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Kitabı oku: «I Mille», sayfa 10

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Usciamo dunque da questo fango dell’umana famiglia, e torniamo sul campo glorioso, e sul sentiero tracciato dai Mille coll’impronta della vittoria, ove la tirannide poteva contemplare que’ suoi indorati, pistagnati e piumati sgherri, fuggendo davanti a un pugno di prodi figli della Libertà italiana.

CAPITOLO XXXVI
LA VITTORIA

 
La vittoria è sul brando del forte
Insoffrente di ceppi e d’oltraggio.
 
(Autore conosciuto).

Nella guerra bisogna vincere, e certo il più grande dei generali è quello che più vinse. Sarebbe meglio la pace, ed io ne sono un discepolo. Ma quando si hanno i ladri in casa, ed i preti, puossi stare in pace con loro?

Dacchè cominciai a pensare, io mi feci il seguente ragionamento: Non sarebbe meglio che gli uomini cercassero d’intendersi fraternamente sulle loro controversie senza uccidersi?

Ma potevasi ciò in Italia, chiamata giardino di Europa, mentre questo giardino, ove i suoi abitanti sudavano per vivervi, doveva servire di villeggiatura a quanta canaglia produceva l’universo, che vi si metteva di casa, e senza nessun lavoro voleva vivere splendidamente a spese dei poveri italiani? E tutti vi trovavano vita doviziosa, mentre chi lavorava il giardino col sudore della fronte, aveva oltraggi, bastonate, e vi moriva dalla fame!

Guerra dunque per metter i ladri fuori di casa! Guerra! E qualche volta sconfitti – ma finalmente beati dal sorriso della vittoria, e da quello preziosissimo delle nostre donne, non contaminate al contatto di mascalzoni stranieri! Sconfitti!.. sì, quando i mali semi della tirannide e del prete, dopo d’aver pervertito, corrotto la nazione, la dividevano in tante parti, ciascuna delle quali troppo debole contro i prepotenti, ed incapace di sostenere l’onor nazionale calpestato.

Così divise le popolazioni nostre, lo eran poi ancora nelle singole loro frazioni, tra volenterosi, indifferenti e birbanti. – Trovandosi i primi in numero minimo, sicchè calunniati, traditi, venduti, finivano per essere espulsi o schiacciati dai ladri.

E quando dico ladri, io non intendo soltanto i ladri di un pane, o d’un grappolo d’uva, ma i grandi ladri, quelli che rubano i milioni collo specioso pretesto di difesa nazionale, i chercuti che rubano al povero popolo l’obolo di S. Pietro per saziare i loro vizi ed assoldare mercenari stranieri; infine i grandissimi ladri che dopo di aver rubato una provincia od uno stato, ne coonestano il furto colla durata del dominio, e colla grazia di Dio, commettendo così il doppio delitto del furto e del sacrilegio!

Amico della pace, è vero, io sono, e me ne vanto. – Comunque, una vittoria sui mercenari del dispotismo, è una gran bella cosa! – La campagna è cospersa di membra; le zolle sono vermiglie di sangue, le grida dei feriti ed il rantolo dei morenti vi assorda. – I cadaveri insepolti, o coperti da strato insufficiente, appestano l’aria, ed il morbo uccide popolazioni intiere. – Meglio sarebbe un banchetto fratellevole. – Ma chi la corregge questa stirpe di Caino? – Non ha dessa i suoi culti alle sue divinità schifose più o meno, dalla cipolla al vitello? – le sue maestà, i suoi principi, il suo patriottismo che equivale all’egoismo massimo, le sue glorie, l’onore della sua bandiera? – e tante altre miserie fittizie oltre alle naturali? – Ma pera il mondo! siam beati della vittoria!

Usciamo da quest’altro letamaio umano, un po’ meno puzzolente di quello dei preti, ma pur sempre letamaio!

L’esercito meridionale procedeva verso la Partenopea Metropoli, sulle ali della vittoria.

I centomila soldati agguerriti del Borbone non osavan più tener fermo al cospetto degli imberbi avventurieri, capitanati dai superbi Mille Argonauti e fuggivano e le lor masse scioglievansi davanti alle giovani schiere dei liberi, come la nebbia davanti al sole.

Nella nostra storia noi eravamo rimasti sulle alture di Villa S. Giovanni, dopo la resa d’una divisione borbonica che ci lasciò molto materiale da guerra, cannoni, fucili, munizioni, cavalli, ecc.; lo stesso successe a Soveria con altra divisione.

Da Villa S. Giovanni alla capitale della meridionale Italia fu una marcia trionfale. – Le popolazioni stanche dell’abbominevole dominio borbonico, acclamavano e benedicevano i valorosi liberatori.

Alcuni incidenti lungo la strada come quelli di Soveria e di Sorrento altro non mostrarono che lo spavento dei nemici d’Italia, e l’aumento di possanza dei nostri in armi, munizioni, gente e prestigio.

CAPITOLO XXXVII
IL 7 SETTEMBRE

 
In quelle stesse vie, già solcate dal trionfo
ove i regi eran dal mondo trascinati ai carri
dei superbi Quiriti!
Quand plus heureux jadis
Aux champs de Partenope
Mes jeunes miliciens ont étonné l’Europe
Essuyant leurs pieds nus sur les tapis des rois.
 
(Autore conosciuto).

Il 7 settembre 1860! E chi dei figli di Partenope non ricorderà il gloriosissimo giorno? Il 7 settembre cadeva un’abborrita dinastia e sorgeva sulle sue rovine la sovranità del popolo, che una sventurata fatalità rende sempre poco duratura.

Il 7 settembre un proletario accompagnato da pochi suoi amici che si chiamavano aiutanti col solo distintivo della rossa camicia, entrava nella superba capitale del focoso destriero39 acclamato da cinquecento mila abitanti, la di cui scossa potrebbe muovere l’intiera penisola dal Mongibello al Cenisio – il di cui ruggito basterebbe a far mansueti e meno ingordi i reggitori insolenti ed insaziabili, od a rovesciarli nella polve!

Eppure il plauso ed il contegno di quel grande popolo valsero nel 7 settembre 1860 a mantenere innocuo un esercito numeroso che trovavasi ancora padrone dei forti e delle migliori posizioni della città, di dove avrebbe potuto distruggerlo.

Il Dittatore facea la sua entrata in Napoli, mentre tutto l’esercito meridionale malgrado le marcie forzate, trovavasi ancora ben distante verso lo stretto di Messina, ed il re di Napoli nella notte dal 5 al 6 abbandonava il suo seggio per ritirarsi a Capua. Il nido monarchico ancor caldo venne occupato dagli emancipatori popolani, ed i ricchi tappeti delle reggie furon calpestati dal rozzo calzare del proletario. Esempi questi che dovrebbero servire a qualche cosa, almeno al miglioramento della condizione umana; ma che non servono per l’albagia e la cocciutaggine degli uomini del privilegio, che non si correggono nemmeno quanto il leone popolare spinto alla disperazione, li sbrana con ira selvaggia, ma giusta, esterminatrice!

I Napoletani come i Siciliani, non secondi a nessun popolo per intelligenza e coraggio individuale, furon quasi sempre mal governati, e sventuratamente molte volte con sul collo dei governi stranieri, che solo cercavano di scorticarli e mantenerli nell’ignoranza.

Ai pessimi governi devesi quindi attribuire il poco progresso in ogni ramo di incivilimento e di prosperità nazionale.

E questo governo sedicente riparatore, fa egli meglio degli altri? Egli poteva farlo! doveva farlo! Ma che! nemmen per sogno; coteste ardenti e buone popolazioni che con tanto entusiasmo avean salutato il giorno del risorgimento e dell’aggregazione alle sorelle italiane, sono oggi… sì, oggi ridotte a maledire coloro che con tanta gioia un giorno chiamaron liberatori!

I giorni passati in Napoli dopo l’ingresso furono consacrati ad organizzar una prodittatura con a capo il venerando Giorgio Pallavicino, quindi a preparare l’esercito meridionale all’offensiva ed alla difensiva, poichè i Borbonici coadiuvati dalla reazione europea, ingrossavano al di là del Volturno.

Frattanto ogni sollecitudine era spinta sino al ridicolo dagli aspiranti al merito di propaganda e d’intrighi per la monarchia-messia, cioè sabauda, i quali avean usato i più ignobili e gesuitici espedienti per rovesciare Francesco II e sostituirlo.

Tutti sanno le mene d’una tentata insurrezione che dovea aver luogo prima dell’arrivo dei Mille, e per togliere loro il merito di cacciar i Borboni, cosa che poteva benissimo eseguirsi, se la codardia non fosse l’appannaggio dei servi.

Non ebbero il coraggio d’una rivoluzione i sabaudi fautori, ma ne avean molto per intrigare, tramare, sovvertire l’ordine pubblico con delle miserabili congiure, e delle corruzioni tra i mal fermi servi della dinastia tramontante. – E quando nulla avean contribuito negli ardui tempi della gloriosa spedizione, oggi che si avvicinava il compimento dell’impresa, la smargiassavano da protettori nostri, sbarcando truppe dell’esercito Sardo in Napoli (per assicurare la gran preda s’intende), e giunsero a tal grado di protezionismo da inviarci due compagnie dello stesso esercito il giorno dopo la battaglia del Volturno, cioè il 2 ottobre.

Era bello veder i regi settentrionali usar ogni specie di fallace ingerenza, corrompendo l’esercito borbonico, la marina, la corte, servendosi di tutti i mezzi più subdoli, più schifosi, per rovesciare o meglio dare il calcio dell’asino a quel povero diavolo di Francesco – che finalmente era un re come gli altri, con meno delitti, senza dubbio per non aver avuto il tempo di commetterne, essendo giovane ancora – e rovesciarlo e sostituirvisi e far peggio!

Sì, era bello il barcamenare di tutti que’ satelliti, diplomatizzando col re di Napoli, facendola da alleati suoi, cercando di condurlo a trattative paterne, con promettergli forse, che ci avrebbero proibito di passare il Faro, d’accordo col Bonaparte, come già accennavamo, con un vascello francese nello stretto, e la marcia celere dell’esercito settentrionale verso il mezzogiorno40, ed infine attorniandolo d’insidie e di tradimenti.

Oh sì! se non avessero tenuta per tanto preziosa la loro brutta pelle, essi potevano facilmente compiere una rivoluzione e presentarsi all’Italia come liberatori.

Che bella cosa se potevano far stare con tanto di naso i Mille, e la democrazia italiana tutta!

Ma sì! sono i bocconi fatti che vi piacciono, signori liberatori dell’Italia a grandi livree! e quanti fastidi non dovete aver avuti in quello splendidissimo 7 settembre, di udire la più grande delle moltitudini italiane, acclamare altri e non voi – e se la voce di qualche ingannato o di creatura vostra, vociferava il vostro nome, voi certo sentivate nella miserabile vostra coscienza di non averlo meritato.

Anche a Palermo, com’era naturale, tramavano i fautori della monarchia sabauda e gettavano contro i Mille la diffidenza tra la popolazione, spingendola ad un’annessione intempestiva.

Essi mi obbligarono di lasciar l’esercito sul Volturno alla vigilia di una battaglia per recarmi nella capitale della Sicilia a placare quel bravo popolo, suscitato dai cavouriani agenti.

Assenza che costò all’esercito meridionale la sconfitta di Caiazzo, unica in tutta quella gloriosa campagna, che scosse alquanto il prestigio dell’esercito vincitore e rimontò non poco il morale dei borbonici.

CAPITOLO XXXVIII
LA LIBERTÀ

 
Libertà mal costume non sposa,
Per sozzure non mette mai piè.
 
(Berchet).
 
È libero chi lo merita.
 
(Tucidide).

«Libertad para todos-y si no espara todos-no es tal libertad!» questa è l’epigrafe di un giornale democratico spagnuolo, redatto da amici miei, e sono veramente dolente di trovarmi lontano dal loro parere.

Credo non vi debba esser libertà per le zanzare e per le vipere, per gli assassini, per i ladri, per i tiranni e per i preti, ch’io tengo tanto o più nocivi dei primi.

E voi, popoli corrotti, volete esser liberi? Scendete nella contaminata vostra coscienza, e ditemi se vi sentite capaci da tanto; – ditemi se gli occhi vostri sono capaci di fissare il sole della libertà senza abbagliarsi!

La libertà poi è un ferro a due fendenti. – L’autocrate è il più libero degli uomini, e della libertà si serve generalmente per nuocere – il proletario, che più d’ogni altro ha bisogno di libertà, quando giunge a possederla, la prostituisce, oppure la trasforma in licenza.

Voi mi direte che foste ingannati, uomini del popolo, quando vi corruppero, quando vi fecero gridar: viva la morte! – e quando vi condussero a gettar nell’urna il vostro voto per un ladro, un servile, od un tiranno! Ma voi vi lasciaste condurre – perversi! Vi lasciaste ingannare con conoscimento di causa per aver una mercede, o per esser da un perverso protetti!

«Ma fu un sacerdote, il mio curato, un ministro di Dio che mi condusse all’urna». – Sì, e ci vuol molta matematica per conoscere che un prete è un impostore?

No, non vi è discolpa: per esser libero, bisogna esser onesto – meritare di esserlo, in poche parole!

Trascinato qualche volta da scetticismo o da misantropia, io maledirei d’esser nato, d’appartenere a questa famiglia di scimmie, sì poco degne di libertà! e che tanto libertà millanta anche quando incatenata per il collo! Ma considerando poi che sono anch’io della famiglia, che ho commesso degli errori anch’io, e che ho la mia dose di presunzione, per amor proprio sono alquanto più condiscendente cogli altri.

Comunque, difettoso come sono anch’io, non ho mancato di ascoltar la voce della ragione, e seguirne i dettami.

Io l’ho capito che il consorzio del dispotismo e del prete, ambi basati sul godimento delle sostanze altrui, non potea sostenersi che con la menzogna e la corruzione. – Il dispotismo mascherato da liberale o no, e attorniato di avidi satelliti comprime le aspirazioni dei popoli colla forza; ed i preti, suoi protetti, coadiuvano il consorte pervertendo le masse. Libertà (come Giano) è una dea bifronte, ed in ciò somiglia alle sorelle giustizia e legge. – In Italia, per esempio, voi avete una caterva di servi che con aria di buona fede mi millantano la libertà, le leggi, la giustizia, come benefizi sacrosanti in questa nostra venturosa penisola.

Ebbene: guardatemi il primo articolo della legge fondamentale dello Stato: una menzogna!

Per libertà, chiedetelo ai giornali che ardiscono dirla: giustizia! Domandatene notizie al prode colonnello Lobbia: giustizia! – Io ho veduto un povero milite passato per le armi, per aver rubato una pistola da servirsene per una causa santa. – E Badinguet (Bonaparte) acclamato dal gran popolo della Bretagna, egli che rubò soltanto alcuni milioni, e fece uccidere milioni d’innocenti!

Giustizia! Leggi! – L’Europa ha una massa di legislatori, che ciarlano da mane a sera, ed assordano il mondo; ed il mondo non ha mai avuto un bordello simile a quello che presenta l’odierna colta e legislativissima Europa.

E Marzia? Povera Marzia! sì bella, dotata di un cuore d’angelo e di leone, un’eroina da illustrare un grande popolo, preda sventurata degli scarafaggi umani, che hanno torturato il canuto genitore, che la torturarono e la prostituirono! Anatema! Maledizione!

E vi è un popolo che si tenne per il maggior di tutti i popoli, i di cui individui apprezzavano il titolo di cittadino romano, non quello di monarca.

Una matrona di quel popolo si teneva maggiore d’una regina, ed avrebbe avuto per disdoro lo esser chiamata tale!

E quel popolo oggi si strugge, si calpesta, muore soffocato per contemplare il grande spettacolo, la solenne conversione, ed infine per ottenere la santa apostolica benedizione dal padre degl’impostori e dei cretini!

Libertà, giustizia, leggi! Io mi copro il volto dalla vergogna di appartenere a questa razza di micchetti che gridano libertà colla museruola alla bocca, o colla cuffia del silenzio sul cranio. – Povera Marzia! dopo la solenne, buffona, infame cerimonia della conversione, il suo carnefice che l’avea vituperata bambina, la fece ricondurre nel convento di S. Francesco da quelle stesse monache, da cui aveva avuto la fortuna di fuggire, e che per vendetta non solo la custodiranno gelosamente, ma gelose della squisita di lei bellezza, la martorieranno con tutta la raffinatezza di cui sono capaci coteste megere che mai conobbero l’amore di madre, o se lo conobbero, lo seppellirono nell’ossario, ove dormono ammonticchiate e confuse le vittime della lussuria e della libidine pretina!

Povera Marzia! La sveglia guerriera di Montevideo non ti desterà più per respirare le deliziose e balsamiche aure dell’aurora, per fiutare il marziale clangore dei campi di battaglia, ove armata del tuo moschetto, svelta come la gazzella dei campi Argentini41 tu colpivi col calcio, sdegnando il ferro, le curvate spalle dei servi della tirannide.

CAPITOLO XXXIX
L’AMORE

 
Che amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candidissimo adornando
Depose in grembo a Venere celeste.
 
(Foscolo).

Sacerdotessa dell’amore! Immagine squisita dell’Infinito42– se l’Infinito potesse avere un’immagine! Capo d’opera dell’umana famiglia ed educatrice che ingentilisce questa rozza creta! – e che sarebbe senza di te il mondo, o donna? il mondo sconoscente a tanta grandezza dell’essere tuo? E tu!.. sciagurata nella tua bellezza, o dominatrice? Ingrata alla prodiga di te innamorata natura – ti prostri ai piedi d’un rettile ed a lui sacrifichi patria, marito, figlio, e sovente diventi una prostituta negli amplessi avvelenati del tentatore! Tale, – o donna, – del prete!

E tale fu la contessa Virginia N… precipitata nella via di perdizione dal gesuita Corvo. – Bella, spiritosa, piena di nobili sensi; da giovinetta essa era una delle più splendide e preziose fra le bellissime figlie di Roma, e perciò condannata nella corruttissima metropoli alle brame disoneste dei porporati.

Da quel giorno la venustà della contessa appassiva come il fiore sullo stelo al soffio malefico dello scirocco.

Era ancor bella nei tempi da noi descritti, e felice il mortale che n’era beato d’un sorriso, ma le sue guance eran pallide, le una volta folgoranti sue luci eran languide, ed ogni atto della vezzosa persona, portava l’impronta del tedio, e segnava le tempeste della travagliata anima sua.

Amore! quell’amore celeste che innalza la creatura al disopra delle sozzure umane, che la spinge all’eroismo, che la santifica! essa lo presentiva, ma il serpe che l’avea tentata, sedotta, trascinata nel fango, l’avea bensì ingolfata nella lussuria di godimento brutale, ma il chercuto non era stato capace d’infondere la celeste scintilla. E come l’avrebbe potuto un prete? Un prete, la di cui esistenza s’inizia colla menzogna, segue con essa irrevocabilmente e col delitto, e termina finalmente col sacrilegio!

Povera giovine! inaridita nell’alba della sua vita ogni fonte della poesia, dell’ideale umano, l’essere avea perduto ogni dolcezza per lei, e le diventava ognor più insopportabile! Di natura forte, capace di generosi propositi, ad essa veniva sovente la smania di togliersi la vita.

Essa avea creduto di amare il Corvo da principio, quando ingannata, era stata involta nell’atroce setta, ove le furon strappati terribili giuramenti. – Ma progredendo nella vita, potendo per sè stessa apprezzare tutte le nefandezze loiolesche, e l’indole profondamente scellerata del suo seduttore, sparivano le illusioni usate per ammaliarla, e l’ardore con cui avea servito la nera falange, cambiossi a poco a poco in odio mortale.

Un giorno degli ultimi d’agosto del 60 l’atmosfera insalubre di Roma s’era impregnata di sì letale umore da farti cercare un ricovero e fuggire da quella pestilenza. – Gli affaccendati correvan per le strade scappellati, fiatando davanti a loro come in cerca d’aria più pura, e correvan sollecitando i proprii affari per presto giungere in casa e ripararsi dall’afa micidiale. Degli sfaccendati non ne scorgevi, essi eran nascosti nel più recondito dei loro palazzi, ordinando l’ermetica chiusura delle imposte e assaporando sorbetti ghiacciati, chè ogni altro appetito era scomparso.

Eran le 4 pomeridiane, e dall’Apennino si scorgeva innalzarsi quel tetro, plumbeo, intenso nembo, precursore infallibile della tempesta. – E per minacciosa e terribile che fosse questa, essa era inferiore alla densa tempesta che travagliava l’anima della contessa. – Tutti avean chiuse le imposte, ed essa aprì quelle della sua stanza da letto, guardando a levante, cioè verso il nembo.

Tutti fuggivano dall’imminente temporale che si faceva minacciosissimo, e dall’afa. A lei le strade deserte, i lampi che già cominciavano a solcare il firmamento, i tuoni che già rimbombavano, e lo stato orribile del suo cuore, mossero la voglia di uscire al passeggio.

Da molto tempo sdegnando le femminili eleganze, essa raccolse in una reticella una bellissima chioma, si avvolse in un ampio sciallo, e accompagnata da una sola fantesca, s’incamminò quasi fuggendo la foga dei pensieri che la torturavano.

Il palazzo della contessa Virginia N… era occupato da essa e dalla madre attempata e bachettona, con numerosa servitù, giacchè la nostra eroina non solo apparteneva a cospicua famiglia, ma ricchissima, uno dei motivi principali delle sollecitudini degli avoltoi del sanfedismo. – Codesto superbo edifizio, come lo sono generalmente i palazzi del patriziato romano, ergevasi sontuoso sulla piazza S. Grisogono in Trastevere (non so ove diavolo i chercuti abbiano dissotterrato questo santo: sarà senza dubbio qualche parente di quel Griso che arrestò D. Abbondio).

La contessa uscì dal portone marmoreo della sua abitazione, ed avviossi celere per la Longaretta verso il Tevere a Ponte Rotto. – A quel ponte, metà in ferro, trovansi generalmente dei navicelletti; essa accennò ad un barcaiuolo conosciuto, ed avvicinata la barca alla sponda vi discese dentro frettolosamente indicando all’uomo coll’indice «in giù».

La fantesca, amante della sua signora, non l’aveva veduta sì agitata giammai; – e quando il nocchiero disse alla padrona «Guardi, signora, che noi presto avremo una tempesta», la ragazza in atto supplichevole la guardò, senza ardire di articolar una parola, con tanta eloquenza negli occhi da impietosire uno scarafaggio.

La contessa però, come abbiam veduto, era buona e generosa, ma altiera ed ostinata nelle sue risoluzioni, quasi avesse ereditato il carattere delle antiche matrone di Roma; – essa non manifestò dispetto impaziente, ma il suo silenzio equivaleva a un comando.

Il motivo della passeggiata era per distrarsi, per fuggire ai rimorsi della solitudine – e chi sa non balenasse nella mente della bella infelice il pensiero della distruzione!

Il nembo da levante s’era limitato a qualche grosso gocciolone di pioggia, e siccome a quella direzione il vento veniva a traverso del fiume, poca agitazione vi aveva suscitato; – comunque come negli uragani, il forte del temporale, dopo d’aver girato i tre quarti della bussola, erasi spaventosamente condensato a libeccio, e da quella parte scatenò una bufera… una bufera da far impallidire il più coraggioso navigatore.

Colla direzione da libeccio, il vento incontravasi e contrastava colle onde veloci del Tevere, scorrendo in una direzione opposta, e coll’urtarsi innalzavano marosi tali da non cederla ai rabbiosi ruggiti e sconvolgimenti di Scilla e Cariddi.

Manlio, il nocchiero della Contessa, che tale si stimava, avendola servita in ogni circostanza e sin da bambina, aveala prevenuta della tempesta e del pericolo, ma siccome è solito negli uomini coraggiosi di ripugnare nel mostrar paura, così il valoroso nauta mordevasi le labbra, ma non ardiva più consigliare la distratta signora.

Si era giunti alle rovine dell’antico ponte Sublicio, pur non volendo pericolare la vita e quella della generosa protettrice, Manlio cercò di ripararsi dalla bufera nell’angolo formato da una pila del ponte e dalla sponda destra del Tevere. – Poveraccio! ei non calcolò che riparato dal soffio impetuoso dell’ostro, la corrente del fiume padroneggerebbe il leggero palischermo sì, da spingerlo con violenza fuori della pila, e quindi nell’urto rabbioso dell’onda tra i marosi ed il Tevere ambi accaniti ad infrangersi, piuttosto di cedere il passo. Appena la barchetta incontrossi in quel frangente, non fu più possibile a Manlio di governarla, e presentando essa il traverso alle onde fu in un momento sommersa.

Il nocchiero coraggioso come lo sono generalmente la gente di mare, lanciossi al soccorso della Contessa, ma Lisa, la fantesca, gli vietò il successo di tale generosa risoluzione, abbrancandosi in modo al corpo di Manlio da non poter esserne staccata da forza umana. Poverina! essa amava molto la buona padrona, e forse in altra circostanza avrebbe rischiato la propria vita per salvarla, ma qui il caso era troppo terribile e al disopra del coraggio e del sangue freddo della giovinetta avvolta in tali frangenti, e da far raccapricciare i marini più valorosi. Il fatto sta che Manlio e Lisa in un solo gruppo nuotarono nei gorghi del fiume, scomparendo e ricomparendo alla superficie in modo lamentevole e fatale.

Alla Contessa vi volle la catastrofe, la freschezza dell’onda ed il prospetto della morte, per distrarla dallo stato di disperato stupore e maledizione della vita in cui l’avevano immersa i ministri del demonio.

Essa mai disse se si pentiva in quel momento d’aver abbandonato la casa materna, e cercato il pericolo e la morte; – e dall’abbandono, dalla rassegnazione con cui essa si avvolse nel suo sciallo, e si abbandonò all’orrendo suo fato, senza un grido od uno sforzo per salvarsi, si poteva congetturare, esser essa disposta a finire una sventurata esistenza.

Ma non era giunta l’ora finale della bella infelice. Mentre travolta nei gorghi, la sua salma ora abbandonata ai capricci dei flutti, ed il suo spirito forse già rivolgevasi a quell’Infinito che tutto racchiude, e che probabilmente tutto regge – quell’Infinito da sostituirsi ragionevolmente alle menzogne dei preti, il di cui culto può solo, propagato dalla scienza, illuminare ed affratellare tutte queste razze d’insetti che brulicano sulla superficie d’uno dei mondi minori – in quel mentre, dico, una mano d’acciaio la stringeva sul destro braccio e la sollevava come una bambina dall’onda, per riposarla sul marciapiede d’una scalinata di granito alla sponda destra dei Tevere.

Nel forte della tempesta, quel sito era rimasto deserto, ma siccome i nembi estivi non sono durevoli, presto la calma successe al temporale, e la gente ricominciò a circolare anche nel luogo della catastrofe; per cui la bella naufraga fu presto trasportata al coperto.

La prima casa vicina accolse la vezzosa svenuta, ed alcuni cordiali la resero alla vita. – Un giovane di marziali fattezze stava al suo capezzale, e per sorte, nella folla che circondava il suo letto, colui fu il primo su cui fissaronsi gli occhi della contessa quando tornò in sè. Aprir gli occhi, fissarli sul suo salvatore, scuotersi e tentar di spingersi verso di lui, fu tutto un momento. E chi avea detto alla sedotta dal gesuita che colui l’avea tratta dall’onda, da morte certa, col pericolo della propria vita? L’avea essa scorto mentre travolta nei frangenti? Impossibile! O forse quella corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote degli umani, di cui ci narra Foscolo, avea penetrato, o trovavasi senza dubbio nell’anima della sventurata nobile romana? – Forse in quei sogni di felicità che cullano ogni creatura, essa avea sognato, veduto nel delirio della immaginazione esaltata, tale bellissima e fiera figura, e s’era fatto un idolo di colui che ora è realmente davanti ad essa?

Comunque, quando Muzio (perchè altro non era che il nostro prode romano) fu certo che la donna salvata era fuori di pericolo, e si mosse verso la porta della stanza per partire, la contessa lo seguì cogli occhi, e vi volle tutta la verecondia femminile perchè non chiamasse e non scongiurasse a stare presso a lei il suo salvatore. L’arrivo di Lisa, salvata anch’essa dal coraggioso Manlio, ed in uno stato consimile a quello della sua signora, contribuì pure a distrarre ognuno dalla scena descritta. Da quel momento l’esistenza della contessa fu completamente trasformata. La lacuna la più interessante della vita donnesca s’era riempita, le brutali libidini gesuitiche caddero davanti all’amore celeste suscitato in lei da un uomo. Sì, da un uomo, e non da un gesuita, da un sacerdote della menzogna! E dico suscitato, e non creato, perchè quel celeste, amoroso senso esiste nell’anima nostra, se coltivato, se spinto verso la sua natura gentile, ma viene deviato, prostituito, distrutto, quando la graziosa creatura cade sotto il soffio appestato del tentatore.

Il nuovo stato dell’anima sua contribuì non poco a ristabilirla. Essa smaniava di trovarlo, di vederlo, di saper chi era il suo liberatore; quella bella bronzata, maschia sua fisonomia che dovea certamente albergare l’anima d’un generoso, d’un eroe! tale come lo aveva veduto sognando.

Essa smaniava, delirava, temeva di non più incontrarlo, ed avrebbe voluto precipitarsi dal letto nella sua impazienza malgrado le ammonizioni di coloro che la custodivano.

Solo un sentimento di ribrezzo, più forte di ogni altro, che quasi superava il primo, la tratteneva, la disperava, le faceva nascondere il volto tra le coltri per non esser degno di luce. Essa!.. era stata l’ancella d’un nemico del genere umano! E tali sembravano a lei oggi i settari del Sanfedismo!

39.Emblema di Napoli.
40.Non scordi il lettore il dispaccio di Farini a Buonaparte: «Noi marciamo con quarantamila uomini, per combattere la rivoluzione personificata, cioè i Mille».
41.Di Buenos-Ayres.
42.Ricordi il lettore che per Infinito io intendo lo spazio, lo universo, Dio, ecc. – Accenno, ma non insegno.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
320 s. 1 illüstrasyon
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