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CAPITOLO XII
Trattasi delle parti della giustizia.
Mentr'i' a quegli uomin iusti stava atteso,
subitamente mi percosse un tuono,
che mi stordí e fe' cader disteso.
E, come quei che a forza desti sono,
5 poi mi levai e vidi star Astrea
come reina posta in alto trono,
splendente e triunfal quanto una dea:
mai tanta maestá mostrò Iunone,
quando con Iove tra li dèi sedea.
10 Le dame sue con splendide corone
aveva innanzi a sé e gran diletti
di belli fior, di suoni e di canzone.
Poi drizzò a me, parlando, questi detti:
– O tu, ch'io scorsi, omai la mente attenda,
15 se del collegio mio saper aspetti.
Iustizia vuol che 'l debito si renda
a chiunque el merta, e quando si conviene,
e senza colpa mai nessun si offenda,
e sol da quello, a cui punir pertiene.
20 Da queste due radici son li frutti,
che la iustizia produce e contiene.
L'uomo a tre cose è debitore a tutti:
ad usar vero e fede e buon amore,
sí che rancore o froda non l'imbrutti.
25 Tre debiti si debbono al minore:
dottrina al figlio e farlo virtuoso,
e soldo al fante ovver al servidore;
il terzo è sovvenire al bisognoso,
ché ogn'ardua indigenzia può dir «mio»
30 di quel che crudeltá gli tien nascoso.
Tre debiti a colui, il qual è rio:
cioè correzion, quando si spera
ch'egli si mendi e si converta a Dio.
E, nel mal far se indura e persevéra,
35 tagli col ferro e con la spada nuda
il membro infetto la Vertú severa.
Né per questo si debbe chiamar cruda,
mozzando il morbo ch'alla morte mena:
convien che la piatá gli occhi vi chiuda.
40 Severitá adunque a dar la pena
prima conviensi, e poi ch'anco sia mista
colla compassion, ch'ira raffrena.
E tre al buon, il qual virtú acquista,
ché chiunque può, tenuto è dargli aiuto,
45 ch'addietro non ritorni o non desista;
ché spesse volte l'arbor ho veduto
crescere ratto e far frutto tantosto
per buon conforto e cólto, ch'egli ha avuto;
e forse un altro, presso a quello posto,
50 perch'è negletto o che ha terreno asciutto,
sta senza frutto ed a mancar disposto;
e, benché paia smorto e giá distrutto,
il cólto e buon letame alle radici
el fan fiorire e fanli far buon frutto.
55 Quanti sarían per la vertú felici,
che, desviati, ovver per mancamento,
son pervenuti a bassi e vili offici!
Alla vertú, venuta a compimento,
debito solve chiunque onor gli rende
60 d'atti e parol, di loco e reggimento.
Non mai vertú, che di splendor s'accende,
si debbe por a basso o sotto scanno,
ma suso in alto, ov'ella piú risplende.
Tre a' benefattor, che ben ne fanno:
65 prima, che chi riceve, non si scorde
del benefizio, né di quei che 'l dánno;
e poscia ch'el ringrazi almeno in corde,
s'egli non pò coll'opera, e in aperto
sovente con la lingua lo ricorde.
70 Ma ora il mondo è sí rio e diserto,
che, quando il benefizio molto eccede,
sí che non può o non vuol render merto,
si duol, se scontra ovver presente vede
il suo benefattor e china il volto;
75 ed alcun altro in piú error procede,
ché, quando il benefizio è grande molto,
al suo benefattor opta la morte,
che dall'obligo suo ne sia disciolto.
Non però 'l liberal chiuda le porte
80 per l'altrui vizio alla sua cortesia,
né lassi, a dar, tener le mani sporte;
ché chiunque dá ch'a lui donato sia
per ricompenso, non è liberale,
ma mercatante ch'usa mercanzia.
85 Tre cose debbi a chiunque tu se' eguale:
prima, equitá d'una bilancia ritta,
sí che la sua non saglia e la tua cale.
L'altra è la legge nel Vangelio scritta:
ch'altrui non facci cosa, che vorresti
90 che a te non fusse fatta, né anco ditta.
Concordia vien la terza dopo questi
tra l'arti, tra i compagni e dentro al tetto,
dove dimori, e i vicin non molesti.
Ed al superior, cui se' subietto,
95 due cose debbi; e, prima, obbedienza,
poi onorarlo con fatto e con detto.
Tre cose al padre, di cui se' semenza,
ed alla madre tua ed a' primi avi,
e prima sopra tutto riverenza.
100 Se in la vecchiezza elli han costumi gravi,
che li sopporti, e loro etá antica
aiuti lieto e con parol soavi.
Ricòrdite l'angoscia e la fatica,
ch'ebbe la madre in te, e degli affanni,
105 che porta il padre, che 'l figliol notríca.
L'aquila, quando è giunta agli antichi anni,
s'attosca e spenna; e nel nido da' figli
nutrita è, insin che rinnovella i vanni.
Ed alla patria, da cui l'esser pigli
110 debitor se', che l'ami e la defensi,
e 'l comun cresci, aiuti e che 'l consigli.
Se' debitor a Dio, se tu ben pensi,
che conosci suoi doni e che tu l'ami
con tutto il core e con tutti li sensi.
115 E questo amor produce molti rami:
religion, che solo Dio adori,
devoto orando, e genuflesso el chiami,
e che lui servi come padre, onori
le chiese e le sue cose, e li dí santi,
120 vacando a lui, per l'anima lavori.
E questi detti io posso tutti quanti,
abbreviando, recarli a sei modi:
però sei son le dame, ch'io ho innanti.
Latría è prima, e vien a dir che lodi,
125 ami ed adori Dio e che 'n Lui fondi
ogni altro amor terren, del qual tu godi.
Pietá è l'altra, e due amor secondi
delli parenti, e prima che sia tanto,
che alli bisogni lor non ti nascondi.
130 La terza è Observanzia, l'onor santo
fatto agli antichi e virtuosi e buoni,
ed a chi porta di dignitá il manto.
La quarta è Gratitudin delli doni.
Equitá è la quinta ed usar vero
135 in apparenzia, in fatti ed in sermoni.
Sesta è Vendetta e l'animo severo
con la compassione al cor unita,
tardo al tormento e non troppo austero;
ché chiunque vuol che colpa sia punita,
140 se non ha emenda, molto offende ed erra,
ché Dio non vuol la morte, ma la vita.
Però 'l divino fòro a niuno serra
la porta di piatá, s'egli si pente
con umiltá inginocchiato a terra.
145 Ma, perché 'l malfattore spesso mente,
dicendo: – Io son pentito – , l'altro fòro,
cioè 'l civile, adopera altramente;
ch'ogni scienza ed arte ovver lavoro
prendon diversitá dalli lor fini,
150 alli quai prima elli ordinati fôro.
Il civil fòro ha 'l fin che medicini,
governi e purghi il corpo del comune,
che per li viziosi non ruini.
Per questo egli usa spada, fuoco e fune,
155 sbandisce e taglia e mai non dá speranza
che chi è reo possa andare impune.
E, benché pianga e chiegga perdonanza,
non vuol udir; ché chi è predon o fura,
s'è liberato, e' torna a prima usanza.
160 In questo modo la legge assecura
el viver lieto e i buoni e vertuosi,
e li cattivi scaccia ed impaura.
Se questi detti miei tu ben li chiosi,
concluderai che la legge fu fatta
165 pe' trasgressor al buon viver noiosi,
e fu da' virtuosi in prima tratta. —
CAPITOLO XIII
Dove trattasi singolarmente della virtú dell'equitá e della veritá e de' valenti canonisti e legisti.
– Domanda – aggiunse Astrea – de' regni miei;
omai di' ciò che vuoi, e ben t'accerta
e delle dame mie tutte e sei. —
Quando mi vidi far tanta proferta,
5 con quella parte io la ringraziai,
che chiede Dio all'uom per prima offerta.
E poi con riverenzia domandai:
– Perché la Veritá, la quinta sposa,
che Equitá ancor nomata l'hai,
10 la veggio singulare in una cosa,
ché porta la bilancia ed ella sola
tra la sua schiera è la piú gloriosa? —
Rispose Astrea a questa mia parola:
– Da questo nome «ius», se noti bene,
15 come si espone in la civile scola,
Iustizia è detta, a cui tener pertiene
egual bilance. È ver che 'n alcun caso
ei non si puote ovver non si conviene;
ché 'l don di Dio accolma tanto il vaso,
20 e de' parenti a' figli, ché chi rende,
non pò render appien, ma men che a raso.
Cosí all'uom, che di vertú risplende,
piena mesura non si rende ancora,
ché nullo ben terren tanto s'estende;
25 ché la virtú è sí degna, sí decora
e sí eccellente, ch'ogni volta eccede
ogni ben temporal, che lei onora.
Ed a colui che 'l benefizio diede,
render si puote egual; ma chi è grato,
30 anche piú oltra al dato stende il piede.
E cosí la vendetta del peccato
merita egual; ché quanto fu 'l delitto,
tanto ognun merta d'esser tormentato.
Ma, com'io dissi sopra e trovi scritto,
35 iustizia punitiva è crudeltá,
se la pietá non mitiga l'editto.
Però null'altra in man le bilance ha,
se non la quinta dama di mia schiera,
chiamata Equitate e Veritá;
40 ché a lei sola appartien che la statera
tegna diritta e che in detto e 'n fatto,
in quel che tratta, sia trovata vera.
Ogni ristoro e ciò che si fa a patto,
ella pertratta e grida che si renda
45 quanto la froda o forza hanno suttratto.
Perché tu queste cose meglio intenda,
pensa se alcun rifar dovesse diece,
ed egli a nove a ristorar si estenda.
Costui non pienamente satisfece,
50 ché convien sempre che 'l ristor sia eguale
al danno ed all'iniuria, ch'altrui fece.
Ell'è che grida non far altru' il male,
che non vorresti tu; e quanto hai offeso,
tanto restituisci ed altrettale.
55 D'esto nome Equitate assai ha' inteso;
or, perché Veritá ella si chiama,
io ti dirò, ch'ancor non l'hai compreso.
Dopo il ristoro, questa quinta dama
pertratta ciò ch'insieme si patteggia:
60 questa è la sua materia e la sua trama.
A lei pertien che guidi e che proveggia
che ciò che si promette o mercatanta,
che sia corretto, quando si falseggia,
e che la mercanzia sia quella e tanta,
65 che è promessa, e quando, dove e come
e qual, se quella è guasta o troppo schianta.
E però Veritá è l'altro nome;
ed ha duo nomi, perché ha duo offici,
ché usa il vero ed eguaglia le some.
70 L'altra domanda, la qual tu mi dici,
è, da che porta singular insegna,
s'ella è maggior tra le dame felici.
Ogni vertú tanto è eccellente e degna
– rispose a questo, – quanto è di piú pregio
75 il fine intento, al qual venir s'ingegna.
Al fin piú glorioso e piú egregio
ingegnasi Latría; però l'aspetto
ha piú splendente in tutto il mio collegio.
Ella è che sale al ciel con l'intelletto
80 e, dimorando in terra sua persona,
ella sta innanzi al divino cospetto;
e lí, orando, con Dio si ragiona;
poi si mesura e pon sé in la bilancia,
nell'altra li gran ben, che Dio ne dona.
85 E vede i don di Dio di tanta mancia,
e tanto grandi, che a rispetto a quelli
ciò che l'uom render può, è una ciancia.
E, benché vegga Dio cogli occhi belli,
nientemen le bilance non porta,
90 ancora che ella, orando, a Dio favelli;
ché ogni gratitudo è lieve e corta,
rispetto al don di Dio; e, se si pesa,
troppo andarebbe la statera torta.
E con questa ragion, ch'or hai intesa,
95 sappi che quanto è natural l'amore,
tanto, negletto o tronco, è di piú offesa.
E nullo vinclo debbe esser maggiore,
e nullo amor piú stretto e piú eccellente
che dalla creatura al suo Fattore.
100 Però chi 'l tronca e chi v'è negligente,
veder si puote in quanta offesa cade,
chi nol frequenta o chi non gli è obbediente.
Questo primaio amor prima pietade
disson gli antichi, e che 'l culto divino
105 è la prima vertú, prima bontade.
Però il re Priámo e 'l buon Quirino,
ed Alessandro in pria fenno li tempii,
e Salomone el coprío d'oro fino.
Ed, offerendo, al vulgo dienno esempii;
110 e chi non frequentava il divin còlto,
chiamavano crudeli, iniqui ed empii.
Ma ora è sí negletto e sí rivolto
a Satanasso per diverse vie,
che, piú che a Dio, a lui si volta il volto.
115 Con superstizioni e con malie
or son fatti teatri i sacri lochi
a vagheggiarvi e farvi ruffianie.
Quanti Iasoni e quanti re Antiòchi
lo imbruttano ora, e Dionisi e Varri
120 son stupratori degli eterni fochi!
I filistei riposono in sui carri
l'arca di Dio, per non inviziarse,
e tanto mal che di lor non si narri.
La barbaresca man, che sangue sparse
125 giá tanto in Roma, che destrusse e incese
i gran palagi e il Capitolio arse,
fu reverente ai tempii ed alle chiese;
ché chiunque fuggí a quelli de' romani,
fu libero da morte e dall'offese.
130 Io ho toccati questi esempli strani
degl'infideli, e questo ho posto solo
per emendar li crudeli cristiani.
L'altr'è l'amor, il qual debbe il figliolo
a' genitori, la pietá seconda,
135 ed alla patria del nativo suolo.
Ed ogni amor, che la natura fonda,
«pietá» si chiama, e cosí per opposto
«crudel» è detto chiunque el confonda. —
Tacette poi che questo ebbe risposto.
140 Allor vidi venir molti col vaio
ver' noi col lume in su la testa posto.
– Iustinian son io – disse il primaio,
– che 'l troppo e 'l van secai fòr delle leggi,
ora subiette all'arme ed al denaio.
145 Iurisconsulti e gran dottori egreggi
vengon qui meco da stato giocondo,
perché tu gli odi e perché tu li veggi.
Questo, che mi sta a lato, è fra' Ramondo
predicatore, a cui papa Gregoro,
150 quand'egli dimorava giú nel mondo,
fe' compilar il nobile lavoro
de' Decretali, e per questo vien esso
insieme meco in questo sacro coro.
Bartol Sassoferrato è l'altro appresso,
155 con la lettura sua, la cara gioia,
come dimostra il suo chiaro processo;
e Baldo perusin, che l'ebbe a noia;
poi 'l dottor Cino, ch'ebbe il gran concorso
nel tempo suo e l'onor di Pistoia;
160 poi Ostiense e 'l fiorentino Accorso,
che fe' le chiose e dichiarò 'l mio testo
ed alle leggi diede gran soccorso.
Giovanni Andrea, le Clementine e 'l Sesto
il qual chiosò, sta qui con la Novella,
165 sí come il lume a te fa manifesto.
E sempre il ciel rinfresca e rinnovella
l'opinioni e li novi dottori;
e quel che ha detto l'un, l'altro cancella.
Azzo e Taddeo giá funno li maggiori;
170 ed ora ognun è oscuro e tal appare
qual è la luna alli febei splendori. —
Io vidi poi color tutti levare
inverso il cielo, come fa 'l falcone,
quando la preda sua prende in su l'are.
175 In questo, Astrea mi disse esto sermone:
– Tu hai veduto appien del regno mio
quanto dir puossi in rima od in canzone. —
Poscia colle sue dame indi sparío.
CAPITOLO XIV
L'autore vede il tempio della fede, e gli appare san Paolo, il quale gli ragiona di questa virtú.
In su 'l partir che fe' la bella Astrea,
mi disse la primaia di sue dame,
fulgurando una luce come dea:
– Se tu l'aiuto pria da Dio non chiame,
5 non ti sperar potere andar giammai
alle Vertudi del quinto reame. —
Per questo gli occhi al cielo io dirizzai,
dicendo: – O Maiestá, sempre invocanda
nelli principi e negli atti primai,
10 chiunque verso alcun fin senza te anda,
siccome cieco convien che cammine,
se pria l'aiuto da te non si manda.
Dell'altre tre vertú tu sei il fine
e segno o «Alfa» ed «O»; e son per questo
15 «teologiche» ditte ovver «divine». —
Allor vid'io uno splendor celesto
venirmi al volto alquanto da lontano,
che quel ch'or dico, mi fe' manifesto.
La statua grande vidi in un gran piano,
20 che vide giá Nabucodonosorre,
significante ogni regno mundano.
Er'alta vieppiú assai che nulla torre
e forse piú che non fu quel cavallo,
che fe' da' greci la gran Troia tôrre.
25 E di fin oro aveva il capo giallo,
le braccia e l'orche e 'l petto aveva bianco
di puro argento senza altro metallo.
Le reni, il ventre e l'uno e l'altro fianco
eran di rame rubro e resonante,
30 e quel, con che si siede, ramengo anco.
Le cosce e gambe insin giuso alle piante
eran di ferro e i piè di terra cotta,
parte non cotta, e su quelli era stante.
Poi una pietra men ch'una pallotta
35 se stessa si ricise e si remosse
d'un alto monte e venne a valle in frotta.
E nelli piedi all'idolo percosse
e sminuzzollo e prostrollo confratto,
sí che appena parea che stato fosse.
40 Quella petruccia in questo crebbe ratto
e fecesi un gran monte, e su la cima
tosto un tempio alto ed ampio vi fu fatto.
Dal loco, ove quell'idolo era prima,
io mi partii e salsi il monte tanto,
45 ch'andai tre miglia e piú, alla mia estima.
Quel tempio risplendea da ogni canto,
e, quando vidi com'era costrutto,
ne sospirai con lacrime e con pianto,
ch'era di corpi morti fatto tutto;
50 e per calcina v'era il sangue posto
recente sí, ch'ancor non era asciutto.
Vapore acceso nel mese d'agosto
mai non trascorse il ciel tanto veloce,
né polsa da balestro va sí tosto,
55 come scese dal ciel con una croce
donna vestita in bianco, e, giú discesa,
benigna a me proferse questa voce:
– Il tempio sacro è questo, ovver la Chiesa,
fermata in su la pietra; e ferma siede,
60 bontá del fundamento, ond'è difesa.
Ed io, che or ti parlo, son la Fede:
a me con tanto sangue e con martíro
fu fatto il tempio, che quassú si vede.
E questi santi su di giro in giro
65 mi fenno il fundamento lá giú in terra
colla vertude del superno spiro.
Questi per me si misero alla guerra,
armati di vertude e cogli scudi
di quella veritá, che mai non erra.
70 Essendo agnelli tra li lupi crudi,
combatteron per me li forti atleti,
come per 'manza gli amorosi drudi.
E, se lor corpi fûn morti e deleti
di quella vita, che, vivendo, more,
75 nell'alma fûn vittoriosi e lieti. —
E, ditto questo, con grande splendore
ritornò al cielo, ed io rimasi solo,
ancor chiamando aiuto a Dio col core.
Allor apparve a me l'apostol Polo,
80 mostrando blando aspetto e lieto viso;
e poscia disse a me come a figliolo:
– Hai vista quella che del paradiso
venne con Cristo e fondossi nel sasso,
che dal celeste monte fu exciso?
85 Fu impugnata pria da Satanasso,
il qual commosse scribi e farisei
per atterrarla, ovver per darla al basso.
Allora Pietro e li compagni miei
gli funno defensori in ogni corte,
90 innanzi a' prenci e innanzi alli gran réi.
E pensa quanto a noi pareva forte
a suader che l'uomo a Dio s'unisse
ed incarnasse e sostenesse morte,
e che, resuscitando, rivestisse
95 glorificato il corpo, ch'avea pria,
e poi per sua virtú ch'al ciel salisse.
E, benché questo paresse pazzia
e che li predicanti fusson vòti
d'umana possa e di vana sofia,
100 nientemen da pochi ed idioti,
colla vertú del sacrosanto foco,
che dal ciel venne in lor petti devoti,
seminôn questo vero in ogni loco;
e questo è tal miracol, se ben miri,
105 ch'ogni altro respective a questo è poco,
pensando che tra morti e tra martíri
corse alla fede il mondo, e li fedeli
non si curavan de' tormenti diri.
Ed onde esser porría, se non da' cieli,
110 che 'n cosí poco tempo tanta schiera
credesse a noi tra le pene crudeli?
E, per provare ancor la fede vera,
permise Dio che 'l maladetto drago,
che sempre adopra che la fede pèra,
115 unisse la sua possa a Simon mago
e mostrasse miraculi e gran segni,
non però ver, ma 'n apparente imago,
e ch'egli commovesse in molti regni
piú altri nigromanti e suoi satelli
120 contra la fede con forza ed ingegni.
Allor li cavalier pochi e novelli,
dodici e pochi piú, fên resistenza
tal, ch'elli confutôn tutti i ribelli.
E, perché sappi di quant'è eccellenza,
125 quanto a Dio piace e quanto merto acquista
la vera fede con ferma credenza,
ella è che 'nsino al ciel alza la vista
e vede il premio, il qual alla fatiga
fa esser forte, perché si resista.
130 Ella è che vince la triplice briga
del mondo, del dimonio e sensuale;
e la vittoria è ben che 'l mondo affliga.
Ell'è che mostra la pena infernale
a' peccatori e col timor gl'induce
135 a far il bene ed a lassare il male.
E, come la Prudenza è guida e luce
alle vertú moral, cosí questa anco
alle vertú divine è scorta e duce.
E, come senza gli occhi nullo è franco
140 fra' suoi nemici, ed è persona stolta
quella, in cui al tutto ogni prudenza è manco;
cosí colui, al qual la fede è tolta,
va come cieco, e l'avversario el mena
unque gli piace e come vuole el volta.
145 E, se saper tu vuoi la piú serena
loda ch'ell'abbia, attendi e fa' ch'impari
di quanto merto questa fede è piena.
Se promettesse alcun tutti i denari
ad alcun altro, acciò che gli credesse
150 alcuni effetti a suoi sensi contrari,
non sería mai che credere el potesse;
nientemeno el credería per fermo,
senza denari ovver senza promesse,
se fusse ditto a lui dal divin sermo.
155 Allora quel che non puote natura,
a creder l'intelletto non è infermo.
E questo solo avvien, se ben pon' cura,
ché la mente fedel si fonda in Dio,
onde ha autoritá Sacra Scrittura.
160 E, se tu ben attendi al parlar mio,
nulla è maggior offerta e piú eccellente,
nullo olocausto è piú efficace e pio,
che quando volontá stringe la mente,
che tanto crede a Dio, ch'assente quello
165 che pare a' sensi suoi contradicente.
Chi questo fa, non è a Dio rubello. —
Türler ve etiketler
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