Kitabı oku: «La battaglia di Benvenuto», sayfa 22
intera; in somma era uno schifoso spettacolo dell’umana cupidigia: molti considerando che i loro sforzi sarebbero tornati vani per acquistare i danari già sparsi, si affollavano al Cavaliere del fulmine, che gittò la seconda coppa, e la terza, e la quarta, tanto che giunse a distrigarsi a salvamento fuori di quella ciurmaglia.
L’onorato Lebrun, che quantunque il giorno innanzi offeso dal Monforte, aborriva ogni vendetta, che non fosse generosa, fu che salvò la vita al male arrivato Conte. Carlo, più volte a grande istanza da lui supplicato, ordinò che sollevasse la lancia, cosa che il Contestabile fece molto volentieri; e quindi affannoso andò co’ sergenti a soccorrere il Monforte, che privo di sentimento trovarono steso per terra, e con modi soavi trasportarono alla sua abitazione.
I Cavalieri primo venuto, e del fulmine, comecchè cavalcassero a gran fretta, furono ben tosto raggiunti dai loro sei compagni, i quali, rimasti prigioni a prima giunta, non trovarono per l’esito della battaglia impedimento all’andare. Così riuniti, senza profferire parola, s’internarono nel più profondo di una vicina foresta; avevano forse mille passi percorso, allorquando si abbatterono in circa dugento uomini di arme, che da lontano con le daghe e con le partigiane gli salutarono. Il Cavaliere del fulmine venuto loro dappresso si calò la visiera, e disse: – «Compagni, abbiamo vinto.»
CAPITOLO DECIMOSETTIMO. IL RIMORSO
Perchè nessuna notte ha seguitato il giorno,
nè nessun giorno la notte, che tra il vagito
dei nascenti non siasi inteso il pianto della
morte, e dei funerali.
Lucrezio, 2.
«Siete voi, Messer Ghino! Già il cuore me lo aveva rivelato;» – esclamava il Cavaliere primo venuto abbassando la visiera a sua posta, onde Ghino aperte le braccia gli correva incontro gridando: «Voi qui, Principe Rogiero!» E si abbracciavano scambievolmente, e amorosamente si baciavano in bocca.
«Come mai, Cavaliere,» riprendeva Ghino «di amico ch’eravate di Francia, le siete diventato, e così tosto, nemico?»
«E’ dovete sapere, messer Ghino, che allorquando io portai le lettere di Napoli alla Contessa Beatrice su le rive dell’Oglio, Monforte tutto cruccioso si volse al cielo esclamando: – Sire Dio, noi avremo Italia senza colpo ferire… adesso ha imparato che mal per lui se gl’Italiani ferissero!…»
«Vedi petulanza! e non aveva anche vinto: pensate un po’ quale orgoglio avranno costoro quando domineranno su Napoli… Oh! se i patriotti nostri!… Ma or via, venite, Cavaliere, che dovete essere stanco e ferito, ed io non ho mai temuto quanto oggi di trafelare nell’arme; – con l’aiuto di Domineddio abbiamo fatto assai prove per oggi.»
Così s’incamminarono verso una casetta riposta in luogo assai remoto nella foresta, dove Ghino accolse ospite per la seconda volta Rogiero.
Ora poichè pel riposo, e per le cure di alquanti giorni ebbe Rogiero rimarginate alla meglio le ricevute ferite, avvenne che certa volta, essendo lontano Ghino pe’ bisogni della masnada, si mettesse soletto per la foresta; teneva le braccia incrociate sul petto, il capo chino a terra, – camminava or lento, ora ratto, spensieratamente. La rimembranza delle passate avventure gli assaliva l’anima come un senso di mestizia, poi come irritazione dolorosa, alla fine come eccesso di rabbia; allora tu lo avresti veduto correre, cacciarsi le mani pe’ capelli, disfatto nel sembiante, stralunato negli occhi, urlando e bestemmiando, come creatura travagliata dagli assalti del Demonio. Tutto sudante si appoggiava al tronco di un albero, o tra l’ansare dell’affanno sofferto ad alta voce diceva: «Qual è che nega il destino? Venga chi il nega a contemplare la sentenza feroce che mi condanna alla infamia; e se il cuore gli basta, affermi che non sia destino. – Ecco, non vedo lato dal quale mi volga, che non sia un delitto: – delitto, se sto neghittoso, – delitto, se opero. Il sangue di mio padre grida dalla fossa… chiudiamo il cuore e le orecchie… egli starà come un’accusa contro di me davanti al trono del Signore, – come, una vergogna alla faccia degli uomini… Sia vendicato; – come? – Chiama il Re Manfredi a duello… stolto! quelli stessi che sentono giù nel profondo la tua giustizia, ti getteranno addosso l’onta della follía; – sarai trucidato senza frutto,… lascerai ai tuoi discendenti nuovo misfatto da vendicare. – Chiama lo straniero, l’anima di tuo padre sarà vendicata… la tua patria oppressa! – Feriscilo da tergo… questo sarebbe il meglio… ma non si sa perchè gli uomini lo hanno chiarito infame. Ahimè! vedo il disprezzo della gente a mo’ di forma mostruosa che si apparecchia a lacerare la mia rinomanza; vedo schierate dinanzi al pensiero le colpe presenti, i falli futuri, ma i miei tra tanta moltitudine appaiono distinti di proprio colore; – vedo il mio nome, non altrimenti che una piastra di metallo ingrappata nella memoria dei posteri si fosse, farsi più splendido sotto i miei sforzi di consumarlo, e richiamare l’attenzione dei secoli. Sommo dolore egli è questo; – ma fine dei dolori, – la morte. Se la vita è un presente, vi renunzio; l’avrei renunziata, se la mia ragione avesse potuto conoscere la vita, e se l’avessero interrogata; – s’ella è una pena, perchè punirmi? perchè sarò doppiamente punito per non sopportare la pena? Questa non si chiama giustizia… Giustizia! osa profferire sì fatta parola al cospetto del potente: – dov’egli abbia sortito dal cielo compassionevole indole, farà per lo meno guardare dal medico se hai sano il cervello. – E poi io difesi la vita dalla fame, dalla sete, dal freddo, da tutti gli stenti, che a corpo mortale è dato sopportare; ma dall’obbrobrio non ho saputo, – non ho potuto: se lasciarla fu colpa, tenerla era vituperio; tra il vituperio e la colpa, io ho scelto l’ultima: se doveva scegliere il primo, perchè non additarmelo? perchè darmi tanta paura del disonore? perchè compartire ai miei simili una smaniosa volontà di perseguitare l’avvilito? perchè sarebbe peccato? Sia un corpo di forma quadrata, o rotonda. – servirà meno agli ufficii della natura? Degli enti non si perde nulla, la materia torna alla materia… – Lo spirito?… Non è assai prova superare la rabbia del vivere instillataci nel sangue? non assai pena la ineffabile angoscia di scompigliar l’ordine della nostra esistenza attuale? Se è concesso uccidere un altro uomo che ti vuole apportare affanno, perchè non potrai uccidere te stesso per fuggirlo? Che cosa ha questa vita che meriti di essere conservata? Il mondo offre due sole strade ai viventi: – o scellerato, – o vittima; per essere il primo l’anima mia è troppo piccola, onde sprezzare la fama e chi la dona; per la seconda, è troppo grande, onde sopportare come lo infingardo sopporta. Finora ogni minuto fu un gemito, – ogni giorno un dolore, – adesso ogni anno sta per diventare un delitto.»
E così avrebbe certamente, con lo ingegno che aveva sortito prontissimo, divisato tutte le sentenze, che l’Abbate di San Cirano, Robeck, Rousseau, Goethe, Ugo Foscolo, ed altri infiniti, hanno mosso in favore del suicidio, e forse avrebbe anch’egli concluso col darsi la morte, – argomento che non ammette ragione in contrario, – dove una voce sonora non gli avesse percosso le orecchie, gridando: «Rammentatevi di vostro padre.» Rogiero trasalì, si guardò spaventato d’attorno, percorse i luoghi circostanti; – non traccia, non vestigio di umana creatura. Ora sì ch’egli stette da vero per divenirne folle, e se i precedenti discorsi furono in parte scevri di sapienza, in parte empii, come dettava la sua feroce passione, pensisi quali divenissero dopo la esposta avventura.
«Chi è che nega il destino? Eccomi immerso nel delirio di amor disperato, ricinto dai lacci della colpa, nè posso liberarmi; gemo sotto il peso di catena, che non ho balía di spezzare; i miei polsi grondano sangue, ed è invano il dibattermi; acquietati, aspetta il compimento dei tuoi destini, e divorati il cuore. Ecco l’abisso del pianto, del rimorso, dell’ira; mi appiglierei al ferro tagliente per non precipitarvi, la forza mi vi strascina. Donde nasce questa forza maledetta? dall’Inferno, o dal Cielo? Nol so, nol vo’ sapere; la forza vive e regna, ed io sono condannato a precipitare. Oh! se mi fosse concesso domandare ragione! se il potere di muovermi con gli elementi!…»
E qui Rogiero divenuto del tutto privo di senno pronunziò tali voci, che Dio nella sua bontà avrà certamente rimesso a quell’anima, ma che furono le più scellerate, che mai avesse ascoltato da bocca mortale: maledì il giorno che nacque, l’acqua del battesimo, il fiato della vita, i sacramenti, il latte della madre, la generazione del padre: trasportato dall’impeto correva per la foresta, come uomo percosso da quello spaventevole morbo che chiamano licantropia, e d’ora in ora digrignava tra i denti: «tiranno… tormentatore delle anime… possa morire la natura!…» ed altre assai che sarà meglio tacere. Seguendo la sua corsa, cieco della mente e degli occhi, ode allo improvviso gridarsi davanti: «Fermati, uomo, se non ami andare innanzi il tuo tempo entro il sepolcro.»
Rogiero allora, costretto a riunire lo spirito ai sensi, si vide forse un palmo distante da una fossa: in linea retta ne erano molte altre scavate nel medesimo campo, e aperte, quasi perchè fossero più pronte a divorare la schiatta destinata a morire. Le parole si erano dipartite da un vecchio Frate che pareva non avesse aperto labbro, tanta era l’attenzione che poneva a scavare la sua celletta di morte. So bene che l’arte di Lavater per conoscere dall’esterne qualità del volto i reconditi pensieri dell’animo procede incertissima; pure così siamo fatti, che ci fermiamo a considerare il vaso prima di bere il liquore che vi si contiene: consideriamo pertanto come meglio si può le umane sembianze, non perchè insegnino scienza, ma perchè ammaestrano a dubitare, – e il dubbio forma tutto ciò che alla polvere si concede sapere. Giungeva quel Frate con gli anni oltre i novanta; la sua persona pareva essere stata una volta maestosa e diritta, come i pini che circondavano la sua santa Abbazia; ma adesso l’età lo aveva curvato verso quella terra ch’egli stesso si apriva di propria mano, per esservi nascosto nel giorno non lontano della sua morte; cortesi apparivano in lui il muovere dei labbri, il sorriso, l’atto della mano; tuonante suonava la voce e solenne; negli occhi gli scintillava una fiamma che sembrava dovere ardere eterna, da che nè gli anni, nè le vigilie, nè il pianto, l’avevano potuta, non che spengere, diminuire. Michelangiolo, se avesse dovuto dipingere un Padre Eterno, ne avrebbe copiato il terribile; Raffaello, se ritrarre un Redentore, ne avrebbe imitato il gentile. Rogiero sentendosi alquanto consolato dalla bellezza di cotesto aspetto, sebbene un po’ vergognoso, gli parlava: «Santo Padre, se la domanda non vi riesce importuna, ditemi in cortesia, perchè le vostre mani si occupano in opera tanto umiliante? Il cadere della neve, lo scrollare della terra, riempiono incessantemente cotesta fossa, che il giorno della vostra estinzione potrebbe da qualsivoglia uomo compirsi in breve ora. Parmi che il tempo si deva consumare assai meglio.»
«Figliuolo,» rispondeva il Frate piantando in terra la vanga, e sovrappose le mani alla estremità del manico, e su le mani appoggiò il mento in grave maniera: «certo tu diresti saviamente, se così lieve fosse l’oggetto di questa mia opera. Io vo’ che tu sappi ben altro essere stato il consiglio del nostro glorioso institutore, quando ordinava questo quotidiano lavoro; ben è vero che la pratica se n’è oggidì quasi perduta tra i cenobiti di questo monastero, ed io sono ormai presso che il solo che tuttavia la segua. Pensi l’uomo, che il suo corpo deve formare due o tre zolle di terra, e un numero infinito d’insetti: e se le passioni implacabili non taceranno, imperverseranno meno spietate nell’anima sua. Noi siamo tali per nostra propria conformazione, che, bisognevoli di piacere, rifuggiamo spaventati, non che dal dolore, dalla fatica; ora immaginati se il pensiero vorrebbe fissarsi su la meditazione della morte, ch’è sommo dei dolori; però fa di mestieri costringerlo con sensazione continua. Veramente il tempo sarebbe meglio impiegato in qualche opera di grandezza, ma le occasioni di operare sublimemente occorrono rade, figliuolo, e rade bene; intanto aspettando che vengano, quale studio torna più vantaggioso di quello che ci svela la debolezza della nostra natura, e ne avverte tutte le condizioni pareggiarsi nella bilancia della morte, e forse una terra più perfetta emanare dalle membra dell’uomo per assiduo travaglio robuste, per temperato cibo incorrotte, che da quelle imputridite di colui che visse nella mollezza? O figliuol mio, non torna vano aprire la terra nella quale dobbiamo essere sepolti.»
«Io avrei creduto che replicando ogni giorno questa opera, l’uomo vi si fosse da gran tempo abituato, e il suo timore rimanesse come era avanti che la cominciasse. Ma, padre mio, che cosa ha mai la vita, che meriti tanto apparecchio per finirla? Se l’uomo per fastidio, per dolore, o per altro, vuol darsi la morte, così senza pensare si cacci il ferro dentro le viscere; allora, in quel momento che passa tra la ferita e la estinzione, il suo spirito penserà essere stato un atto del suo volere, e godrà nella lusinga di avere la potestà di disfarsi: meditandovi sopra apprendiamo essere cosa necessaria, disperatamente inevitabile, lo sforzo della tua costanza affrettarla di pochi istanti; tutto ti si riduce in bassezza, in miseria, in viltà. Non pensiamo in nome di Dio alla morte, ch’ella ci travaglia di troppo grande sconforto: – diamocela, se fa di mestieri, senza pensarci.»
«Ah!» gridò il Frate, percuotendosi della mano la fronte: «tu mi sveli un terribile arcano; – forse questa mia opera, che finora ho stimato derivare da forza del cuore, è tributo, che l’età, crollando il vigore del mio spirito, mi costringe di pagare alla debolezza! In altro tempo io aveva imparato che l’uomo si mostra in tutto imbecille; ma lo spirito maligno mi ha sorpreso, e la superbia mi ha deluso con la lusinga che la mia opera fosse magnanima: pure io non temo la morte.»
«Nè io la temo; anzi la cerco, come tesoro nascosto, e non la trovo; la desidero come ricompensa della vita, e non mi viene concessa. Perchè non porne tra mezzo alla via travagliosa un luogo dove riposarsi? Perchè fra tanto dolore non v’è asilo di pace?»
Il Frate taceva. Rogiero stette lungamente pensoso; voltosi attorno vide una solenne solitudine, udì un silenzio beato, solo interrotto dal fremito delle fronde lontane, o dalla voce dell’errante lodoletta, che con velocissima curva trapassava pel Camposanto: il suo sangue, come rinfrescato, gli corse più placido nelle vene, i polsi gli battevano languidi, la respirazione si fece più libera.
«Oh! qui regna pace da vero!» – proferì gemendo.
Il Frate taceva.
«Se,» continuava Rogiero «se presso l’altare del Signore non giungesse il grido della vendetta; – se i cantici di Dio bandissero dal mio orecchio quella voce; – se l’ombra dei morti non entrasse nel santuario…»
«Certo non v’entra, se tu non ve la porti.»
«Io? se mi riparerei sotto terra per non essere perseguitato!»
«Hai tu commesso delitto?»
«No.»
«Sei per commetterlo?»
«Sì.»
«E che cosa vuoi dal Signore?»
«Ch’ei mi salvi da una forza che mi strascina alla colpa.»
«Qual forza? Cristiano, dì – voglio; e vorrai.»
«O Frate, Frate, voi siete incredulo, ma io per la notte e pel giorno sono condannato ad ascoltare la voce del mio tradito genitore.»
«Che domanda?»
«Un delitto.»
«Oltre qui» rispose il Frate additando la fossa «non v’ha che perdono; tutto ciò che racconti è illusione del tuo spirito disposto a mal fare.»
«Potrebbe la casa di Dio, se ciò fosse, sanarmi»?
«Potrebbe.»
«Padre, io mi rendo Frate.»
«Perchè v’è silenzio,» riprendeva il vecchio, e cogli occhi accennava l’Abbazia, «credi tu che tutti abbiano pace là dentro? Non sai che la disperazione tace? non sai che il pianto si consuma, non già l’angoscia che fa piangere? La soglia del convento non è muro che valga a difenderti dalle passioni del mondo: se ve le porti, le troverai; se vi porti il delitto, vi troverai il rimorso; se il desiderio, lo spasimo. Vissero tali, che ingannati dal sembiante, o, per meglio dire, fidandosi troppo in questo recinto, avviliti da qualche sciagura, sdegnati, ma non sazii del mondo, vestirono l’abito del nostro ordine, ma non ne assunsero lo spirito: indi a poco le cupidigie risvegliandosi in loro più gagliarde che mai, anzi irritandosi per la difficoltà di conseguire, o di deboli divennero scellerati, o logorarono nella rabbia la vita, e nessuno di questi salvò l’anima. Nel silenzio di quelle muraglie stieno nascosi i fatti della colpa. Tu bada, se vuoi essere felice, che lì dovrai deporre ogni desiderio di gloria, ogni odio, ogni amore; sarai come defunto, come non nato; ignorate passeranno le tue virtù, vanità ti fingerai gli applausi della gente, la corona della sapienza e del potere; solo cosa reale la terra che dovrà seppellirti; e tu traboccherai nella morte sconosciuto, non curato, come una goccia di pioggia che cade nell’oceano.»
«Padre, non mi respingete dal sacrario di Dio.»
«Io ti respingo? Oh! se la mia testa dovesse esserti scala per salire alle gioie celesti, io la deporrei su la polvere mille volte e mille, ringraziando l’eterna sapienza di averla sortita a così alti destini. Ma io sono peccatore, nè mi può esser concesso levare un’anima dal sentiero della perdizione, ed acquistarla al Paradiso, no, non mi può essere concesso: forse chi sa che confortandoti ad entrare in religione, io non ti perdessi: tale si perde Frate, che si sarebbe salvato Cavaliere: in ogni cosa bisogna bene meditare sul fine.»
Mentre proferiva queste parole, una campanella della Abbazia incominciò a suonare con tocchi lenti e lugubri: il Frate levò gli occhi al cielo, e pregò ardentemente: «Piacciati perdonare, o Signore, all’anima del povero Frale Egidio.» Quindi vôlto a Rogiero: «Senti, figliuolo; questa campana ci avverte che un’anima sta per passare. Povero Frate Egidio! non sono anche otto mesi che ha vestito l’abito, e tanto si macerò con digiuni e con discipline, che il suo corpo non ha potuto reggere: certo, egli fu gran peccatore, ma la misericordia dell’Eterno è più grande del peccato, e certamente egli andrà salvo; io l’ho trovato come te, su la via, e l’ho condotto là dentro, ma il suo volto appariva ben diverso dal tuo, diversa la voce, diverse le parole: ora egli muore. Chi è Frate Egidio? Nessuno lo sa; nessuno lo piange. Dalla luce del tuo sguardo conosco che non potresti sopportare siffatta dimenticanza; quei tuoi occhi accennano una passione che prorompe; non v’ha potenza che valga a frenarla: se la impedisci, tornerà a spezzarti il cuore: io non so dove ella ti condurrà, ma certo se ora tu ti rendessi Frate, sarebbe un cacciarti nell’Inferno prima del tempo. La pace di Dio sia teco.»
«Spietato!» diceva Rogiero «mi augura la pace, e non vuole porgermi la mano per aiutarmi; mi respinge dal luogo dove voglio salvarmi, dicendomi, che quella non è la via, e non me ne accenna un’altra. Ma guarda una volta la tua creatura, Dio onnipotente! Andiamo a prostrarci innanzi al suo altare; lo pregherò, lo scongiurerò; tutto quello che può fare un uomo farò, purchè finalmente mi ascolti, e mi risponda.»
Ciò detto, si pose deliberato dietro le traccie del Frate, giunse ad una porticella, la spinse, e trapassò per un corridore in una stanza terrena; una scala era a capo della stanza, la salì; venne al primo piano, e poichè lungo tempo vi si fu avvolto inutilmente in cerca di un Frate. che gl›insegnasse la chiesa, si trovò innanzi ad un uscio, traverso del quale intese la voce sommessa di persona che reciti preghiere per qualche morto; schiuse l›usciale, e fermò il piede su la soglia. – Il sole presso al tramonto, nascoso dietro fitta caligine, coloriva di vermiglio di sangue una nuvola errante al sommo del cielo, e la nuvola ripercuoteva su gli oggetti con molto spaventosa maniera la luce rossa: ella penetrava traverso la piccola finestra, e illuminava il volto, e parte del petto di un moribondo. Sia che la malattia non gli permettesse giacersi disteso, o che altro, egli stava seduto, sorretto alle spalle con un materasso piegato; la mano destra teneva scoperta sul letto, e non aveva più moto, e all›estremità delle dita era violetta; ogni altra parte, bianca, sembrava già morta; la sinistra nascondeva sotto il lenzuolo; sul materasso dal manco lato vedevasi un Crocifisso, ma il moribondo teneva il capo fitto al destro, quasi per ischivarne l›aspetto; di tanto in tanto apriva gli occhi, ora velati come nebbia colore di piombo, ora lucidi come vetro, ma smarriti, senza fissarsi su nulla, mostrando di non veder nulla, quali sono quelli del cieco di gotta serena; i capelli rovesciati dietro le orecchie lasciavano considerare per lo spazio della fronte il dominio della morte; le labbra compresse mandavano fuori livida spuma, che gli gocciava giù per la barba; la gola sforzandosi di singhiozzare si allungava, si attenuava, e dopo un travagliarsi angoscioso costringeva la bocca ad aprirsi quanto più poteva, e lasciava uscire un sospiro fievole fievole. La rimanente scena era sepolta nel buio: nel buio la stola, che gli copriva i piedi; nel buio il Frate, che, inginocchiato a piè del letto, recitava le sante orazioni.
Rogiero entra senza strepito. Perchè anch’egli scolora? perchè il cuore gli batte più tardo? Si affretta, accosta il suo volto a quello del moribondo: «Gran Dio! Roberto!»
Il senso del moribondo divenuto pigro risponde come suo mal grado alla chiamata; leva la faccia, e considera il Cavaliere: allo improvviso il sangue gli rifluisce commosso per tutto il corpo, gli si arricciano i capelli, trema in maniera che tutto il letto si scuote; e con urlo spaventevole grida: «Il tradito! il tradito! Padre, mi avete deluso: perchè dirmi che Dio mi ha perdonato le colpe? Non vedete ch’egli spezza le lapide delle sepolture, e manda i morti a disperarmi nella agonia?»
Il Frate, che, inginocchiato all’estremità del letto, gli raccomandava l’anima, maravigliando come potesse urlare sì forte, accorse a consolarlo.
«Sono illusioni del Demonio, fratello mio: affissate la mente su la immagine del Redentore.»
Roberto, appena vide il Padre vicino, gli si avvinghia paurosamente al collo, e nasconde il capo nel suo seno, proferendo interrotte queste parole: «Eccolo lì… lì… dall’altra parte del letto… per amore di Gesù, gittategli addosso acqua benedetta… cacciatelo via… i miei pensieri non possono essere del Paradiso, s’ei non se ne va via.»
Il Frate, che, assorto nel sacro mistero dei suoi ufficii, non badava a quello ch’era avvenuto, intende il guardo nel buio, e scorge un cavaliere. Certo, il ribrezzo gli agitò le membra, ma leggiermente; e confidando nell’aiuto divino, di súbito rassicurato cominciò: «In nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, io ti scongiuro…»
«Padre, non sono mica uno spettro, che dobbiate scongiurarmi.»
«Non gli badate, Padre, non gli badate; proseguite a esorcizzarlo; non vi avvedete ch’ei tenta ingannarvi per non andarsene?»
«Sciagurato! Roberto, non conoscete più la mia voce?»
«Ah non l’avessi mai udita!»
«L’ultima volta ch’io vi lasciai, vi strinsi la mano, e ci promettemmo, che se di allora in avanti ci fossimo mai incontrati nel mondo, ci saremmo veduti come amici: adesso così mi accogliete voi? Bandite ogni paura; sentite, io vivo;» – e così parlando gli pose una mano sul braccio in atto amoroso.
«Mi brucia… Padre… mi brucia… gettategli l’acqua benedetta… acqua benedetta… non posso più sopportare… cacciatelo via, o io muoio bestemmiando.»
«Figliuolo, non dite queste empietà; lodate la provvidenza di Dio, il Cavaliere che vi sta davanti è vivo.»
«È vivo!»
«Sì, è vivo: adorate gli eterni decreti: forse egli fu inviato per farvi dolce la morte col suo perdono.»
«È vivo!» – gridò il moribondo, e lasciando il collo del Frate prese la mano di Rogiero, e con infinita ansietà la toccò più volte, quasi per accertarsi che non s’illudeva. – «È vivo, si!» – e se l’accostava alla bocca, e vi spargeva un torrente di lacrime.
«Ma deh via! Roberto, fatevi animo, non piangete tanto; molto maggiori peccatori, che non siete voi, ottennero perdono, e con minore pentimento.»
Roberto senza lasciare la mano di Rogiero lo guarda in viso, e con voce lamentevole gli domanda: «Perdono! perdono!»
«Voi non mi avete fatto mai danno, Roberto; perchè dovrei perdonarvi?»
«Oh! i miei delitti sono troppi, e mi abbisogna tutta la virtù della speranza per non isconfortarmi del perdono, e tutta la misericordia di Dio per perdonarli: questi delitti ho commesso contro l’innocente, – contro di voi, – perchè vi ho tradito.»
«Perchè mi hai tradito? che ti aveva io fatto?» rispose Rogiero con tale un suono che avrebbe commosso l’anima più feroce; «dunque non basta, per esser sicuri, non nuocere?»
«Ma! – io vi ho tradito.»
«O cortese Cavaliere, se possedete spirito gentile come l’aspetto, non vogliate permettere, che quest’anima si diparta sconfortata senza il vostro perdono: egli vi ha offeso, ma la sua penitenza ha scontato la colpa, ed ora sta per comparire davanti al giudizio dell’Eterno.»
«Bel Padre, io non rammento in che quest’uomo mi abbia apportato ingiuria; ma da che dice avermi tradito, io gli perdono. La offesa, come voi ben sapete, non può levarsi che in due modi, o col vendicarla, o col perdonarla: nel primo non posso, non mi rimane altro che il secondo; io gli perdono.»
«Padre, avete sentito, ei mi perdona.»
«Sì: state lieto, l’uomo ha perdonato; pensate se perdonerà Dio, ch’è tanto più pietoso di lui!»
«Amen.»
«Roberto, di grazia, mi direte voi, come mi avete tradito?»
«E perchè non ve lo dirò io? Oh! fosse qui la universa gente per ascoltare le mie accuse, e vedesse quanto grande scellerato sono stato al cospetto del Signore! così la umiliazione lo indurrebbe a riguardarmi più benigno in questa ora amarissima della morte, e molti si emenderebbero… ma no, che voi potreste ritirare il vostro perdono, e pentirvi di avermelo dato, e maledirmi per sempre; – no, ch’io non vi dirò come ho fatto a tradirvi!»
«Roberto, più che voi non credete sono assuefatto a sentire la sciagura; voi non potrete narrarmi nessuna gran cosa ch’io non abbia immaginata o sentita: volge assai tempo che mi trovo disposto a tutto; parlate, io vi prometto di non ritirare il perdono.»
«Lo giurate?»
«Lo giuro.»
«Padre, in cortesia, ricevetene il giuramento.»
Rogiero pose la destra su la immagine del Redentore, e disse quello che al Padre piacque di suggerirgli.
«Dunque voi non potete più disdirvi, Rogiero,» domandò Roberto a Rogiero, il quale gli rispose assentendo col capo: «allora venite qua, sedetemi vicino su la sponda del letto; io parlerò sommesso, perchè sento mancarmi la vita, e forse chi sa se potrò terminare la mia confessione Rogiero, sentirete la storia di un delitto che non concede gridi nè pianto, ch’egli è troppo maggiore di loro; le lacrime vi si congeleranno su gli occhi, i gridi si soffocheranno nella gola. – Che impallidite, Rogiero? Oh! non è tempo ancora; se voi non fate core adesso, in verità io vi protesto che morirete prima che io la finisca.»
Rogiero ponendo la sua nella mano di Roberto, per fargli sentire che non tremava, gli ordinò: «Dite.»