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Kitabı oku: «Il perduto amore», sayfa 3

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– Basta, basta, per carità! – esclamò Daria posando una mano sulla mia bocca. – Mi farete morire di crepacuore!

Quella mano tepida, molle, molle e carezzevole, posava sulla mia bocca. Io sentivo che era tepida e profumata, e che indugiava sulle mie labbra. Ebbi come un principio di vertigine, sollevai la mano fino a toccar quella mano; poi la ritrassi e chiusi gli occhi. E la mano se ne andò, strisciando, carezzandomi il mento, leggiera, lenta, ed io rimasi con il profumo di quella carne sulla bocca.

– Ebbene? – domandò quella voce. – Che cosa volevate dire? Che io sia per lui come un fiore? Come una violaciocca, un piccolo fiore di campo?

Io volevo rispondere: – No, no! Non dovete andare. Non voglio!

Ma ero come assonnato. Udivo, vedevo, comprendevo, ma non potevo nè muovermi, nè parlare.

– Che io vada? – mormorò (ed era nella sua voce qualche cosa di più commovente che il pianto, di più tenero che una carezza, di più dolce che una parola d'amore), – che io vada? Perchè egli dica di me, domani, come ieri: – Quella donna è doppia come un serpente? – oppure: – Ella è venuta ad offrirsi ma io non l'ho voluta?

– No! – esclamai, – Clauss non dirà questo. Io sarò presente. Noi ceneremo insieme sulla veranda, ed egli non potrà insultarvi…

– Ah! tu non lo conosci! – (ella disse così: tu non lo conosci). – Clauss è capace di tutto.

La sua voce era tanto ferma che ne rimasi sconcertato. No, non ero ancora perfettamente lucido. Avevo un folle desiderio di piangere. Pensavo: – Se non viene questa sera forse non la vedrò più, mai più. E mi pareva di perdere un gran bene, una gran gioia, non potendole stare accanto per qualche ora, di notte, alla luce delle candele, sulla veranda, nell'intimità di una piccola tavola imbandita.

– Ma che v'importa di lui? – gridai. – È una grazia che vi chiedo per me, per me solo!

Caddi in ginocchio, le presi le mani, vi posai sopra le labbra e rimasi così, curvo, attonito. E stando così, curvo, sentii un contatto caldo, una calda carezza sui miei capelli, (io tenevo strette le sue mani contro la mia bocca), una carezza assai lunga e calda sui miei capelli.

– Anche tu sei moribondo? – chiese la sua voce, vicinissima.

– Daria, Daria, – mormorai, – non mi disprezzate? Non vi ricordate di ieri? Delle mie parole?

– No, – disse, – non mi ricordo. Non voglio ricordarmi.

– Mi perdonate?

– Sì, – disse, – ti perdono. E soggiunse, dopo una pausa, parlando ancora più sommessa: – Verrò, verrò questa sera…

Allora il mio fervore cadde. Mi sollevai e, senza guardarla in viso, ancora una volta le baciai le mani, e me ne andai.

Uscendo sulla strada soleggiata, provai l'impressione di destarmi da un sogno. I colori, la forma delle case, le persone che stavano affacciate alle finestre e sugli usci o che passavano accanto a me; le loro voci; un pappagallo sul trampolo; l'insegna d'un'osteria, un fanciullo che saltava dinnanzi ad una porta rossa; tutto quel rimescolio di gente, quella varietà di colori, l'intensità della luce, mi stupirono come se avessi lasciato il mondo buio, muto e deserto, e lo ritrovassi ora illuminato, sonoro e popoloso. Da quegli uomini e quelle donne (essi ridevano forte, parlavano, si salutavano, si chiamavano da lontano, si rincorrevano), da quel frastuono di grida, di risa, di canti, di rumori, di musiche (il rotolare saltellante delle carrozze, lo schioccar delle fruste, i carri, lo sbatacchiar degli usci), si comunicò a me un desiderio infantile di correre, di ridere, di cantare, di partecipare, anima e corpo, a quella vita che si manifestava tutta alla superficie, come la spuma di un vino leggiero e inebbriante. Guardai il mio orologio: era ancora molto presto. Camminando celeramente, mi sembrava di esser portato dal vento, tanto mi sentivo felice.

VII

Non so perchè gli angioli che si vedono negli antichi pittori e quelli che si librano sulle loro grandi ali variopinte, le pieghe dei camici piene di vento, sotto le grandi cupole delle chiese, abbiano tutti sembianze femminee, lunghi riccioli bene inanellati, e negli occhi un'amorosa luce. Noi le contempliamo da fanciulli, con vergine maraviglia, quelle incantevoli immagini, e ci insegnano ad adorarle, perchè sono la bellezza, la purità, l'amorosa musica del cielo. La nostra infantile fantasia, dipingendo poi di sogni la terra, scopre nel viso di nostra madre, in quel volto giovine e bello che si curva sopra di noi ogni sera a chiuderci con un bacio le palpebre al sonno, che ci veglia amoroso quando l'incubo ci desta improvvisamente in piena notte e il buio e la solitudine sono come un baratro che ci riempie di spavento, o quando, malati, la febbre suscita sinistri fantasmi da ogni angolo della stanza, la nostra fantasia scopre tratti di somiglianza con quelle soavi immagini di paradiso, lo stesso candore, una grazia uguale, una dolcezza altrettanto soave e serena per cui quel caro volto altro non è che angelico. Così la bellezza, il candore, la pietà, l'amore sono e rimangono per noi definitivamente tanti attributi della femminilità, che fanno di ogni donna, ai nostri occhi, una creatura celeste.

M'ero seduto in un angolo dei giardini pubblici, dove un piccolo specchio d'acqua offriva il suo grembo translucido a un ponticello di ciliegio, nella pia ombra di quattro enormi salici. Quell'angolo era deserto, e soltanto oltre alcune aiuole, dietro bei ventagli di palme, passeggiava la solita gente oziosa. Così, indisturbato, richiamavo alla mia memoria ad una ad una le fugaci impressioni di poco prima, e potevo tenerle ferme sospese dentro di me, analizzarle a lungo con calma, godendone finchè ne ero sazio. Scomponevo in mille parti la figura di Daria, per ricomporla poi tutt'intera in quell'immagine unica che mi era rimasta fissa negli occhi fin dalla sera prima. Ed erano ogni volta meraviglie e palpiti, come se mi fosse apparsa viva soltanto allora da un sogno incerto e intricato.

– Hai veduto come sotto la sua pelle diafana corrono le vene azzurrine? domandavo a me stesso. Che fragilità hanno le sue tempie, i suoi polsi! Come il suo cuore è indifeso! Le mani… le dita affusolate, le palme rosee e concave come i grandi petali del loto… Le muove lentamente quasi le sostenesse e le portasse l'aria: senza peso. Strana, strana cosa! Hai veduto? Chi ti ha detto che i suoi occhi sono neri? Come hai potuto sbagliarti? Sono azzurri e verdi… Ma la pupilla è enorme e le ciglia sono violette. Forse è nero lo sguardo, non gli occhi! E che grazia! Quando inchina la fronte e il suo viso s'adombra, sembra che si nasconda sotto i riccioli pesanti e cupi. Allora ti guarda dal basso, come una colomba innamorata, col capo un poco piegato sulla spalla, e sempre sempre sorride…

Tra due ventagli di palma, vidi d'un tratto veramente un volto ombrato che mi sorrideva, uno strizzar d'occhi e due labbra scarlatte che mi facevano: pss pss… E poi un ventaglio si abbassò e apparve un gran cappello di paglia, e poi un braccio, e poi una gamba sottile e lunga, e poi un gonnellino rosso che si gonfiò in un salto e si posò accanto a me sul sedile.

– Non mi riconosci? – domandò una voce acuta come un allegro campanellino d'argento.

M'inchinai sorridendo, senza parlare.

– Com'eri buffo! – continuò quella voce. – Che ridere ho fatto, che ridere! E non dicevi niente! Nemmeno un fiato! Eri buffo da morire!..

– Capisco! – dissi. – Lei, signorina, deve essersi divertita moltissimo… Ma io…

– Ma tu? Ma tu dovevi ridere più di me, ragazzo mio! – esclamò con tono grave di rimprovero. – Non la conosci dunque? La prima volta è così con tutti…

– Ecco, – dissi: – a lei forse sembrerà facile… Ma per me è diverso. Io sono un uomo.

– Un uomo!

Allargò le braccia sulla spalliera del sedile, stese le gambe, puntò in terra i tacchi alti delle sue scarpette e rovesciando indietro il capo disse con semplicità:

– Dammi pure del tu… Tutti quelli che danno del tu a Daria possano dare del tu anche a me…

La guardai stupefatto. Ella rispose calma a quello sguardo:

– È inutile che tu ti meravigli… Sono Soave… sua sorella.

Strana creatura! Il suo corpo aveva quindici anni: era infantile, ancora magro; magre le gambe che dal ginocchio in giù uscivano dal gonnellino fatto di tutte piccole pieghe; magre le braccia, nude dalla spalla, alla cui estremità pesavano due grosse mani arrossate, che parevano prese in prestito a qualche gran donna e attaccate con un grosso chiodo ai suoi polsi. E il suo viso era invece senza età, e somigliava a quello di Daria come la copia mal riuscita d'un'opera d'arte, esatta in ogni sua parte, sbagliata nel suo insieme. I suoi occhi erano tutto bianco, appena adombrati da rade ciglia, e parevano sempre dilatati in uno stato ipnotico. L'ovale del volto terminava in un mento aguzzo, che cominciava quasi sotto le orecchie, ed era tagliato a metà da una bocca carnosa e sanguigna, inutilmente arrotondata da due piccoli punti di rossetto. Solo i capelli, che in lunghi riccioli le rotolavano sulle spalle, erano gli stessi capelli di Daria, neri e azzurri, e pesanti come il ferro.

– Ah! io capisco tutto! – esclamò dopo un breve silenzio, guardando fissamente i rami del salice che ci piovevano sul capo. – Perchè non dovrei capire? Perchè sembro ancora una bambina? Ma non sono più una bambina… È un pezzo che non lo sono più… I vecchi le capiscono queste cose! Quel signore che venne a trovarci sabato scorso, credo che sia un senatore, un conte, che ha quelle belle basette arricciate (lo avrai incontrato mille volte) ah! ah! mi dette subito ragione. E mica solo con me! Anche a Daria lo disse: – Lascia andare, amica mia… Soave non è più tanto bambina… – Ma voi giovani queste cose non le volete capire. Ebbene io so tutto, come te, e come Daria… Tutto, tutto…

– Ma io, veramente, – dissi impacciato, – io non so niente…

– Povero piccolo! – esclamò la signorina Soave. – E allora io ti posso insegnare… È da ieri che sto con l'orecchio attaccato agli usci! È da ieri che Kate mi racconta tutte le storie che sa, da quando è nata… Ma si ostinano tutti a tirarmi per le trecce e a guardarmi ridendo le sottane corte! Piacerebbe anche a me avere la coda lunga un metro, e le scarpine di raso d'oro, e un bel diadema con un paradiso in testa… E che cosa sono questi cappelloni di paglia con le ciliege che mi fanno portare?

Con un gesto sgraziato si strappò di testa il grande cappello di paglia di Firenze, tutto coronato di ciliege rosse, e lo gualcì, lo pestò con i pugni chiusi, e me lo riaprì sotto il naso. Poi mi si buttò con tutto il suo peso contro la spalla e guardandomi sorridente mi confidò:

– Vuoi sapere come mi piacerebbe un cappellino? Come quello che ho veduto ieri in una vetrina del Corso… Era di paglia blu rossa e nera, lucida lucida tutta arricciata, tutta tutta arricciata la tesa, e poi un nastro di seta scozzese con un gran fiocco da un lato, e la cupola invece liscia e intrecciata, che faceva un disegno di tanti piccoli quadrati neri rossi e blu. E di sotto al fiocco usciva un uccellino piccino ma con una coda lunga e sottile, terminata da piccole pagliuzze d'argento che sembravano goccioline di rugiada. Quella era una bella cuffietta! Coi capelli neri, i colori vivaci mi stanno che è un amore.

– E perchè non dice a Daria che le regali questo cappello?

– Ah! – sospirò. – Se io dovrò aspettare Daria non ne avrò mai di cappelli come quello!

Rimase silenziosa qualche minuto, giocò con i riccioli, poi domandò:

– Quanto immagini che possa costare? Chissà che somma esagerata pensi tu…

Io scossi il capo ed ella soggiunse:

– Venticinque lire…

Mi guardò come aspettando da me qualche gran segno di stupore. Poi disse malinconica:

– A tutti piace Daria. Eppure è molto sciupata… Anche a te piace molto?

– Molto? Non so… – risposi.

Poi domandò ancora:

– Quanti anni hai tu?

– Vent'anni, – risposi.

– E io ne ho quindici, quasi sedici…

Ancora una volta mi guardò, ma quel suo sguardo non mi disse nulla. Mi ero già distratto e già ripensavo che la sera era prossima, e che avrei riveduto Daria fra poco, e forse quel nuovo incontro sarebbe stato decisivo. Forse avrei potuto rimanere solo un istante con lei, forse baciarle la mano, certamente stringergliela fugacemente, nell'ombra discreta o sotto la tovaglia. Ella avrebbe avuto al collo qualche gioiello maraviglioso e la sua gola mi sarebbe sembrata più candida e la sua bocca più rossa. E vidi senza allontanarmi dalla mia cara immagine la piccola irrequieta, la piccola ciarliera, Soave, alzarsi dal mio fianco, la sua testa ricciuta scomparire di nuovo sotto le grandi tese spioventi del cappello, e le sue grosse mani spianare in fretta in fretta le pieghe gualcite della sottana. A un tratto mi si buttò sulla bocca, mi dette un morso, e fuggì via gridando: – Arrivederci quando sarai sveglio!

Ed io non capii allora che era un bacio.

VIII

Prima di andare da Clauss, passai da un mercante e comprai una cravatta, una bella cravatta azzurra con certe macchie d'oro che sembravano stelle in un cielo da presepio. Fra cento e più cravatte, io vidi quella, in fondo a una scatola e la riconobbi. Questo fortunato incontro mi rallegrò, e confortò le mie speranze che, allora, erano in fiore. Poi me ne andai a casa e lo specchio s'ebbe la mia immagine come non l'aveva avuta mai, e vide che le mie mani sapevano, all'occorrenza, fare miracoli. Agghindato, e con un profumino tenue tenue nei capelli, e con quella meravigliosa cravatta, passai l'uscio. Sull'uscio incontrai Sterpoli carico d'involti, con un gran mazzo di fiori in mano, che rincasava.

– Ohè! – gli dissi. – Hai più veduto nessuno? Com'è finita? Bene o male?

– Bene, – rispose; – ogni cosa per la sua strada.

– Ma Daria? Che mi dici di lei?

Egli levò su me uno sguardo sospettoso e brontolò:

– Non scherzare. Non parlar così forte.

Entrò in casa ed io me ne andai.

Poco dopo noi eravamo, tutti e tre, seduti intorno a un piccolo tavolo, sulla veranda, avendo per unico lume la luna. L'aria era così azzurra, trasparente ed immota che ci pareva di essere immersi nella profondità di un lago; di vivere la beata vita dei pesci. Daria portava un abito verde e un nastro pure verde fra i capelli. Dinnanzi a noi fumavano delicate vivande: una moltitudine di gamberetti galleggiava in una salsa verde, fra ciuffi di erbe aromatiche. C'erano, sulla tavola, molti bicchieri, e due anfore di vino chiaro, e molte cose luccicanti. Le mani di Daria si posavano come farfalle, come farfalle, su quelle cose fragili.

– Un po' di vino, – diceva di quando in quando. – Un grano di sale… Una presa di pepe… Un zinzino di pepe, poco, poco…

Seduto di fronte a me, Carlo Clauss la serviva con gesti rapidi, chiedendo ogni momento:

– Così? Ancora? Poco? Basta?

Tre gigli candidi (noi tre!) stavano in un vaso, al centro, tre grandi e candidi gigli, in un vaso, candidi e immobili, d'un'immobilità rara nelle cose della natura. Daria spesso si curvava per odorarli.

– Ecco ciò che basta alla nostra felicità, – diceva Clauss. – Non vi pare? Ah! se sapessimo accontentarci!

– O gioia di vivere! – pensavo io, esaltandomi. Quella cravatta nuova (veramente splendida) mi dava un po' di noia intorno al collo e cercavo di dimenticarla.

– Sì, cara, – continuava Clauss con voce misurata, con sorrisi brevi e volubili, – è così. Dove ci conduce talvolta il nostro insensato desiderio di godere? Eh! eh! Un sorso, un sorso solo, una goccia Daria! No? Non credete che il segreto della felicità sia semplice? Cesare rientra nella propria casa dopo il trionfo, e incontra Calpurnia, o Poppea, (non ricordo bene) sulla porta del triclinio. – Calpurnia, dice, il tuo abito è poco casto per la moglie di Cesare! I suoi occhi cadono sul servo, che la segue agitando i ventagli, e pensa: – Tu sei troppo bello per il marito di Calpurnia. E la sua grande felicità, il suo smisurato orgoglio, annegano in questi due pensieri, in due pensieri tanto volgari. Valeva la pena di soggiogare le Gallie? Soltanto bisognava capire prima che la felicità era nelle belle mani di Calpurnia e non ai confini dell'Impero.

– Sei straordinario! – esclamai. – Bevo alla tua salute e a quella di Cesare!

Daria mi guardava raramente. I nostri ginocchi si sfioravano sotto la tavola. Io guardavo Clauss, pensavo: – T'inganni! Non è venuta per te! E cercavo di cogliere sul volto di Daria un sorriso intelligente, uno di quei sorrisi che sono come fili tesi fra due bocche, fili di ragno, invisibili; un bacio invisibile, un bacio rubato ad occhi che fingono di non voler nulla donare.

– Sono straordinario? – domandò Clauss. – In che cosa, se è lecito?

– Dico che inventi a meraviglia, – risposi. – Questa storiella di Cesare, di Cesare e di Calpurnia, mi sembra nuova. E a voi, Daria?

Sempre in attesa di quel sorriso, volevo che ella si volgesse verso di me. Ma Daria succhiava la coda di un gambero, rosso fra le sue dita bianche, e non si mosse.

– È frutto dell'esperienza, – disse Clauss. – S'impara a inventare. È come dire che sono vecchio.

– Povero Clauss! – mormorò Daria. – È veeecchio!

– Perchè ridete? – domandò Clauss. – Non è poi una cosa tanto ridicola. La vecchiezza ha, per un uomo, il suo lato interessante. E poi, non tutti invecchiano allo stesso modo. Per una donna no; ma per un uomo incomincia una età quasi beata. I desideri possono finalmente conciliarsi con l'impossibilità di soddisfarli; la quale, se non erro, è di tutte le età. E vi sembra una cosa da nulla? Accontentarsi delle gioie possibili? Non scartarne neppure una piccolissima parte? Ah! che scienza difficile!

– Ecco, – continuò dopo un minuto di pausa, rivolto a Daria: – poichè a questo ragazzo piacciono le favole, se permettete, vorrei raccontargliene una brevissima a questo proposito. Non vi annoio? No? Dunque, dimmi: ti sei mai domandato, tu (si rivolse a me, con queste parole), come mai Platone non si sia curato di tramandarci la propria opinione sul sacrificio di Fedone? Se cioè lo stimasse piccolo o grande? In fondo, Fedone era un bello e stupido ragazzo, il quale non possedeva se non quei riccioli biondi che, per onorare Socrate, si tagliò. Quella chioma era senza dubbio tutto il suo orgoglio e la sua massima felicità. Eppure senza esitare un istante si pelò, come un altro si sarebbe ucciso. Ma egli invece continuò a vivere e a mostrarsi in Atene con quella testa pelata. Ebbene: fece malissimo. Io dico che non si sacrificano tanto leggermente riccioli così belli, quando non si ha con che cosa sostituirli.

– Scusate, – mormorò Daria con candore, – chi è Fedone? E non gli sono più ricresciuti i capelli?

Si aspettava un dolce, un pasticcio di frutta. Quelle parole di Daria mi esilararono. Mi agitai, le versai da bere; ma neppure allora mi riuscì di annodare quel filo invisibile, quel sorriso intelligente tra le sue e le mie labbra. Daria parlava poco e non si volgeva quasi mai a guardarmi. Le sue ginocchia, sotto la tavola, rimanevano inerti. – Come mai? – pensavo. – Finge? O si è dimenticata? Spesso la sua mano si posava sulla mano di Clauss, quando gli domandava: – Per favore, un sorso di vino… un pizzico di caviale… una presa di sale… E, intanto, la luna continuava a crescere e ci guardava dall'alto, ed era paffuta e beffarda come la vedono i fanciulli. Il mare, la brezza leggiera e variabile, la notte dolcissima cantavano intorno a noi; un rosignolo solitario intonava nell'ombra i suoi minuetti da bambole, le sue «ute» giapponesi. Fu portato un pasticcio di mele; portarono anche due nuove anfore di vino.

– Pare davvero impossibile che noi siamo insieme a cena! – disse Clauss.

– Perchè? – domandò Daria.

Accostandosi al suo orecchio, Clauss mormorò:

– Volete sapere la verità? Siete una bimba maliziosa!

– Io? – domandò Daria, curvandosi verso di lui.

– E chi dunque?

– Ah! questo Clauss! – esclamò Daria, guardandomi finalmente. – Si burla sempre di me!

Ora io mangiavo in silenzio, a capo chino, trangugiando un boccone dopo l'altro. Che cosa significavano quei sorrisi ambigui e quelle parole confidenziali dette a mezza voce? Quegli sguardi interrogativi e quelle moine da scimmia? Non mi ricordavo bene, ma mi pareva di ricordare di aver letto, non so dove, forse nella Bibbia, alcune parole, una frase, un pensiero sulle donne. Qualcuno aveva scritto o detto: – Quando guardo le donne mi sembrano scimmie bianche. Infatti io guardavo Daria e pensavo: – È vero, sembrano scimmie bianche, scimmie bianche e pelate. E sentivo nascere in me una viva antipatia, un senso sgradevole, qualche cosa che mi ripugnava dentro. Eppure pensavo: – Non è niente. Sembrano scimmie bianche, ma sono donne. Pensavo: – Non sarà niente. Ella finge. È necessario. Guardavo la luna che sembrava un'enorme maschera bernoccoluta e dicevo a me stesso: – Dopo tutto, chi non finge? Bisogna portare una maschera. Per questo fu inventato lo specchio.

– Non ti pare, Clauss, – domandai a un tratto, – non ti pare che si finga molto? Dico, che si portino molte maschere?

– A che proposito?

– Ecco, – soggiunsi, – non so a che proposito. Dico che nella vita si è costretti a fingere. E che, talvolta, non se ne può fare a meno, e allora si porta una maschera.

– È purtroppo vero, – rispose, – si portano molte maschere.

Ed io pensavo: – Che bestia! Non si accorge che mi burlo di lui. Ma Clauss non badava a me, ed io volevo chiedere a Daria: – Ditemi! Non è vero che, dopo tutto, è molto facile fingere? Temevo che ella scoppiasse a ridere e che Clauss si avvedesse dello scherzo. Daria infatti rideva. Rideva e mi guardava. E anche Clauss mi guardava, sorridendo ambiguamente. Alfine mi toccò una mano e mi disse:

– A proposito di maschere: non potresti andare un minuto in salotto a prendere quella mascherina giapponese che è sul tavolo, con quei baffi e quegli occhi terribili?

Mi alzai e andai a prendere la maschera giapponese. Ma quando fui nel salotto mi pentii d'essermi mosso e ritornai correndo sulla veranda.

– Ecco, – disse Clauss a Daria: – tenete questa maschera di babau per ricordo di quell'altro me stesso che abbiamo seppellito stasera.

Clauss parlava con intenzione. Sì: vidi subito che quel sorriso non era naturale, che non era come tutti gli altri; e quelle parole, in apparenza così semplici, quelle parole mentivano. Mi sembrava che Clauss si fosse avvicinato a Daria durante la mia assenza e che i loro gomiti si toccassero continuamente. Le mie mani erano impacciate nei loro gesti come se gli oggetti, sul tavolo, fossero stati mossi, ed io stentassi, ora, a ritrovarli o a schivarli. – Che cosa c'è che non va? – pensavo perplesso, e cercavo di nascondere il mio turbamento portando spesso il bicchiere alle labbra per bere un sorso.

– No, no! – disse piano Daria ad un tratto. – Ci guarda. Non è possibile!

– Che importa? – sussurrò Clauss, e si accostò ancora più a lei.

Essi erano così vicini che i loro capelli si toccavano. Allora, improvvisamente, una gran luce si fece in me e mi alzai di scatto con un grido soffocato. Sotto l'urto delle mie ginocchia la tavola si rovesciò con fracasso immenso di stoviglie e di vetri. Agitai le braccia, inciampai nella tovaglia e caddi anch'io con tutto il resto. Ma mi sollevai subito, e udii che qualcuno rideva vicino a me, molto vicino a me, quasi al mio orecchio. E poi udii il rumore di un bacio, di due baci, molto chiaro. In un angolo, immobili, stretti l'uno contro l'altra, Clauss e Daria mi guardavano. Quantunque la ombra fosse fitta ed io avessi un velo opaco, un velo caldo e opaco dinnanzi agli occhi, vidi i loro volti gota contro gota, e le loro quattro pupille che mi fissavano sfavillando. E vidi anche come le loro mani si cercassero sotto gli abiti, e la donna avesse i capelli sciolti e la gola più nuda, e un che di candido, di molto bianco sul fianco…

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
280 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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