Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 19
Rispondevasi in un suono fioco, quasi spento, come se si dipartisse da cosa senza corpo: «Rammentatevi di vostro padre.»
«Chi sei che conosci il mio segreto?» gridò Rogiero, balzando a sedere sul letto: «Vieni, angiolo, o demonio, sarai il bene accetto; dammi un consiglio, sia pure di perdizione, o di salute; dammi un consiglio; l’anima mia non può consigliare sè stessa.»
Nessuna risposta, nessuno altro rumore. Rogiero si abbandonò sul letto, e la serie dei fatti trascorsi gli si schierò davanti la mente, come una scena terribile: quando sul finire della notte un sopore gli chiuse gli occhi aggravati, i suoi sogni furono quali un Cristiano può avere sul guanciale della vendetta.
La mattina levatosi pallido, disfatto, con gli occhi spaventati, scese per pagare l’albergatore: appena ebbe posto il piede nella stanza, che su la porta di strada comparve un uomo avvolto nel mantello, al quale l’albergatore prestamente indirizzò la parola dicendo: «Che Dio vi dia buon giorno, Maestro Lippo; a quel che me ne pare, voi avete corso tutta la notte; che nuove ci portate d’insù?»
«I Ghibellini si partono dal contado di Parma con le trombe nel sacco, perchè l’esercito del Conte ha preso altra strada: dicono che si avanzi pel Milanese, portato da quel pendente da forca di Napoleone della Torre; ma o di qua, o di là, stanno seminati triboli pel suo cammino.»
«O chi c’è egli che gli contrasti su quel di Milano? non sono Ghibellini in que’ paesi?»
«E’ ce ne ha dei bianchi e dei neri, mio bel Giacomino, perchè tutto ad un modo il mondo non potrebbe andare: pure il Marchese Pelavicino, che è consorte di Manfredi, sta sul contado di Pavia; Buoso da Duera su quel di Cremona, e Mastino della Scala su quel di Verona; sì che pensate se il lasceranno passare senza pedaggio! Tal sia di loro. Che abbiamo, Giacomino, per fare un po’ di colezione da poveri Ghibellini?»
Rogiero, soddisfatto l’albergatore, premuroso di andare, quanto il giorno innanzi di rimanere, pose la sella al cavallo, e si allontanò dalla Mirandola. Seppe per via che i Francesi, invece di fare la strada di Asti a Parma, ch’era la retta, si avanzavano per la parte di Cremona, onde impaziente di affrettarsi prese a cavalcare verso le sponde del Po. Giunto a Luzara, sebbene il sole fosse alto, e la barca pronta per traghettare il fiume, lo sorprese la medesima esitanza che lo aveva fermato alla Mirandola; la immagine del padre erasi indebolita, e quel dubbio d’imprendere cosa abbominevole, e quella parola di traditore, tornavano a scompigliargli l’anima. Nel silenzio della notte, sul letto solitario, cercò invano di trovare cosa che lo acquietasse, e gli pareva di camminare tentoni in luogo tenebroso, pel quale più si avvolgeva, più si smarriva. La mattina quando si risvegliò, si avvide di avere una carta nella mano destra; onde maravigliato del caso si accosta alla finestra, e al barlume del crepuscolo legge: – Rammentatevi di vostro padre.
Questa rimembranza partoriva nel suo spirito un effetto simile a quello di strappare dalla ferita il panno
che il sangue vi abbia sopra attaccato; la passione vinceva su la ragione, e più feroce che mai tornava su l’antico proponimento. Passava il Po, giungeva a Casal Maggiore, a Rovara, nè rallentando la corsa si avvicinava a Cremona. Era presso ad arrivare, il termine della via appariva vicino, e pure avrebbe voluto che si fosse allontanato; ne domandava spesso a cui gli occorreva, e coloro che gli dicevano esser più poco lo spazio a percorrere lasciava insalutati, e nel suo cuore bestemmiava; quelli che gli affermavano rimanere ancora gran tratto, con viso giocondo raccomandava a Dio. Così dubbioso di andare, e di tornare, e tuttavia strascinato oltre dalla fatalità, pervenne un giorno avanti l’ora di vespro tra San Daniele e Cicognolo, borghi non molto discosti da Cremona: assorto nei suoi pensieri, lasciava la cura al cavallo di fare la via; allo improvviso, mentre alza la faccia per considerare le belle case che gli si presentavano traverso le frasche degli alberi, si vede circondato da una masnada di venti e più cavalieri, il condottiero dei quali gli comandava seguirlo.
«Io vo’ che sappiate,» gridò Rogiero traendo la spada, perchè l’asta non poteva giovargli avendo i cavalieri troppo d’appresso, «io vo’ che sappiate, nessuno potermi traviare dal mio cammino senza che adopri la forza, e sangue gli costi.»
«Cavaliere,» rispose il capitano «a Dio non piaccia che noi vi usiamo violenza; il nostro signore Buoso da Duera ci ha mandato incontro a voi, perchè vi scortassimo al luogo dove adesso si trova: piacciavi pertanto seguitarci, che noi non vogliamo far cosa che possa riuscirvi molesta.»
«E come il vostro signore ha avuto notizia dell’esser mio?»
«Questo potrete sapere da lui: non siete voi un Cavaliere napoletano? non avete lettere da consegnargli?»
«Certamente le ho.»
«Dunque venite, chè siete desiderato.»
Rogiero sebbene avesse per que’ tempi una maniera di sentire particolare, nondimeno per la propria sua indole, e per le avventure che gli erano accadute, andava persuaso dovere esistere un destino che regolava tutte le sue operazioni, al quale poteva bene per qualche tempo contrastare, ma che in fine, o a buon grado o a mal grado, bisognava seguire. Convinto di questa opinione, si lasciò condurre senza resistenza da quei cavalieri; i quali cavalcando a bell’agio per non infastidirlo lo menarono a notte avanzata ad un castello, che, per quello si poteva vedere così al buio, sembrava fortissimo. Intorno al castello erano tese assai tende, e da queste usciva grande moltitudine di soldati dirigendosi a un punto determinato; una campanella martellava senza posa per riunirli, e a non molta distanza si udivano chiamare le insegne, assegnare i posti, e dare alcuni avvertimenti. Prevenuti alla porta, una sentinella, che con l’alabarda in ispalla vi passeggiava traverso, fermandosi repentinamente domandò: «Chi viva?»
«Vivano i Ghibellini!» rispose il capitano.
«Appressatevi pel segno.»
Il capitano si avanza, gli sussurra una parola all’orecchio, poi si volge alla masnada dicendo: «Fatevi oltre.»
Trapassando per una volta lunghissima, riuscirono in un antico cortile: qui, sotto i colonnati si vedevano molti Cavalieri sollazzarsi quali a giuocare a tavole, o zara, quali beversi dei grandi bicchieri di vino, e favellare e gestire in atto feroce; là tre o quattro si provavano ad accordarsi per cantare una canzone, ma alle prime parole alcuno tra loro non andava a dovere, ed essi da capo; qua diversi chiudevano gli occhi, e a poco a poco lasciavano cadersi la testa sul petto, – riscossi ad un tratto la rialzavano per lasciarla nuovamente cadere; tali altri, vinti affatto dal sonno, incrocicchiate le braccia su le tavole, nascondevano la faccia sopra di quelle, e russavano in modo che ben di lontano se ne sentiva il fragore; altri altra cosa, chè a dirle tutte verrebbero meno i moccoli; in somma quei volti mezzo illuminati da luce rossastra, quei gesti, quei sembianti minacciosi e diversi, avrebbero fornito materia al Fiammingo di pittura maravigliosa.
Appena il capitano fu veduto da quella gente, che s’intese per tutte le parti uno schiamazzo di voci confuse che dicevano: «Buona sera, – bene arrivato; – avete fatto caccia, Messere? – Lo hai tu preso il tuo uomo? – Piero, raccontateci. – Vieni qua, che ti cedo il posto. – Piero, sareste il quarto, senza voi non si comincia partita. – To’, Piero, bevi un bicchiere di vino, chè ne avrai ben bisogno.»
«Grazie Malatolta, grazie Prendiparte, grazie, grazie, Messeri; or sono da voi,» gridava il condottiero del nostro eroe, distinguendo sul principio ognuno pel suo nome e soprannome, e all’ultimo salutando tutti alla rinfusa, quasi per dare una mentita a quel filosofo che affermò, gli oggetti esterni rappresentarsi da prima nella mente umana indistinti, dipoi separati gradatamente, e comporsi così l’esame analitico che si trova agli antipodi del sintetico, con cento altre coserelle graziose che ci hanno incassato qui dentro il cervello nelle scuole, come gemme in anella.
Il capitano smontato da cavallo si affrettò con Rogiero, che molto gli raccomandava il suo Allah, alla parte del castello opposta a quella d’onde erano entrati, e come colui che voleva presto esser libero, levati gli occhi, osservò le superiori finestre, e vide lume: – «Ora potrà bene andarvi da sè,» profferì mormorando il Cavaliere; e arrivato su la soglia di una porticella aggiunse: «Bel Cavaliere, Messer Buoso, come ho veduto dal chiarore del lume, è per certo nella sua stanza: voi potete liberamente senza me andare a trovarlo; salite questa scala che vi menerà ad una saletta, dove fanno capo tre corridori; mettetevi pel primo a sinistra, in fondo del quale piegando a destra troverete sei scalini; saliteli, e abbiate cura di non cadere, che il Signore vi aiuti; allora vedrete in una sala grande cinque porte, quella di faccia è la porta della stanza di Messer Buoso; – buona notte.» Appena terminato il discorso, che proferì con portentosa celerità, si allontanò per unirsi ai compagni, che lo accolsero con urli, risa ed altri segni d’intemperante allegrezza.
Rogiero si pone per quella scaletta: ella era formata di mattoni per taglio; il tempo ne aveva logorati gli angoli e la calcina, sì che in quei buchi entrasse più che mezzo il piede; mille volte a pericolo di battervi la faccia sopra, tentoni, aiutandosi più con le mani che co’ piedi, pervenne alla stanza dei tre corridori schiarita da un lumicino che pareva spento, come disse con bella vivacità quel Fiorentino bizzarro. Qui giunto, un improvviso tremore lo sopraggiunse, provò di andare innanzi, non poteva; indietro, nè pure; appoggiò al muro la spalla e la testa, quasi fosse convertito in pietra. Nuove dubbiezze, nuove esitanze, – ancora un passo, e tutto irreparabilmente perduto; – la sua intenzione è buona, ma si appoggia sopra opere parte vili, parte infami, tutte scellerate; se non giunge a compirla, chi vorrà credergli che il suo disegno fosse generoso? – nè sempre saranno tenebre come in quel luogo, – nè il tradimento andrà sempre celato. Mentre a queste cose pensando costà si tratteneva, ecco una mano leggermente premergli la testa, e una voce sommessa dirgli all’orecchio: «Rammentatevi di vostro padre.»
«Santa Maria!» esclamò Rogiero; e volgendosi con molta celerità vide, o gli parve vedere, uno spettro che nel corridore opposto a quello in cui stava si allontanasse strisciando sul pavimento. Preso da agonia di conoscere chi fosse, gli si cacciò dietro a tutta corsa; trapassò quel corridore, poi un altro, lo spettro gli fuggiva a poca distanza davanti, e pure non intendeva suono di passi. Quantunque queste circostanze fossero più che bastanti per un’anima di quei tempi, e forse anche dei nostri, a credere soprannaturale cotesta apparizione, Rogiero non si lasciava sbigottire dalla paura; vero è bene che non sapeva come spiegarla, tuttavia si guardava di attribuirla a cause superiori. Lo spettro fuggendo, e Rogiero incalzando, pervennero in parte ove non era lume; così al primo fu concesso sparire a tutto agio: Rogiero brancolando, mentre a malgrado delle tenebre vuole seguitarlo, inciampa e cade traverso di un letto; allora non udendo nè vedendo più nulla, si avvisa ritornare; parendogli di fare il medesimo cammino traversa due o tre stanze, nell’ultima delle quali osserva scaturire un raggio di luce dalle fessure di un uscio; vi s’incammina prestamente, stimando che si partisse dal lume del capo scala; giunge, apre, e si trova entro una sala vastissima; una piccola parte compariva illuminata; l’altra si smarriva dentro profonda oscurità: per quello che si poteva vedere era ornata di belle tappezzerie fiamminghe rappresentanti caccie o fatti d’arme notissimi dei Paladini di Carlo Magno, e dei Cavalieri erranti del Re Artù; a giuste distanze pareva, che, come da un lato, dovessero essere per tutta la sala disposte antiche armature su dell’aste fitte dentro zoccoli di pietra; le finestre trasparenti pei lumi del cortile presentavano istorie tolte dal Testamento Nuovo, figurate con vetri di mille colori. Queste cose che a noi abbisognò una mezza pagina per dire, Rogiero osservava in un volgere di sguardo, nè punto stette a considerarle, perchè a quei tempi erano comuni. La sua attenzione pertanto più particolarmente si fissò su due personaggi che stavano in quella sala. Uno di questi, di vesti e di sembiante non italiano, era un Corriere francese; vestiva giubboncello giallo, fino poco più sopra al ginocchio, stretto alla vita con larga striscia di cuoio nero, dalla quale pendeva il corno, e scaturiva l’impugnatura del pugnale; i calzoni erano della medesima stoffa che la veste, e come essa accostanti alle membra; calzava usatti rossi con certi sproni da sventrare, più tosto che da incitare cavalli; teneva la testa scoperta, i capelli della quale divisi su la fronte cadevano di qua e di là dalle tempie sopra gli orecchi, e a poco a poco diventavano più lunghi, tanto che quelli della nuca coprissero parte delle spalle; la faccia non diceva nulla, – era parete imbiancata. Ben altro compariva il secondo: stava seduto davanti una tavola sopra la quale erano carte, e una spada; teneva la testa appoggiata alla mano, e considerava meditando una lettera che pareva essergli giunta di fresco; il capo aveva calvo con la pelle tirata, se non che su la fronte due o tre rughe profondamente tracciate; la faccia, larga su le gote, dove sono gli ossi che i notomisti chiamano zigomi, terminava smunta, appuntata, con la barba scomposta, ch’era sconcezza a vedersi; pel rimanente della persona, meno le manopole, compariva armato: questi, poichè lunga ora ebbe letto e meditato il foglio, esclamò: «Ottomila fiorini d’oro! – vendo anche l’anima.»
Dopo questa infame empietà levò la faccia e gli occhi. – Quali occhi! incavernati, scintillanti, come quelli della volpe che ha ghermita la preda; – e vide Rogiero.
«Chi siete? Chi vi ha condotto? Come avete penetrato nella mia camera?»
«Messere, io sono stato qui tratto per ordine di un tale Buoso da Duera.»
«Per ordine mio dunque: – ma perchè non siete passato per la porta principale, e scaturite così all’improvviso da camera segreta?»
«Che volete ch’io sappia di tutto questo, Messere? mi hanno lasciato senza scorta, ed io in questo luogo nuovo mi trovo qui, perchè non mi trovo altrove.»
«Qualcuno ha trasgredito i miei ordini. – Sareste per avventura quel Cavaliere napolitano…?»
«Sono; – la vostra gente mi ha fermato sul cammino, costringendomi…»
«Bisognava pure ch’io vi forzassi, viva Dio! perchè voi avete lettere per me, che probabilmente non mi avreste recate giammai.»
«E chi vi ha detto. Messere?…»
«Chi lo ha detto poteva ben dirlo senza tema di mentire. – Chiamavasi Piero il capitano che vi ha condotto?»
«Sì, Piero.»
«Ed è rimasto?…»
«S’io non m’inganno, giù nel cortile a giuocare, e a bere co’ compagni.»
«Deve esser punito; per le grandi colpe serve il libro della mente, per le piccole bisogna prenderne nota, onde non obliarle; – una vendetta perduta è un invito allo oltraggio.» E qui Buoso trasse di seno alcune tavolette, sopra una delle quali scrisse: – Capitano Piero mi deve la pena di aver rotto il mio comandamento; – e riponendole soggiunse: «Avanti che il mese finisca, in modo aperto o segreto la pagherà. – Messere Cavaliere, vorrestemi porgere le lettere che avete per me?»
«Eccole.»
«Cavaliere,» disse Buoso, poichè l’ebbe lette, «io sento per queste come gran numero di Baroni napolitani, infastiditi della tirannide di Manfredi, vi hanno spedito con loro credenziali per profferire omaggio al Conte di Provenza; già a Dio non piaccia che per me sia posto impedimento ai giusti desiderii di quei valenti signori; domani potrete seguire il vostro cammino verso l’esercito francese, che troverete non lungi di qua attendato alla campagna. Devo avvertirvi però che il Conte non accompagna l’esercito, ma troverete in sua vece la Contessa Beatrice, o il Luogotenente Guido da Monforte.»
«Vi chiedo perdono, Messer Buoso, ma in cortesia vorreste rispondere ad una mia domanda?»
«Dite.»
«Non siete voi Ghibellino?»
«Che vuol dire Guelfo, che Ghibellino? Io sono per me; del nome non mi curo più che del colore della veste; in qualunque sembiante procaccio mia ventura»
«Ma voi fin qui non combatteste per la fazione ghibellina, Messere?»
«Io vi ripeto che ho combattuto sempre per me: vero è però che l’anno scorso sovvenni del mio aiuto il Conte Giordano, che giunse per Manfredi qua in Lombardia con cinquecento lance; quello che n’ebbi in guiderdone furono parole; ora cortesi, ora anche minacciose: ad ogni uomo è lecito errare una volta in sua vita, e felice chi può vantarsi di avere errato una volta sola; ora mi sento stanco di pascermi di promesse, – e poi l’età comincia a farsi troppa, e bisogna pure pensare alla buona morte; nè se altri si cura, mi curo ben io del perdono della Santa Chiesa, che troppo mi preme trovarmi sciolto dalla scomunica, perchè possano, quando che a Dio piaccia di chiamarmi a sè, seppellirmi in sacrato.»
«Messere, di grazia, se la richiesta non vi riesce importuna, il cuore non vi dice nulla?»
«Da qual parte abbiamo posto il cuore? Io per me l’ho dimenticato. La testa fa tutto, calcola tutto; il cuore c’è per di più: vuolsi freddezza di calcolo per ben condurci nel mondo; col cuore si fanno canzoni da innamorati, non ottimi disegni per trapassare la vita.»
«Ma Italia?»
«Italia è qui,» rispose Buoso toccandosi la fronte: «ho udito raccontare di tempi nei quali era altrove, ma io non li vidi, nè credo, che sieno stati; nondimeno, se possono essere, mentre si aspettano, ogni uomo si ponga la mano alla fronte, e dica: Italia è qui.»
«La fama?».
«Oh la fama! è l’ombra del buon successo: procura mantenerti felice, e gli uomini procureranno di chiamarti glorioso.»
«Pure fin qui non ho trovato lingua mortale che non condanni il tradimento.»
«Da cui, e come? Tradimento, s’io non m’inganno, significa romper fede; ora non vi ha fede che sia nè più forte nè più ragionevole di quella che ogni uomo deve a sè, perchè di questa la Natura ne ha stretto il contratto con tali condizioni, che non possono infrangersi; però quando ti fai danno, allora commetti tradimento, e tradimento irreparabile. Io non ho mai operato cosa dannosa
altrui, che, bevendoci o dormendoci sopra, non abbia affatto dimenticata: d’altronde il dolore che abbiamo apportato al nostro simile ci rimane nell’anima come ricordanza, ma il bene che abbiamo fatto a noi persevera come sentimento.»
«E questo sentimento è egli in sostanza felice?»
«Signor Cavaliere, io ho altre cose a fare perchè possa trattenermi a sciogliere i vostri quesiti; se voi gli avete promossi per conoscermi, io già vi ho detto assai, onde se siete savio mi possiate capire; se per acquietare le vostre incertezze, io devo biasimare i miei amici di Napoli, che hanno scelto in voi un messaggero così scrupoloso. Tenetevi pronto per domani; appena fa giorno, io vi manderò insieme con questo Corriere francese al campo del Conte per consegnare le vostre lettere, e, se non vi grava, anche una mia che preparerò avanti di andare a dormire.»
«Voi ne siete il padrone.»
«Sergio! Gilberto!» chiamò Buoso, e tosto comparvero due valletti, ai quali ordinava: «Fate che questi miei ospiti sieno bene alloggiati; vi raccomando che nulla manchi loro di quello che possono desiderare. Addio, messer Cavaliere; innanzi di partire spero di rivedervi.»
Rogiero e il Corriere francese si posero dietro agli officiosi valletti, che con molte candele alla mano andavano rischiarando il cammino: appena usciti dalla sala, la voce di Buoso si fece nuovamente sentire, che chiamava gridando: «Messer Cavaliere!»
Rogiero rifece i passi, e domandò: «Che volete?»
«Messer Cavaliere, avete pratica co’ fiorini d’oro?»
Rogiero si fece un po’ rosso nel viso, e rispose che no.
Buoso sorrise, e traendo una borsa disse: «Questa parmi troppo grande vergogna per Cavaliere come voi! Voi non conoscete i fiorini che sono la più bella moneta che si batta per tutta Cristianità? Havvi taluno che preferisce gli agostari di Federigo, e gli schifati dei Normanni, ma io per me terrò sempre pel buon fiorino d’oro che si batte a Fiorenza. Ecco qua, vedete,» soggiunse prendendone uno, e mostrandolo a Rogiero, «da un lato il giglio, dall’altro il Battista, donde l’infallibile proverbio: – amici son coloro – che hanno il Santo a sedere, e il giglio d’oro. Ora fanno dodici anni cominciarono a coniarsi dai mercanti fiorentini: l’oro arriva alla bontà di ventiquattro carati; si contano a venti soldi l’uno, ed otto pesano un’oncia. – Vorrestemi usare cortesia, bel Cavaliere?»
«Parlate.»
«Dimani vedrete nel campo di Carlo affidarne certa quantità ad un Corriere affinchè me li porti; egli è un dono che vuol farmi la Virtuosa Contessa Beatrice, e ch’io non mi trovo in caso di rifiutare: ora vi pregherei ad aver cura di riscontrare che formino bene ottomila; se crescono, lasciate stare; se non arrivano alla somma, avvertite la Contessa del difetto. Mi promettete di farlo?»
«Ve lo prometto.»
«Gran mercè, Cavaliere.»
– Ecco un’anima da appaiarsi con Gano di Maganza, – pensò Rogiero tra sè, – ed io? – il sonno non iscese per quella notte su le sue stanche palpebre.
* * *
«Che Dio vi conceda il buon giorno, bel cugino,» disse la Contessa Beatrice, che, nell’uscire da una camera ov’era stata a riposare, s’incontrò nel Conte Guido di Monforte. Ella veniva frettolosa, e le vesti aveva scomposte più che a nobile dama non convenisse; le sue donzelle le si traevano dietro correndo, e andavano aggiustandole alla sfuggita chi il velo, chi la cintura, o che altro.
«Dama, che possiate esser lieta di tutto quello che desiderate; qual cosa vi affanna, onde tanto smaniosa vi levate di letto?»
«Cugino, arrivò il Corriere?»
«Dama, non si è ancora veduto.»
«Ci avesse tradito il Duera? Trovasse piccolo il premio? Cugino, spedite gente per conoscere ciò che n›è stato; fate offrire doppio premio a quel tristo, purchè passiamo. Il Pelavicino non può tardare di caricarci alle spalle; se questo avvenisse, noi saremmo perduti. Affrettatevi, bel cugino, affrettatevi.»
«Dama, aspettiamo.»
«Ah! Guido. Guido, questa vostra lentezza ci perderà: che temete?»
«Che temo io? Così non mi avesse detto Carlo, – conducimi ad ogni costo questo esercito intero, – e non mi avesse posto da lato le paure femminili, come io avrei di già fugato il Duera, e valicato l›Oglio; perchè i miei anni si sono consumati a rompere i nemici col ferro, ma non ho mai appreso a cacciarli coll›oro: nondimeno, poichè piacque a Monsignor Carlo mettermi per questa via piena di pericoli, e vuota di onore, io devo aver cura del suo danaro, perchè raddoppiando il prezzo di Buoso non ci basterebbe a pagare la milizia fino a Roma.»
La Contessa si apprestava a rispondergli, e chi sa dove sarebbero andate a finire le parole, se un donzello non fosse entrato in quel punto annunziando, che il Corriere conducendo seco un altro uomo si scorgeva cavalcare verso la casa.
«Oh Signore, gran mercè!» esclamò la Contessa, e corse alla finestra; «sì certo, egli è desso… venite a vedere, cugino… ma che hanno il restio, che vengono sì tardi quei loro ronzini? Conte, e› pare che abbiate partecipato la vostra pigrizia anche alle bestie dell›armata: Conte, ponete cura di dare un›altra volta ai Corrieri i migliori cavalli dell›esercito… ditemi, Conte, in quanti giorni potremo giungere a Roma?»
«Contessa, ricevete con maggiore temperanza la lieta fortuna, se volete con minore cordoglio sentire l›avversa. Voi non sapete che cosa rechi il Corriere.»
«Oh! il cuore mi predice bene, ed egli non mi ha ingannato giammai. Ecco quel vostro insopportabile riso di scherno. Che volete? cugino, – io sono fatta così; ricevere la lieta novella col viso stesso col quale si riceve la trista mi riesce impossibile. Che potrete dire di me? La Contessa ride se la ventura le cammina prosperevole, piange se contraria; ma voi fate altramente nel vostro cuore? E per un po› di copertura, per un po› di sforzo menate tanto vampo; eh via! lasciate che sgorghino le lacrime quando vogliono sgorgare, e ridete quando vi prende desiderio di ridere. Forse per dolermi delle avversità mi perdo di animo vilmente, e, per quanto mi ha concesso il cielo di senno e di forza, non mi adopero io a superarle?»
«Contessa, questi che accompagna il nostro uomo è Cavaliere; non sarebbe bene che voi andaste ad acconciare più convenientemente il vostro abbigliamento?»
«Conte di Monforte, noi vi preghiamo che non vogliate darvi maggior cura di nostra persona di quella che ci diamo noi;» disse in atto disdegnoso la Contessa Beatrice; e poi guardandosi attorno, e scorgendosi abbigliata da vero meno che onestamente, arrossì, sorrise, ed aggiunse: «Bel cugino, io vedo che quando avrete perduto quella vostra ruvidezza da soldato, diverrete discreto maggiordomo della più ritrosa dama dai trenta anni passati.» Poi la stessa ambizione, che così scomposta l’aveva condotta in quella stanza, la fece uscire a comporsi, perchè la rabbia di comparire ornate, se in pochissime donne non è la prima passione, viene però immediatamente seconda.
Quando la Contessa ricomparve nella sala, il Corriere e Rogiero vi si affacciavano per altra parte. Il Corriere pose ginocchio a terra dicendo che la risposta l’aveva il compagno: la Contessa lo rilevò graziosamente, e con la solita promessa, che si sarebbe rammentata di lui, gli dette licenza. Allora Rogiero fatto un lieve saluto alla Dama, le presentò le lettere, la quale, come colei che non sapeva di leggere, le porse con bel contegno al Monforte, dicendogli con voce sommessa: «Spacciatevi, Conte, che molto mi preme sapere che cosa elle rechino.»
Il Monforte si pose a leggere, ma non era anche arrivato alla metà, che due o tre volte lo aveva interrotto la Contessa domandandolo: «O che dice?… o che porta?»
«Ma, Dama,» parlò impazientito il Monforte, «se voi non mi lasciate leggere, non ve lo dirò di qui a mille anni.» Ed egli poi non era gran maestro in letteratura, e sapeva leggere a mala pena pe’ suoi bisogni, onde sovente mormorava tra’ denti: «Anche nello scritto si palesa tristo costui: fosse qui il cappellano che tanto vale a leggere di questi scorbii…» Alla fine, come Dio volle, la lesse, e senza aspettare di esserne ricercato disse pianamente alla Contessa: «Il traditore accetta il trattato, sebbene, scrive, per essersi preso cura di mandarvi un Cavaliere napolitano che vi recherà cosa più grata del passo dell’Oglio, voi potreste aumentargli la somma. Vi raccomanda poi, che arrivata a Roma, vogliate per vostra intercessione pacificarlo con la Chiesa, e renderlo partecipe delle sante indulgenze promesse a chiunque prenda la croce contro Manfredi.»
«Intorno la prima richiesta rispondete, Conte, che volentieri vorremmo potergli in migliore modo manifestare l’animo nostro, ma che le presenti strettezze non cel permettono; aggiungete, grande estimare noi lo ufficio che ci rende, e la Casa di Francia porre ogni sua gloria in dimostrarsi grata: per la seconda assicuratelo, che sarà nostro pensiero adoperarci presso Papa Clemente, affinchè lo ribenedica, e lo abbia in luogo di figlio; stia pur quieto di questo, che noi ne avremo cura come di un nostro fratello.»
«Ah! Contessa, mi pare tanto bella l’unione di Buoso col Demonio, che sarebbe gran peccato sturbarla.»
Dopo queste parole, la Contessa volgendo la faccia a Rogiero, con donnesca leggiadria gli disse: «Bel Cavaliere, noi intendiamo per queste lettere, che voi ci siete apportatore di liete novelle; se possiate conservare sempre l’amore di vostra dama, vorreste voi favorircele?»
«Madama, quali esse sieno potrete sapere da queste carte.»
Il Monforte, a cui furono trasmesse, cominciò a leggere con quella sua naturale freddezza, ma in proporzione che procedeva si affrettava agitando il capo a destra e a sinistra, brontolando indistintamente le parole: quando fu giunto al termine, lasciò la carta, e sollevando gli occhi e le mani al cielo disse con un sospiro: «Sire Dio, noi avremo Italia senza colpo ferire! Io la reputava terra di gloria…»
Così grande fu la vergogna di Rogiero a questa esclamazione, che sentendosi duramente stringere il cervello si appoggiò alla parete per non istramazzare per terra.
«Che mormorate, Conte?»
«Questa è terra di cui se la piglia.»
«Perchè, Conte?»
«Perchè i traditori ci allignano più dei fedeli, e i maggiori Baroni di Manfredi ci chiamano liberatori al solito, perchè andiamo a liberarli del loro tiranno al solito, che così si chiama colui che vuolsi tradire.»
«Ah! cugino, tanta è l’allegrezza che mi avete recato, che per poco non sono venuta meno. Avrò finalmente corona! anche io sarò salutata Regina! non più distinta dalle superbe sorelle con un segno di obbrobrio!… potrò anch’io levare baldanzosa la faccia!… anche io!… Conte Monforte, mi sembrate dei miei nemici, che vi addolorate delle mie gioie!»
«Madama, il vostro disegno era di conseguire corona, l’avrete; ne siete lieta, sta bene: il mio era condurre a buon fine qualche impresa gloriosa, ed onoratamente morire; prevedo ormai che è un errore sperarlo in questa contrada, però mi dolgo.»
«Generoso cordoglio, e ben degno di voi, valoroso Barone;» disse la Contessa stringendo la mano al Monforte «ma godetene per cagione mia, perchè voi non dovete affliggervi di cosa che mi piaccia.»
«Ah! mia bella cugina, s’io volessi nella presente vostra dolcezza stillare un amaro, che non potreste dimenticare, vi direi, il traditore per tradimento che faccia non muta cuore; egli sta come una fiera nella caverna ad aspettare la preda: la signoria di Carlo increscerà come quella di Manfredi increbbe, e allora…»
«Queste vostre osservazioni hanno che fare qui come il parlare di morte a mensa, come il vestire di bruno a nozze. È tanto rara la gioia, è tanto soave, che non merita punto di essere intorbidata con le vostre malinconie. Sarà assai amaro pensare al disastro quando verrà; per ora stiamo lieti, Conte; provvederemo allora. Voi intanto, Cavaliere, sappiate che nessuna novella più grata di questa potevate portare alla Contessa Beatrice; da qui innanzi sarete con noi; spero che vorrete bene spesso allegrarmi della vostra presenza. Intanto, non già perchè io la creda ricompensa, ma per segno di gratitudine, porterete questa collana per mio amore.» E qui levatasi una ricca catenella, con le sue proprie mani la pose al collo di Rogiero, che a sentirne il suono sopra l’armatura abbrividì e mormorò: «Ecco, il delitto è consumato, il premio del tradimento fu ricevuto; l’anima mi è stata improntata con l’infamia, l’intera eternità non varrebbe a cancellarla.»