la fedele, strangolate. Ecco il giovine Werther che scrive l'ultimo addio a Carlotta e alla vita. Ecco, nelle gelide nebbie di una notte invernale, il padre straziato che cavalca fra i grigi ontani stringendosi in braccio il figliuoletto morente, delirante, chiedente aiuto invano contro un caudato e coronato spettro che lo chiama, che lo vuole, che lo afferra, che lo uccide. Ecco la sconsolata Margherita che geme ginocchioni davanti a una immagine della Mater Dolorosa e Tecla invocante la stessa Pia che a sè la richiami da questo basso mondo ove per lei l'ora dell'amore e della intensa vita passò; e bella, florida di speranze come a primavera la spica, come il tralcio d'estate, nell'ombra d'un carcere, con l'orrore della ghigliottina negli occhi, la fanciulla che Andrea Chénier udì singhiozzare, avvinghiandosi disperatamente alla vita; «je ne veux point mourir encore!» Ecco il Bonnivard di Byron che nel nero Chillon apprende ad amare la disperazione. Ecco la Musa di Leopardi assorta nella contemplazione dell'universale soffrire che mette capo al nulla, vaga della morte, intenta continuamente a ornarsi di queste tristezze magnifiche, sia detto senza offesa del grande Poeta, come predilige i pizzi e i velluti neri una dama che li sa confacenti alla sua bellezza. Nella più squisita coppa che arte di poeta lavorasse mai per quest'uso, Leopardi ne porge la più pura essenza del dolore del mondo e noi ne leviamo le labbra sospirando per una mistica ebbrezza che ne invade, che ne innamora di sè, che nei cuori giovanetti torna in idolatria vana del dolore, in concepimenti di poesia sconsolata, falsa e debole perchè artificiale ma tuttavia documento dell'occulto fascino di bellezza cui possiede il concetto più puro e più vasto del dolore, l'idea di un dolore inesplicabile, infuso al mondo dalla ignota sua Causa per modo che la stessa natura inferiore ne ha senso e lamenti e ne ha strazio di dubbi angosciosi l'intelletto umano, che senza posa ne domanda inutilmente il perchè al silenzio formidabile dell'Infinito. E non è misterioso il soffrire della donna più cara nell'opera di Alessandro Manzoni?

 
Te dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue e gloria
Il non aver pietà,
 
 
Te collocò la provvida
Sventura fra gli oppressi.
 

Certo il poeta non pensò illuminar le leggi della sventura con quel provvida che par sancire un immeritato dolore, annullare, compensandole fra loro, le sofferenze degl'innocenti. Crudele parola, indice di una legge storica che infligge dolore non giusto secondo il veder nostro, che ha dunque una intima ragione di mistero; crudele parola e in tutto il coro la pia potente, per questo appunto che ci suona tanto amara. Ecco la lunga tratta dei pellegrini polacchi che passano cantando le litanie di Mickiewicz: «Per tutte le ferite, le torture e le lagrime dei prigionieri, dei proscritti, dei pellegrini polacchi, liberaci, Signore!» Se la infelice Polonia ricuperasse un giorno l'indipendenza troverebbe l'arte polacca nella gioia le ispirazioni sublimi ond'ebbe gloria nel dolore? In Italia, signori, si può dubitarne. Quando l'anima italiana diede al dolore nazionale un'espressione artistica trovò accenti immortali; e che trovò invece quando la indipendenza e l'unità della patria furono raggiunte di slancio? Quale fu il grande artista di questa gioia se non Iddio solo che impresse agli eventi impeto e splendore di poema?

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
23 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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